Perché un’ampia e aperta discussione del PNRR è necessaria per il suo successo

Gianfranco Viesti dopo aver affermato che il Piano di Rilancio italiano è un documento assai articolato, con luci ed ombre, sostiene che il suo impatto dipenderà in modo cruciale dai processi attuativi e per questo motivo sarebbe indispensabile, assai più che una fiduciosa delega all’esecutivo, un’ampia e aperta discussione pubblica nel paese. Viesti argomenta queste tesi facendo specifico riferimento alle misure di politica industriale contenuto nel Piano.

Il Piano di Rilancio (PNRR) è un documento di fondamentale importanza per il futuro dell’Italia per almeno tre ragioni. Per la sua dimensione: aggiunge alla componente contributi della Recovery and Resilience Facility , anche l’intera componente prestiti (a differenza di quasi tutti gli altri paesi europei), i fondi React-Eu (per il 2021-22), una cospicua anticipazione riveniente dal Fondo Sviluppo e Coesione e uno stanziamento di bilancio per circa 30 miliardi (Fondo Complementare). Perché copre praticamente tutti gli ambiti dell’intervento pubblico in Italia. Infine, perché, avendo durata fino al 2026, influenzerà tutta le politiche del nostro paese per almeno un lustro; più prevedibilmente, per tutti gli anni Venti.

Dei molti aspetti del Piano, vale ricordarne almeno tre. In primo luogo, la circostanza che è stato predisposto dal governo Draghi senza alcuna discussione pubblica (al contrario ad esempio di ciò che è avvenuto in Portogallo, dove il governo ha promosso una settimana di dibattito aperto). Peggio, il Governo ha ignorato qualsiasi contributo parlamentare: le Camere hanno lavorato, con grande intensità, sul testo trasmesso dal governo Conte il 15 gennaio 2021, ma poi si sono trovate a dover approvare in poche ore la versione predisposta dal governo Draghi. Infine, la versione finale trasmessa alla Commissione Europea è leggermente diversa da quella votata e corredata da un allegato di circa 2500 pagine, tanto complesso quanto di difficile lettura, che è stato inviato ai parlamentari ma non reso pubblico. Un dossier dei servizi studi delle Camere aiuta molto nella lettura.

In secondo luogo, nonostante gli apprezzabili sforzi compiuti da entrambi gli esecutivi, il Piano risente del suo processo di genesi, avvenuta più con l’assemblaggio di progetti disparati che attraverso scelte orientate dagli obiettivi da raggiungere. Si tratta di un documento articolato su un numero estremamente elevato di linee di intervento (poco meno di 200), con un livello di approfondimento molto variabile. Certamente vanno considerate non poche scusanti: le pressanti urgenze, dalle misure sanitarie contro la pandemia a quelle economiche di ristoro, sotto le quali hanno lavorato entrambi i governi; la carenza, in moltissimi casi, di piani e programmi di settore definiti e condivisi; la necessità di tenere conto della cantierabilità degli specifici interventi e delle tempistiche estremamente strette dell’attuazione del Piano.

In terzo ed ultimo luogo, una circostanza che dipende dalle due appena sottolineate. Il Piano solo in pochi casi si presenta come uno strumento direttamente esecutivo. Nella maggioranza dei casi traccia linee di intervento che avranno bisogno, sia per le riforme sia per gli investimenti, di una ampia normativa attuativa. Tale normativa non riguarderà solo aspetti tecnico-operativi, ma conterrà anche scelte politiche: il Piano può determinare impatti anche molto differenti a seconda di come si deciderà di attuarlo concretamente.

Alla luce di tutto questo, colpisce la grande modestia della discussione, politica e scientifica, sui suoi contenuti e sui suoi processi attuativi. Anche a causa delle circostanze politiche assai peculiari nelle quali si è concretizzato, sembra prevalere un diffuso atteggiamento di preconcetta condivisione; quasi una sorta di delega ai membri dell’esecutivo affinché essi mettano in atto interventi condivisi che necessitano solo di attuazione. Si tratta di un grave errore, dato che sia la redazione sia l’attuazione del Piano implicano scelte politiche per propria natura controverse. A ciò si affianca un atteggiamento della maggioranza dei mezzi di informazione che, lungi dal sollecitare discussioni e proposte, tende a sollecitare un’adesione totale alle scelte del governo, con alcuni episodi quasi di criminalizzazione di interventi critici nei confronti di tali scelte.

Un dibattito modesto non è un buon viatico per l’attuazione del PNRR. Molti aspetti degli interventi possono essere meglio focalizzati e finalizzati in sede attuativa. L’impatto stesso di lungo periodo del Piano non dipende solo dalle riforme e dagli investimenti che esso prevede, ma anche e soprattutto dalle aspettative di cittadini e operatori economici su concreti miglioramenti della loro condizione e dai loro conseguenti comportamenti, specie di investimento privato. Da questo punto di vista, più che l’esercizio della delega ai “migliori”, può essere assai utile un processo democratico di chiarimento e condivisione degli obiettivi da raggiungere.

Esempi di queste problematiche possono essere formulati riguardo a un importante ambito del Piano, la “politica industriale”.

Gli interventi per le imprese sono una componente di grande rilevanza del PNRR. Come è possibile leggere in una delle sue ultime pagine, ben il 18,7% della spesa totale consiste in incentivi alle imprese. In questo ambito la misura “Transizione 4.0” fa la parte del leone: ad essa il PNRR destina 13.380 milioni, anche se in parte si tratta di risorse già stanziate dalle leggi di bilancio, e a cui si aggiungono 5.080 milioni del Fondo Complementare anche per le necessità di copertura nella parte di sovvenzione agli investimenti materiali a seguito dell’interlocuzione con la Commissione Europea. Il PNRR destina circa 9 miliardi al credito di imposta alle imprese che investono in beni materiali direttamente connessi alla trasformazione digitale dei processi produttivi, circa 2 miliardi ai beni immateriali, ulteriori 2 miliardi alla spesa per ricerca e sviluppo e 300 milioni alle attività formative. Tale misura, pur rivista e semplificata, anche per consentirne l’utilizzazione da parte di una platea molto più vasta di imprese, ricalca gli interventi già realizzati con il programma “Impresa 4.0”, del quale riprende punti di forza (sostegno all’accumulazione, orientamento verso acquisizione di strumentazioni avanzate, specie sotto il profilo digitale) e di debolezza. Si tratta di un intervento che si limita a ridurre i costi di investimento delle imprese, senza prevedere alcun loro orientamento strategico, anche in relazione alle grandi missioni di trasformazione previste dal PNRR (un conto è adottare il digitale, un conto è produrre beni, servizi, soluzioni digitali). Un intervento che rinuncia ad obiettivi di trasformazione strutturale del sistema produttivo nazionale, e postula una estrema fiducia nei meccanismi di mercato e nella capacità delle imprese di pianificare in maniera ottimale le proprie attività. Sul fronte delle ricadute occupazionali, non è al momento chiaro se e come tale disposizione si contempererà con l’indicazione orizzontale per l’intero PNRR, inserita su pressione del Partito Democratico, di inserire in tutti i bandi di gara, come requisiti necessari e premiali, criteri orientati verso l’assunzione di giovani e donne. Agli interventi di “Transizione 4.0” si sommano, con simile logica, la misura che rifinanzia i servizi per l’internazionalizzazione della Simest, i 300 milioni per il finanziamento delle start up da parte della Cassa Depositi e Prestiti, i 500 milioni per innovazione e meccanizzazione nell’agroalimentare.

E tuttavia questo intervento non esaurisce le azioni di sostegno alle imprese, che si dipanano in una serie piuttosto lunga e articolata di linee di investimento (anche se complessivamente dotate di risorse inferiori alla sola “Transizione 4.0”). E’ il caso dell’investimento per la “competitività e resilienza delle filiere produttive” che pur con soli 750 milioni mira, con lo strumento dei contratti di sviluppo, a potenziare ben dodici filiere produttive nazionali, anche se con enfasi su biomedicale, produzioni ecosostenibili, mobilità sostenibile.

C’è da chiedersi se sia qui individuabile come far fronte alle trasformazioni che avverranno nel settore dell’auto e della relativa componentistica; e che stanno già avvenendo, come testimoniato dall’annuncio della nuova fabbrica Stellantis di batterie a Termoli e, all’opposto, dalla minacciata chiusura dello stabilimento GKN a Firenze.

Un miliardo e mezzo è destinato a sostenere la partecipazione delle imprese italiane agli IPCEI (Important Projects of Common European Interest) con particolare riferimento alla microelettronica (e quindi con l’individuazione del possibile beneficiario nella STMicroelectronics). E’ poi il caso degli interventi nella filiera dello spazio (cofinanziati anche dal Fondo Complementare); essi, oltre al potenziamento delle attività di osservazione della terra e lancio di satelliti, prevedono interventi per 235 milioni a sostegno dello sviluppo di fabbriche intelligenti per la produzione di satelliti di piccola dimensione e lo sviluppo di tecnologie verdi per le generazioni future di propulsori e lanciatori, forse con diretta connessione alla attività in questa materia di Leonardo (ex Finmeccanica).

Vi sono poi interventi ancora più puntuali. Vengono stanziati 500 milioni per promuovere la produzione locale e l’uso dell’idrogeno, attraverso l’installazione di elettrolizzatori. Parallelamente, vi è una linea di investimento (per due miliardi) per la progressiva decarbonizzazione di alcuni settori industriali, attraverso due progetti, uno dei quali dovrebbe riguardare la produzione siderurgica, si immagina a Taranto, e l’altro dovrebbe finanziare la ricerca attraverso una gara fra i settori industriali.

Ancora, vi è una linea di investimento per sostenere direttamente alcune filiere nei settori fotovoltaico, eolico, batterie, per incrementare ad almeno 3 GW/anno la produzione di apparecchiature per il fotovoltaico, finanziando 48 progetti (400 milioni), potenziare le produzioni eoliche (100 milioni per 12 progetti) e soprattutto sostenere l’industria delle batterie elettriche con 500 milioni per 20 progetti. È poi previsto uno stanziamento di 1.203 milioni (nel Fondo Complementare) per progetti di filiera e distrettuali nell’agroalimentare. Vi è infine un finanziamento di un miliardo nel Fondo Complementare per gli “accordi per l’innovazione” (D.M. 24/517), diretti a sostenere interventi di rilevante impatto tecnologico, con realizzazione di attività di ricerca industriale e sviluppo sperimentale, senza indicazioni ulteriori.

Da questa carrellata emergono alcune prime considerazioni di insieme, che ad avviso di chi scrive confermano quanto sostenuto in apertura. Pare difficile trovare un filo rosso che unisca tutti questi interventi in un disegno di trasformazione del nostro sistema e in una visione proiettata nel futuro. Anche nell’ambito delle politiche per le imprese si conferma una elevata numerosità delle linee di investimento, che metterà a dura prova gli stessi processi attuativi. Alcune di esse appaiono di natura orizzontale, a cominciare da “Transizione 4.0”, senza criteri selettivi in base al settore di attività o in connessione con le grandi trasformazioni del PNRR; in altri casi vi è invece una chiave settoriale spinta, fino al riferimento piuttosto evidente a specifici casi di impresa, anche in connessione con imprese a partecipazione pubblica.

Fra i rischi, oltre le complessità del processo attuativo, vi è quello di una possibile parcellizzazione di interventi molto ampi e a generico sostegno di un tessuto produttivo che, quantomeno dall’inizio del secolo, mostra modeste capacità di incremento della produttività, innovazione e ingresso in attività nuove, specie proprio nell’ambito del digitale, delle rinnovabili, della mobilità sostenibile. Allo stesso tempo è evidente il pericolo che le risorse affluiscano (come già avvenuto per i programmi Impresa 4.0) nelle aree del paese dove è già più ampia la presenza produttiva, contribuendo ad accrescere le disparità territoriali; preoccupazione al momento valida per l’insieme delle misure del PNRR. Parallelamente vi è un significativo pericolo di “cattura” delle risorse disponibili da parte delle imprese meglio attrezzate nell’interlocuzione con i decisori. Il ricorso piuttosto diffuso a strumenti negoziali, pur opportuno nel caso di imprese di maggiore dimensione e per rilevanti investimenti, imporrebbe sia un significativo rafforzamento nelle capacità delle amministrazioni pubbliche sia modalità di raccordo ben più intense del passato fra livello nazionale e regionale; anche alla luce della realizzazione, parallelamente al PNRR, delle attività finanziate dai Fondi Strutturali Europei che tradizionalmente sono nella disponibilità delle Regioni.

Da ciò dovrebbe derivare, come si suggeriva in apertura, la necessità di un approfondito ed ampio confronto pubblico su tutti questi temi, anche per disegnare scelte attuative che riducano i rischi paventati e accrescano l’effetto sinergico fra le diverse linee di investimento. Sarebbe stata assai opportuna una riflessione sulla politica industriale per l’Italia, ad esempio lungo le linee definite da Pianta , prima di scrivere il PNRR. Ma farlo dopo, è tutt’altro che inutile.

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