Piattaforme digitali e squilibrio di potere economico nel disegno di legge annuale sulla concorrenza: l’araba fenice della dipendenza economica

Giuseppe Colangelo in relazione al disegno di legge annuale sulla concorrenza di recente approvato dal Consiglio dei ministri richiama l’attenzione sulla previsione di una fattispecie rafforzata di abuso di dipendenza economica che mira a dotare l’autorità antitrust di uno strumento apparentemente più efficace per gestire i potenziali squilibri nelle relazioni commerciali tra piattaforme digitali ed utenti business. Dopo vent’anni di oblio, la dipendenza economica torna così a nuova vita, pur con alcune perplessità.

Il dibattito sul ruolo delle piattaforme digitali nelle moderne economie, in particolare sui rischi derivanti da una eccessiva concentrazione di potere di mercato di pochi gatekeepers, ha paradossalmente scatenato, come risultato più immediato, una concorrenza regolamentare a livello internazionale. Alla proposta europea del Digital Markets Act hanno fatto seguito iniziative legislative nel Regno Unito, in Cina e negli Stati Uniti d’America, le quali, al netto delle diverse soluzioni avanzate, condividono l’idea che le regole antitrust siano insufficienti a governare le presunte peculiarità dei mercati digitali a due o più versanti.

Le piattaforme multi-versante operano come intermediari tra due o più gruppi di agenti economici fornendo loro un luogo virtuale di incontro per facilitarne le interazioni e gli scambi commerciali. Esse risolvono, dunque, essenzialmente un problema di costi di transazione che rende difficile, se non impossibile, l’incontro tra gli agenti dei diversi gruppi interessati, generando così valore per almeno uno dei gruppi. Da un punto di vista economico, il loro modello di business si basa sulle esternalità che, attraverso la piattaforma, si generano tra i diversi gruppi di utenti di cui si agevola il contatto: in particolare, quelli derivanti dalla circostanza che due o più gruppi di agenti economici per interagire hanno bisogno di utilizzare la piattaforma (usage externalities) e che il valore conseguito dal gruppo di agenti presente su un versante della piattaforma dipende dal numero degli agenti che partecipano sull’altro versante della piattaforma (membership externalities).

A questo scenario alcuni paesi europei hanno reagito introducendo o proponendo modifiche alle rispettive legislazioni antitrust nazionali al fine di adeguarle alle sfide poste dagli ecosistemi digitali. Si segnala, in particolare, al riguardo la scelta del legislatore tedesco che, con largo anticipo, ad inizio dello scorso anno ha introdotto specifiche disposizioni finalizzate da un lato a considerare presuntivamente anticompetitive alcune condotte qualora poste in essere da imprese che ricoprono un particolare ruolo per la concorrenza su più mercati e, dall’altro, ad estendere agli intermediari digitali la disciplina dell’abuso di dipendenza economica, ossia dello sfruttamento di un potere economico relativo in quanto esercitato non sul mercato, ma rispetto ad alcune relazioni contrattuali. Lo strumento tradizionalmente pensato per riequilibrare i rapporti tra le imprese coinvolte nell’ampio genus dei contratti di distribuzione commerciale viene così investito del compito di assicurare una dinamica contrattuale equilibrata anche nei rapporti tra piattaforme online e rispettivi utenti business.

Il modello tedesco è esplicitamente quello al quale si è ispirata la nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nella sua segnalazione inviata al Governo contenente le proposte di riforma ai fini della legge annuale sulla concorrenza. Con riferimento al tema in questione, l’esecutivo ha solo parzialmente accolto tali proposte: il disegno di legge, infatti, non contiene alcun riferimento alla fattispecie tedesca della super-dominanza, ma introduce una specifica disposizione finalizzata al “rafforzamento” del contrasto all’abuso di dipendenza economica.

Cercherò ora di ricostruire le origini di tale istituto ed analizzare i contorni che potrebbe assumere alla luce della nuova proposta legislativa che ne prevede l’estensione agli intermediari digitali.

Attraverso la previsione di una forma di posizione dominante relativa, l’abuso di dipendenza economica estende lo spettro del potere economico sottoposto alla lente antitrust, includendo nella sua nozione non più necessariamente l’egemonia assoluta sul mercato, ma anche un dominio relativo ad uno specifico rapporto giuridico: le regole antitrust sono chiamate così ad operare nello spazio dell’equilibrio economico e giuridico delle relazioni contrattuali, come strumenti incidenti direttamente sull’autonomia contrattuale delle parti. A confermare la vocazione antitrust della fattispecie, il Regolamento europeo 1/03 sulla modernizzazione del diritto antitrust afferma, al considerando 8, che non dovrebbe essere fatto ostacolo all’adozione e all’applicazione da parte degli Stati membri, nei rispettivi territori, di leggi nazionali sulla concorrenza più severe che vietano o sanzionano un comportamento illecito nei confronti di imprese economicamente dipendenti.

Nell’attuale formulazione italiana della fattispecie, la dipendenza economica viene descritta come la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un “eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi”, tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subìto l’abuso di reperire sul mercato “alternative soddisfacenti”. Viene, infine, specificato che l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.

L’istituto si colloca, quindi, nell’alveo del tipico problema di hold-up, che sorge quando sono stati effettuati investimenti specifici (relational-specific investments) che rendono difficile la loro valorizzazione con un altro contraente. L’elasticità della domanda o dell’offerta di una parte accusa una decisa contrazione a seguito della stipulazione del contratto e per effetto della specificità del rapporto economico instauratosi tra le parti: il soggetto imprigionato nel contratto, inchiodato alla sua scelta per la carenza di sostituti, è così esposto al rischio di estorsione da parte dell’altro contraente.

L’immagine di un contraente privo di alternative soddisfacenti e, per questo, esposto all’abuso di controparte si profila in modo paradigmatico nel franchising, dove il franchisee, a fronte dei capitali investiti (senza possibilità di riconversione) per poter esercitare l’attività commerciale, verte in una situazione di endemica debolezza che presenta tutte le caratteristiche della dipendenza economica. Non è un caso che, proprio al fine di tutelare il contraente debole, il legislatore abbia deciso di intervenire con una normativa ad hoc per l’affiliazione commerciale (legge 129/04), introducendo una recovery-period rule che assicuri una vita minima al rapporto, affinché l’affiliato possa recuperare gli investimenti sostenuti.

Sebbene si tratti di una fattispecie non armonizzata a livello europeo, l’abuso di dipendenza economica è presente, in alcuni casi da diversi decenni, in numerosi Paesi Membri. Eppure il quadro complessivo che emerge al riguardo è frastagliato e difficilmente riconducibile ad un paradigma unico, dal momento che a differire sono talvolta sia i presupposti per la sua applicazione sia il suo inquadramento nell’ambito del diritto della concorrenza.

In questo scenario, la vicenda italiana si presenta particolarmente tormentata. Sebbene originariamente i disegni di legge presentati nel corso della XII e XIII legislatura proponessero di inserire il nuovo istituto nell’ambito della normativa a tutela della concorrenza, il temporaneo approdo civilistico si deve alla reazione dell’AGCM, la quale ha ostinatamente inquadrato la tematica nell’ambito della contrapposizione teologica netta fra norme a tutela del processo concorrenziale in relazione all’assetto del mercato e norme inerenti la disciplina dei rapporti contrattuali. Ne è scaturita una diatriba il cui unico risultato è stato quello di soffocare alla nascita l’istituto, relegandolo in un articolo della legge sulla subfornitura (articolo 9 della legge 192/98), incoraggiando così interpretazioni ancor più restrittive. Per quanto, infatti, quasi unanimemente si sia ritenuto che la portata del precetto vada ben oltre la specifica tipologia del contratto di subfornitura, non sono mancate voci fuori dal coro, le quali hanno trovato terreno fertile in alcune pronunce giurisprudenziali. La disposizione è rimasta così sostanzialmente inattuata: tanto da costringere il legislatore a ritornare sui suoi passi aggiungendo, con l’articolo 11 della legge 57/01, un comma che assegna anche all’AGCM una specifica competenza in materia laddove l’abuso abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato.

A distanza di oltre vent’anni dalla introduzione dell’istituto e a fronte della sua sostanziale disapplicazione da parte dell’AGCM, come una novella araba fenice improvvisamente la dipendenza economica sembra riemergere dalle proprie ceneri. Nell’ultimo anno, infatti, l’Autorità antitrust ha avviato istruttorie nei confronti di Benetton, McDonalds, Poste Italiane e Wind Tre. In più, come segnalato, l’Autorità ha proposto al Governo di prevedere addirittura un rafforzamento della disciplina al fine di estenderne l’applicazione anche rispetto alle piattaforme digitali. Il rinnovato interesse per lo strumento della dipendenza economica si deve all’apparente esigenza di individuare nuovi rimedi per contrastare gli abusi di potere di mercato nei mercati digitali, integrando le norme antitrust per sindacare con maggiore efficacia eventuali squilibri di potere negoziale tra fornitori di servizi di intermediazione digitali e utenti business.

Come detto, la proposta di modifica della disciplina nazionale della concorrenza si colloca sulla scia dell’iniziativa tedesca. Tuttavia, si differenzierebbe in maniera significativa dal modello tedesco introducendo una presunzione (relativa, ossia salvo prova contraria) dello stato di dipendenza economica, in luogo del suo accertamento caso per caso. In tal modo, la proposta italiana si caratterizzerebbe per essere l’unica nel panorama europeo a prevedere una presunzione dello stato della dipendenza economica: tale presunzione risulta, infatti, assente non solo nella disciplina tradizionale della fattispecie presente nei vari Stati Membri (Italia inclusa) ma anche nella nuova formulazione adottata in Germania per la sua estensione alle piattaforme digitali.

La proposta solleva non poche perplessità. Innanzitutto, la presunzione, nel rendere decisamente più agevole l’enforcement da parte dell’AGCM, pone a carico dei soggetti destinatari un onere probatorio ingiustificato e difficilmente superabile. La presunzione, infatti, trae origine dalla premessa errata secondo la quale ogni piattaforma digitale, per definizione e indipendentemente dal diverso modello di business, rappresenti un soggetto forte rispetto ai propri utenti business. In questo modo, si porrebbero, ad esempio, sullo stesso piano le piattaforme che forniscono un app store con quelle che forniscono motori di ricerca o social network, laddove, invece, sono incontestate, in tutta la letteratura economica, le profonde differenze che caratterizzano tali modelli di business.

Tali criticità sono ulteriormente accresciute dalla definizione molto ampia di piattaforma digitale che, di fatto, data l’assenza di parametri oggettivi, consentirebbe di includervi qualsiasi fornitore di servizi di intermediazione digitali. Ai sensi dell’articolo 29 del disegno di legge annuale sulla concorrenza, si presume, infatti, la dipendenza economica nel caso in cui un’impresa utilizzi “i servizi di intermediazione forniti da una piattaforma digitale che ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori, anche in termini di effetti di rete o di disponibilità dei dati”.

Infine, l’introduzione di una discriminazione tra mercati offline e mercati online potrebbe impattare negativamente sull’innovazione e la trasformazione digitale del paese, e dunque sul benessere dei consumatori, finendo invece paradossalmente per proteggere le rendite di operatori tradizionali che verrebbero posti al riparo dall’avanzata di nuovi modelli di business. Date le finalità dello strumento a difesa dei soggetti economicamente dipendenti, non appare, infatti, di immediata comprensione la ragione economica che spingerebbe ad assicurare a questi ultimi una tutela più facilmente azionabile in ambito digitale rispetto a quello cosiddetto brick-and-mortar, o viceversa a trattare con maggior sfavore i soggetti in possesso di un potere economico relativo nei mercati digitali rispetto a quanti potenzialmente sfruttano il medesimo vantaggio nei comparti tradizionali.

Il rischio che potrebbe, dunque, materializzarsi è di vedere la disciplina della concorrenza strumentalmente adoperata per tutelare alcuni concorrenti, anziché il mercato ed i consumatori.

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