Piketty e i dati

I dati sono la principale “ricchezza” del lavoro di Piketty. Brandolini ci ricorda che, riallacciandosi a Kuznets , Piketty ha utilizzato le tabulazioni per classi di reddito delle entrate assoggettate alle imposte sui redditi per identificare la quota di reddito che va ai più ricchi. Inoltre, egli ha studiato in modo innovativo i dati sulla ricchezza e il loro rapporto con il reddito. Secondo Brandolini la scelta metodologica di ricostruire meticolosamente lunghe statistiche storiche distingue nettamente Piketty dal modo prevalente di fare economia oggi.

Nei primi anni cinquanta Simon Kuznets rimarcò, nel suo monumentale studio sulla distribuzione dei redditi negli Stati Uniti (Shares of Upper Income Groups in Income and Savings, 1953), che mai nelle statistiche si era registrata una caduta della quota del reddito dei più ricchi paragonabile, per “dimensione e persistenza”, a quella che aveva documentato per il periodo tra il 1929 e il 1946. Era un risultato di formidabile portata. Per Kuznets, rappresentava un’evidenza decisiva per giustificare la sua ipotesi che nel lungo periodo la disuguaglianza dei redditi segue un profilo a “U rovesciata” e tende quindi a diminuire man mano che lo sviluppo economico procede verso stadi più maturi, dopo essere aumentata nella prima fase dell’industrializzazione. Per Arthur Burns – direttore della ricerca del National Bureau of Economic Research (NBER), poi chairman del Council of Economic Advisers del Presidente Eisenhower e, negli anni settanta, del Board of Governors of the Federal Reserve System – era il segno di “una trasformazione condotta in modo pacifico e graduale, ma che può già essere considerata una delle grandi rivoluzioni sociali della storia”, come scriveva nel 31st Annual Report dell’NBER nel 1951 (pp. 3-4).

I dati per la prima volta raccolti da Kuznets erano di straordinaria rilevanza analitica, ma l’enfatica sottolineatura di Burns non può essere compresa se non collocandola nel particolare momento storico. Lo chiarisce bene la conclusione del suo testo:

“Per forza di cose, gran parte dei ragionamenti oggi riguarda questioni militari. Ma la lotta tra le democrazie occidentali e il comunismo è fondamentalmente ideologica: non dobbiamo permettere che il suo aspetto militare oscuri questo fatto. È un errore grave considerare il comunismo come la cospirazione di una cricca senza scrupoli per conquistare il dominio del mondo. Questa cricca esiste, ma il suo potere deriva dall’abilità di approfittare degli impulsi idealistici dell’uomo. Lottare per la pace nel mondo, per la giustizia nella distribuzione dei redditi, per standard di vita più alti, per la sicurezza del lavoro e della casa, per la protezione contro i rischi della malattia e della vecchiaia – queste sono tutte naturali espressioni della cultura dei nostri giorni. Il comunismo ha guadagnato terreno promettendo un futuro di pace e felicità a un mondo preoccupato e in parte affamato, sfruttando ogni nostro difetto e sviando l’attenzione dai nostri risultati concreti” (p. 18).

Quel lontano episodio è strettamente connesso con lo straordinario volume appena pubblicato da Thomas Piketty, Capital in the Twenty-First Century, per due aspetti cruciali. Il primo riguarda il vincolo indissolubile che lega giudizio normativo e analisi della disuguaglianza. Il discorso sulla distribuzione del reddito e della ricchezza è inevitabilmente un discorso sulla giustizia sociale: possiamo discutere su quali disuguaglianze siano giuste, ma è illusorio pensare che si possa condurre un astratto ragionamento neutrale, in punto di teoria economica. Che l’aspetto analitico e quello normativo siano intrinsecamente legati è chiaro fin da quando Vilfredo Pareto utilizzò come argomento scientifico contro i movimenti socialisti e radicali la sua conclusione empirica, infondata, che la disuguaglianza dei redditi dipende “… molto più dalla natura stessa degli uomini che dall’organizzazione economica della società” (Cours d’économie politique, 1897; trad. it. 1971, p. 1047).

Proprio su questo piano Piketty critica Kuznets, uno degli indubbi eroi del suo volume, accusandolo di aver “innocentemente” suggerito che la diminuzione della disuguaglianza era dipesa dalla logica interna dello sviluppo economico: “in gran parte, … la teoria della curva di Kuznets era un prodotto della Guerra Fredda” (p. 14). La lunga citazione di Burns conferma il punto: il sollievo che derivava dall’osservare che la “pacifica trasformazione” messa in atto dall’economia capitalista rispondeva alle “naturali espressioni della cultura dei nostri giorni”, indebolendo le ragioni di malessere sociale di cui si alimentava la minaccia comunista.

“La storia della distribuzione della ricchezza – scrive Piketty – è sempre stata profondamente politica e non può essere ridotta a meccanismi puramente economici” (p. 20). Consapevole che anche lui potrebbe essere accusato di nutrire un pregiudizio ideologico, seppur antitetico, rivendica quindi di “essere vaccinato a vita contro la convenzionale ma pigra retorica anticapitalista”, che troppo spesso ha ignorato il fallimento storico del comunismo, e dichiara di voler invece contribuire “al dibattito sul modo migliore di organizzare la società e sulle istituzioni e politiche più appropriate per raggiungere un giusto ordine sociale” (p. 31). Quand’anche ci si mostrasse scettici di fronte a quest’intento illuministico – non io, per eliminare fraintendimenti – non si può più evitare, però, di misurarsi sul terreno scelto da Piketty: quello di una solida evidenza storica quantitativa. Qui sta la sua forza. Non è un caso che, tra le prime e più ostili critiche, vi sia stato il tentativo, non riuscito, di invalidare alcune sue stime empiriche (cfr. Chris Giles e Ferdinando Giugliano, su www.ft.com, 23/05/2014, ma anche la risposta di Howard Reed, sul datablog di www.theguardian.com, 29/05/2014).

I dati sono dunque il perno del volume, un elemento distintivo che gli dà originalità e vigore. Piketty ha avuto la capacità di rivitalizzare il metodo messo a punto da Kuznets mezzo secolo prima – qui è il secondo aspetto che li lega – avviando la riscoperta di un giacimento ricchissimo di dati, in generale facilmente accessibili ma trattati con distacco dagli economisti, tranne qualche adepto di scienza delle finanze o di storia economica. Questi dati sono le tabulazioni per classi di reddito delle entrate assoggettate alle imposte personali sui redditi. Piketty le ha impiegate per stimare la quota di reddito dei contribuenti più ricchi dapprima in Francia, poi negli Stati Uniti insieme a Emanuel Saez e infine coordinando con Anthony Atkinson un progetto internazionale che ha portato alla costruzione del “World Top Incomes Database”, una ricca e innovativa banca dati liberamente accessibile a http://topincomes.g-mond.parisschoolofeconomics.eu/.

Per lungo tempo, le autorità fiscali di molti paesi hanno pubblicato sintetiche informazioni sulla distribuzione dei redditi dei contribuenti. Kuznets ha mostrato come se ne potessero derivare risultati generali rapportandole ai totali della popolazione e dei redditi tratti dai censimenti e dai conti nazionali. Ciò non è bastato a vincere la ritrosia degli economisti, giustificata da alcuni buoni motivi. La definizione dei redditi fiscali risponde a criteri amministrativi invece che economici e può escludere componenti importanti, come le rendite finanziarie, soggette a tassazione separata; i valori sono distorti dall’evasione fiscale; le modifiche della normativa tributaria rendono discontinue le serie storiche; riferendosi ai contribuenti, i dati non danno conto della condivisione dei redditi all’interno della famiglia, oltre a non comprendere chi è esentato dal pagamento dell’imposta. Anche i dati delle indagini campionarie non sono tuttavia esenti da difetti: risentono della reticenza degli intervistati, particolarmente per i redditi finanziari, soffrono di discontinuità in occasione dei cambiamenti delle metodologie di rilevazione e, per la loro natura campionaria, non riescono a rappresentare la distribuzione dei redditi più elevati.

Come ho già sostenuto (Rivista di Storia Economica, 2000), l’informazione sulla distribuzione dei redditi è imperfetta e incompleta: solo l’analisi congiunta di tutte le fonti disponibili può portarci a conclusioni affidabili. È un grande merito di Piketty aver mostrato il prezioso contenuto informativo delle statistiche fiscali, non solo agli economisti, ma anche all’opinione pubblica: se oggi “l’1%” è entrato nel linguaggio quotidiano, lo si deve molto alle sue ricerche. Non vi è però un’implicita superiorità dei dati fiscali su quelli campionari. Il ragionamento di Piketty si concentra sull’operare del mercato e su come esso ripartisca i redditi tra gli individui: va quindi bene la fonte fiscale, che comprende tutti i redditi prima che intervenga la redistribuzione pubblica attraverso le imposte e i trasferimenti. Se però l’analisi riguardasse le condizioni materiali di vita della popolazione, non si potrebbe più ignorare la redistribuzione: l’attenzione dovrebbe spostarsi dai redditi di mercato a quelli disponibili, per il consumo e il risparmio. Piketty è troppo frettoloso nel liquidare l’utilizzo dei dati campionari (per esempio, alle pp. 17 e 329-330), ma non è solo una questione di dati. Teso a indagare i meccanismi profondi di funzionamento del sistema capitalistico e le relazioni di potere che lo governano, Piketty si concentra sulla distribuzione primaria del reddito. Nelle economie moderne, tuttavia, i trasferimenti monetari e in natura dello “stato sociale” hanno un ruolo decisivo nell’attenuare le disuguaglianze create dal mercato. Da ciò non si può prescindere, non solo per valutare la giustizia distributiva dei risultati, ma anche per comprendere lo stesso funzionamento interno del moderno sistema capitalistico, che è evidentemente condizionato dalla presenza di estesi meccanismi redistributivi.

L’altra grande innovazione di Piketty sul fronte dei dati concerne l’attenzione per la ricchezza: il suo livello, la sua distribuzione, l’influenza dei lasciti ereditari. Il rapporto tra ricchezza e reddito è una variabile chiave del suo modello concettuale e, comprensibilmente, molti hanno discusso come vada definito il numeratore. Su New Republic del 22/04/2014, Robert Solow ha evidenziato l’ambiguità di utilizzare “ricchezza” e “capitale” come termini interscambiabili, quando vi sono invece cose che entrano nell’una ma non nell’altro, come gli oggetti d’arte che hanno valore, ma non sono utilizzabili come fattori di produzione. Su www.voxeu.org del 30/06/2014, Odran Bonnet, Pierre-Henri Bono, Guillaume Camille Chapelle ed Étienne Wasmer hanno contestato il metodo di valutazione delle abitazioni e ne hanno proposto uno alternativo. Non è qui possibile entrare nel dettaglio di questi aspetti, ma c’è da augurarsi che il lavoro di Piketty sia di stimolo per gli studiosi e gli uffici di statistica a investire assai di più di quanto fatto finora sulle stime aggregate e distributive del patrimonio.

La ricostruzione meticolosa e paziente di lunghe statistiche storiche per verificare i grandi movimenti di lungo periodo è una scelta metodologica fondamentale di Capital in the Twenty-First Century. È una scelta che distingue nettamente Piketty dal modo prevalente di fare economia oggi, dominato da “una passione infantile per la matematica e per la ricerca puramente teoretica, spesso molto ideologica” (p. 32). Di là dal giudizio che si voglia dare del contributo empirico e teorico di Piketty, credo che meriti seria considerazione il suo invito a riportare la disciplina economica nell’alveo delle scienze sociali [1. Le citazioni da testi in inglese sono mie traduzioni. Le opinioni qui espresse sono personali e in nessun modo possono essere attribuite alla Banca d’Italia].

Schede e storico autori