Piketty e la contraddizione fondamentale del capitalismo: r>g

Franzini esamina quella che Piketty chiama la “contraddizione fondamentale del capitalismo” e cioè la tendenza del tasso di rendimento sul patrimonio a eccedere il tasso di crescita del reddito. Dopo avere illustrato le implicazioni di questa eccedenza per la disuguaglianza e averne valutato criticamente l’importanza, Franzini illustra alcuni interventi in grado di contenere le disuguaglianze e, più specificamente, quelli che potrebbero permettere un riavvicinamento tra i due tassi.

Uno degli aspetti distintivi del libro di Piketty – e quasi certamente una delle chiavi del suo successo – è il tentativo di semplificare ciò che semplice non è, di cercare di racchiudere in poche essenziali relazioni fenomeni che per loro natura oppongono molta resistenza a questa strategia di “prosciugamento” della complessità. C’è motivo di credere che Piketty abbia lucidamente deciso di accollarsi le critiche di superficialità, se non di imperizia analitica, che questa sua strategia, almeno in alcuni casi, gli è costata, considerandole il prezzo da pagare per attirare l’attenzione su problemi normalmente sepolti sotto una spessa coltre di indifferenza o di inconsapevolezza. Una delle sfide che Piketty lancia è proprio questa: impedire alla complessità di allontanare l’attenzione dai problemi, scegliendo una semplicità che si serve di “approssimazioni” non deformanti (o molto poco) e che presuppone una straordinaria lucidità nell’inquadramento dei problemi. E’ decisamente una sfida da raccogliere.

Nelle Conclusioni, Piketty enuncia quella che chiama la contraddizione fondamentale del capitalismo, si tratta di una semplicissima relazione: r>g, cioè la tendenza del tasso di rendimento del capitale (che, d’accordo con quanto dice Paladini nel suo articolo in questo numero del Menabò, sarà meglio, come farò, chiamare patrimonio) a eccedere nel lungo periodo il tasso di crescita del reddito. Questa divergenza – che la poderosa massa di dati ai quali egli attinge permette di fissare per i paesi sviluppati in circa 3 punti percentuali, essendo r pari a più del 4% mentre g supera di poco l’1% – implica che il capitale crescerà più rapidamente del prodotto e dei salari e renderà conveniente all’imprenditore trasformarsi in rentier. Questa sarebbe la contraddizione.

Forse qui Piketty si concede una perdonabile forzatura sottolineata dall’uso dell’espressione “contraddizione del capitalismo” che peraltro offre, a chi lo volesse, un’occasione in più per avvicinarlo – con sollievo o raccapriccio, a seconda dei casi – a Marx. Ma al di là di ciò, il rapporto tra r e g è una chiave di lettura potente delle tendenze in atto nel capitalismo e delle loro implicazioni per la disuguaglianza. Avere attratto l’attenzione su quel rapporto è un grande merito di Piketty. E di certo non è un caso che su di esso si sia aperto un vivace dibattito di cui dà conto Lepri nel suo articolo in questo numero del Menabò.

Restando strettamente al tema delle disuguaglianze, r>g può dirci cose molto interessanti sulla loro dinamica, e Piketty non manca di sottolinearle. Il punto di partenza è una banale osservazione: se, nel corso del tempo, il reddito dei già ricchi cresce più velocemente del reddito di chi ricco non è, le disuguaglianze aumenteranno. Sarà forse poco appropriato considerare questa divergenza una “contraddizione del capitalismo” ma si potrà, più misuratamente, dire che essa prova che il capitalismo non sta corrispondendo alle attese che avevano accompagnato la sua nascita, una delle quali era di porre fine alle aberrazioni inegualitarie dell’antico regime.

Ora se r>g, anche grazie al concorso di altre favorevoli (o sfavorevoli) condizioni che i dati permettono di considerare soddisfatte, accadrà proprio che il reddito dei ricchi crescerà più rapidamente di quello degli altri.

Partiamo dal Patrimonio (P) che, come è accennato, è un grandezza diversa dal capitale perché include ogni attività che dia un rendimento, quindi non solo mezzi di produzione ma anche immobili, strumenti finanziari, brevetti e altri beni immateriali. Se il tasso di rendimento medio di P è r, i possessori di P (che in assenza di termini migliori chiamerò rentier) riceveranno un reddito pari a r*P. D’altro canto il loro P crescerà dell’ammontare del risparmio che effettueranno. Se la quota di reddito risparmiata dai rentier è sp, P crescerà anno dopo anno al tasso r*sp. Per i non-rentier, invece, il reddito cresce approssimativamente al tasso al quale si espande il reddito complessivo, cioè g. Dunque, quando r*sp >g il reddito dei rentier cresce più velocemente di quello di tutti gli altri. Inoltre, se P è concentrato in poche mani, come di fatto è, il reddito dei rentier – o di gran parte di essi – sarà molto elevato; in altri termini, essi saranno i ricchi e, per conseguenza, r*sp>g implica che il reddito dei ricchi aumenterà più rapidamente di quello degli altri, mentre anche il Patrimonio sarà sempre più concentrato nelle mani di pochi.

Dunque, la condizione cruciale è r*sp>g e non r>g. Di questo Piketty è certamente consapevole: basta scorrere le molte pagine in cui fa riferimento al risparmio dei rentier per averne conferma. Tuttavia la versione più semplice è una tollerabile approssimazione perché sp ha valori prossimi a 1.

Limitarsi a considerare i valori medi di r e g significa trascurare che il rendimento dei patrimoni individuali può essere molto diverso e così anche i tassi di crescita dei redditi individuali da lavoro. Se ammettiamo la possibilità che sia gli r sia gli sp possano essere diversi occorre chiedersi se queste variabili siano più elevate o più basse per i più ricchi tra i rentier. I dati lasciano pensare che esse siano più alte per i più ricchi (fanno fruttare meglio il proprio P e risparmiano di più) e ciò implica che, tenendo conto della varianza all’interno del gruppo dei rentier, il quadro peggiora: le distanze che separano i più ricchi tra i ricchi da tutti gli altri tenderanno a crescere ancora di più.

Quanto alla variabilità di g, Piketty mette bene in evidenza che, negli ultimi tempi e in molti paesi, alcuni “lavoratori” (cioè soggetti che non derivano il proprio reddito dal rendimento del patrimonio) hanno guadagnato redditi elevati e fortemente crescenti, come mostra anche la scheda di FraGRa che accompagna questo Menabò. Si tratta soprattutto, ma non soltanto, dei super-manager. Il reddito di questa piccola quota di lavoratori è certamente cresciuto più di g e anche più di r, e ciò ha permesso loro non solo di accorciare le distanze che li separavano dai rentier – e, grazie ai cospicui risparmi di diventare essi stessi rentier – ma anche, almeno in alcuni casi, di superarli. Se, come sembra essere accaduto, alla crescita maggiore dei redditi di questi pochi lavoratori ricchi corrisponde una crescita minore dei redditi di tutti gli altri lavoratori, si amplieranno le distanza tra questi ultimi e chi sta nelle parti più alte della scala distributiva. Forse, sebbene sia stato negli anni scorsi il precursore degli studi sui top incomes, nel libro Piketty non dà tutta l’importanza che merita a questo fenomeno.

Si può, quindi, concludere che, pur con qualche necessaria qualificazione, il rapporto che corre tra r e g è cruciale per l’analisi delle disuguaglianze ed è un merito di Piketty quello di avere proposto questa chiave di lettura. Ma perché r è maggiore di g? E quali relazioni legano queste due variabili tra loro e, eventualmente, ad altre anch’esse importanti per la dinamica delle disuguaglianze? Infine, cosa si può fare per avvicinare g a r e, più in generale, per combattere le disuguaglianze?

Le risposte a queste domande non sono semplici e nell’affrontarle Piketty è, in generale, meno brillante che nel ricostruire i meccanismi e i fatti della disuguaglianza. In realtà, egli non propone alcun convincente schema teorico in grado di cogliere le relazioni tra le variabili e quindi di predire gli effetti che potranno avere diversi possibili interventi. D’altro canto, le teorie della crescita elaborate dagli economisti – inclusa quella di Solow alla quale Piketty fa qualche riferimento – sono poco appropriate per esprimersi su questa materia. Non soltanto perché in queste teorie la distribuzione dei redditi o è del tutto assente o, quando è presente, come nei modelli cosiddetti neo-keynesiani, non svolge un ruolo incisivo nel determinare il tasso di crescita, ma anche perché in quelle teorie è contemplato solo il capitale, inteso come insieme di mezzi di produzione mentre qui rileva il complessivo patrimonio – e nell’analisi della distribuzione è giusto che sia così. Il patrimonio, in buona parte, non costituisce un input produttivo dal quale dipendono anche le possibilità di crescita del sistema economico e anche per questo si può ipotizzare che r non cada man mano che esso cresce, come invece potrebbe più facilmente accadere se si trattasse di capitale soltanto.

In assenza di un quadro teorico soddisfacente, le spiegazioni della dinamica di r e g, da un lato, e l’analisi dei probabili effetti di auspicabili interventi di policy, dall’altro, saranno necessariamente frammentarie. Mi limito a qualche considerazione, soprattutto nella prospettiva della policy.

Se il patrimonio ha diverse componenti si pone il problema di intervenire selettivamente su ciascuna di esse per limitarne il rendimento. Ad esempio, rispetto ai brevetti occorrerebbe una revisione delle forme di tutela dei diritti di proprietà intellettuale, di cui peraltro si è molto discusso. Rispetto alle attività finanziarie si rende necessaria una diversa regolazione dei corrispondenti mercati, anch’essa ampiamente all’attenzione. Al riguardo si può anche osservare che agli elevati rendimenti finanziari concorre spesso una strategia di investimento fortemente orientata all’assunzione di rischi, nella consapevolezza che in caso di esito negativo non si sopporteranno costi elevati. Più precisamente, se quando le “bolle” scoppiano i danni sono assenti o limitati, non solo si sarà incoraggiati a prendere molti rischi ma si avrà anche il vantaggio di non vedere, grazie agli interventi di salvataggio, eroso il proprio patrimonio. Dunque, il tasso di rendimento finanziario di lungo periodo sui patrimoni dipende anche dalle politiche che si adottano in occasione delle crisi finanziarie.

Rispetto a g la strategia ideale dovrebbe essere quello di elevarlo sostenendo i salari più bassi. In principio questo è possibile: se i salari crescono può trarne vantaggio sia la domanda sia la produttività, a parità di capitale, per effetto dell’impatto che i salari più elevati possono avere sull’efficienza dei lavoratori. Ma le reazioni delle imprese possono vanificare questa strategia e qui, giusta la considerazione di Piketty, molto dipende anche dal tasso di rendimento sui patrimoni che potrebbe consigliare di rivolgersi alla finanza piuttosto che all’impresa.

Potrebbe poi essere importante anche una strategia che, tenendo conto delle due tipologie di lavoratori, cerchi di frenare la crescita del reddito dei più ricchi sostenendo quella dei più poveri. Questo può essere fatto, nel caso dei supermanager, intervenendo sui meccanismi della corporate governance ma, più in generale, riscrivendo alcune “regole del gioco” in modo da introdurre maggiore concorrenza laddove i redditi elevati sono il frutto di un vantaggio consentito proprio dalla limitata concorrenza.

In conclusione, per far fronte al problema individuato da Piketty occorre una pluralità di interventi e non soltanto il ricorso alla tassazione sui patrimoni che egli auspica. D’altro canto, l’efficacia di ciascuno di essi è difficile da stabilire a priori e, comunque, certamente dipende dal superamento di molti ostacoli. Ciò non può sorprendere. La correzione delle disuguaglianze cozza contro interessi e meccanismi che nel capitalismo contemporaneo si sono molto rafforzati e il lavoro di Piketty ci aiuta a comprendere a fondo la dimensione politica e istituzionale dei problemi che abbiamo di fronte e a dubitare che ad essi possa darsi soluzione in assenza di una riscrittura anche radicale di alcune regole del gioco.

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