Perché l’Italia cresce poco? Il ruolo delle variabili extraeconomiche

Michele Morciano sostiene che il perdurante ristagno dell’economia italiana può essere spiegato solo considerando insieme alle tradizionali grandezze monetarie anche gli effetti che l’azione pubblica, attraverso la regolazione e i servizi, esercita sulle propensioni all’iniziativa economica. Morciano chiarisce che lo stato incide sulle grandezze monetarie anche indirettamente e mostra come si possano riportare all’interno di una dimensione economico-produttiva anche le variabili extraeconomiche generate dall’azione pubblica.

La perdurante incapacità del nostro sistema economico di crescere a tassi almeno comparabili con quelli dei nostri partner europei può dipendere, oltre che dalla modesta dinamica delle tradizionali variabili micro e macroeconomiche, anche dal freno esercitato da alcune variabili “extraeconomiche”, in particolare quelle riconducibili alla dimensione culturale, al contesto istituzionale e amministrativo, alle cornici legali, agli strumenti delle politiche pubbliche. Ciascuna di queste variabili, incidendo sulla propensione all’iniziativa economica, può influenzare negativamente la capacità di crescita del sistema.

La dinamica del PIL ovviamente risente di tali variabili, poiché i loro effetti sono comunque incorporati nelle grandezze monetarie; tuttavia, non emerge con chiarezza il loro ruolo nel determinare la dinamica della crescita. Ciò vale in particolare per le conseguenze economiche dell’azione pubblica quali la regolazione e i servizi.

Gli schemi di contabilità nazionale registrano, per convenzione, gli scambi di mercato e il contributo dello stato viene determinato in base a grandezze che, pur non generate dal mercato, sono considerate ad esse “assimilabili” (ad esempio, i redditi dei dipendenti, o gli investimenti pubblici, etc.). Ciò vuol dire che non è soggetto a misurazione l’effetto più fondamentale dell’azione dello stato: la creazione di utilità (o disutilità) collettive attraverso la regolazione e i servizi. Tale utilità (o disutilità) ha un impatto sulle grandezze di mercato – spesso esse stesse conseguenza di altre non identificate cause [1. Le modalità – non esplicitamente considerate nelle analisi tradizionali – attraverso cui le variabili extraeconomiche incidono sulle grandezze monetarie e contribuiscono a frenare la crescita, costituiscono, “il grande enigma italiano”, secondo C. Fumian ( cfr. “Traiettorie del declino economico italiano”, in Pons S., Roccucci A., Romero F., (a cura di), L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta ad oggi, Carocci, 2014, p.88)]- ma non è possibile determinare l’entità di questo impatto. Risulta così particolarmente difficile analizzare le “cinghie di trasmissione” che legano la qualità (modesta) del tessuto politico, amministrativo e sociale alle grandezze economiche che determinano quantitativamente la dinamica del PIL.

Se vogliamo indagare più a fondo sulle cause del ristagno economico è però necessario analizzare, in particolare, le conseguenze che i servizi erogati dallo stato producono sui comportamenti degli agenti del settore privato (utilità e aspettative), più specificatamente, sulle motivazioni e propensioni all’iniziativa economica. Solo in tal modo sarà possibile definire e misurare empiricamente anche il contributo alla performance dell’economia delle variabili extraeconomiche, nelle quali probabilmente si nasconde l’enigma italiano (per un approfondimento cfr. Morciano M.“Sulle determinanti extraeconomiche del ristagno dell’economia italiana”, Astrid Rassegna, 2016).

La PA non è soltanto un’entità giuridico-amministrativa; essa è anche un insieme di processi di produzione (funzioni di produzione) attraverso cui vengono erogati i servizi pubblici (in senso lato) che costituiscono il suo output diretto. I costi di produzione di tali servizi si possono sempre valutare, mentre non è possibile in molti casi stimare direttamente il loro valore economico, che consiste nelle utilità (o disutilità) collettive che essi generano. Queste ultime, pur costituendo un suo output indiretto rappresentano l’obiettivo fondamentale della PA e ne giustificano l’esistenza. Inoltre, come si è detto, esse incidono sulle propensioni all’iniziativa economica.

La PA dunque contribuisce alla formazione del PIL in due modi: direttamente, cioè attraverso le grandezze monetarie generate (redistribuite) nei processi di produzione dei servizi e assimilate (negli schemi di contabilità nazionale) a quelle di mercato; indirettamente, cioè attraverso il circuito regolazione → servizi → utilità (disutilità) → aspettative → propensioni.

Il PIL “intercetta” sia gli effetti diretti dell’attività della PA – riflessi nelle componenti della domanda aggregata e nelle variabili “assimilate” da essa generate – sia quelli indiretti riconducibili alle variabili extraeconomiche che operano dall’interno delle cornici regolamentative. Queste ultime incidono sul PIL attraverso il circuito non market delle utilità collettive e delle propensioni, ma non viene identificato il loro specifico impatto e ciò rende parziale l’analisi delle variabili che influenzano la formazione e la dinamica del PIL. Eppure proprio in questo circuito si annida il “nocciolo” dell’enigma italiano.

Per portare alla luce le determinanti extraeconomiche del PIL occorre integrare le variabili, generate dalla regolazione e dai servizi, che fanno da cornice alle scelte degli operatori del settore privato nei tradizionali schemi macroeconomici. Ovvero, data la regolazione, occorre individuare i servizi che generano le utilità che incidono in modo significativo sulle propensioni all’iniziativa economica.

Naturalmente, non è possibile misurare direttamente le utilità, le aspettative e la conseguente propensione all’iniziativa economica; è, invece, possibile individuare (e rilevare attraverso indicatori) le variabili generate dall’azione pubblica e che modificano aspettative e propensioni. E’ altresì possibile rilevare (attraverso una pluralità di variabili/indicatori) le attività economiche che dipendono da aspettative e propensioni. Ed è possibile correlare queste variabili di attività economica (rilevabili), influenzate da utilità, aspettative e propensioni (non rilevabili), alle variabili extraeconomiche (rilevabili) che sono conseguenza dell’azione dello stato. Possiamo dunque correlare gli indicatori che esprimono le conseguenze economiche (causalmente) dipendenti da utilità, aspettative e propensioni, agli indicatori che rappresentano le variabili extraeconomiche generate dall’azione pubblica, che a loro volta determinano utilità, aspettative e propensioni.

Per selezionare questi due insiemi di variabili possiamo considerare, ad esempio, alcune fasi della vita economica di un’impresa e individuare quelle che più specificatamente contribuiscono, nella combinazione tra opportunità di mercato (regolato) e azione pubblica, al contesto entro il quale si formano le scelte economiche.

Possiamo ad esempio individuare i servizi che incidono direttamente sulla propensione alla costituzione di un’impresa; quelli indirizzati alla verifica degli adempimenti che riguardano i processi di produzione (in particolare, i vincoli normativi di varia natura, le tutele collettive, le responsabilità civili, l’accesso ai diversi fattori della produzione, etc.) e quelli che incidono sulla qualità dei prodotti e la loro commercializzazione (attraverso la fissazione di standard, le contraffazioni, la tutela della concorrenza e dei consumatori, etc.). E’ possibile anche identificare un ulteriore gruppo di variabili che catturano la mancata azione o tutela dello stato rispetto alle attività economiche (ad esempio, indicatori del tasso di criminalità economica, carenze nell’attività di repressione, intensità di fenomeni criminali rilevanti per la vita dell’impresa) e che, quindi, incidono negativamente sulla propensione all’iniziativa economica.

Per ciascun insieme di servizi – tutti, lo ribadiamo, ben delineati e rilevabili, oltre che normativamente descritti e riconoscibili anche in termini di processi amministrativi – possiamo definire un indicatore che, a seconda dei casi, si può basare o su di una quantificazione del servizio stesso, o su quei fenomeni, o variabili (quantificabili) che ne esprimono le conseguenze propulsive, o inibitorie, dell’iniziativa economica. Un ulteriore insieme di indicatori potrà essere costruito per quelle variabili che esprimono l’iniziativa (attività) economica, la cui dinamica dipende in modo causale dalle variabili extraeconomiche così selezionate.

Una volta ricostruite le variabili extraeconomiche generate dall’azione pubblica e quelle relative all’attività economica ad esse correlata, sarà possibile stabilire l’influenza delle prime sulle grandezze monetarie e sul PIL. E, naturalmente, dopo aver ricostruito le serie storiche, o cross-section, dei diversi gruppi di variabili si potranno utilizzare i tradizionali strumenti econometrici per stimare i coefficienti che legano le variabili extraeconomiche alle grandezze monetarie.

Dunque, le analisi economiche tradizionali non riescono a spiegare l’incidenza delle variabili extraeconomiche sulla performance dell’economia perché non contemplano la possibilità che tali variabili generino valori economici, nonostante esse incidano, seppur indirettamente e attraverso un circuito non market, sulle grandezze monetarie.

L’enigma italiano si può risolvere solo riportando all’interno di una dimensione economico-produttiva queste variabili che catturano un aspetto decisivo delle politiche pubbliche – più precisamente della regolazione e dei correlati servizi – e, dunque, dell’impatto dello stato (la PA) sulla collettività.

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