Perché il Covid-19 può aiutarci a superare l’etica del lavoro: l’ipotesi del Reddito Universale di Indipendenza

Franco Bonomi Bezzo trae dall’emergenza del COVID-19 lo spunto per proporre una possibile soluzione alle distorsioni economiche e sociali derivanti dall’attuale etica del lavoro: il reddito universale di indipendenza (UII). Bonomi Bezzo espone le ragioni per le quali l’UII può condurre all’emancipazione, dando a tutti la possibilità di scegliere se e come lavorare, che oggi invece manca a molti a causa delle precarie condizioni economiche o dal contesto socio-culturale.

Il cambiamento nelle nostre vite iniziato il 10 marzo sembra toccare aspetti che in molti avrebbero immaginato immodificabili al brindisi di inizio anno. Tra questi c’è senza dubbio il valore unicamente positivo che il lavoro, e più precisamente il lavoro salariato, ha nel nostro orizzonte culturale. Il legame tra sussistenza e lavoro, lo scambio tra prestazione lavorativa e possibilità di consumo sembrava difficilmente superabile. Questo legame, però, oggi, emerge come problematico soprattutto per due categorie di persone: quelle obbligate ad andare a lavorare per fare “andare avanti il paese” e quelle che, invece, costrette a stare a casa, vorrebbero lavorare per riuscire a fare la spesa. Pertanto, oggi, dopo qualche settimana di quarantena, per alcuni ferie retribuite, per altri cassa integrazione, per altri ancora licenziamento, o peggio lavoro in condizioni di sicurezza non garantite, questo legame sembra in discussione. Oggi, può, o forse, deve, essere messo in discussione.

Certo, oggi è fondamentale pensare a misure emergenziali. In questo articolo, vorrei però muovermi nella prospettiva di medio periodo, proponendo una misura, che definisco Reddito Universale di Indipendenza (dall’inglese l’acronimo UII), che, seppure non implementabile domani, potrebbe servire da bussola per il mondo che verrà. Una misura ambiziosa e di rottura che se il primo gennaio era legittimo definire utopistica, oggi credo possa apparire maggiormente calata nella realtà.

Prima di spiegare l’UII è opportuno un breve cenno alle misure di reddito universale di cui oggi si discute. Tali misure, per semplicità riconducibili al Reddito Universale di Base (dall’inglese l’acronimo UBI), prevedono un sussidio di uguale entità pagato a tutti, che lavorino o meno. Alle varie ipotesi di UBI vanno riconosciuti elementi di chiarezza, universalità e semplicità.

Tuttavia, penso che l’UBI resti, quantomeno, timido e non vada a fondo nella dissoluzione della costrittiva e iniqua relazione lavoro=sostentamento. Pur essendo soddisfacente per alcuni aspetti, l’UBI rimane un sussidio. Nessun modello di UBI prevede, infatti, un reddito sufficientemente elevato da consentire alle persone di arrivare alla fine del mese; inoltre tutte le forme di UBI si sommano ai redditi da lavoro. Ciò rende possibile per i datori di lavoro pagare salari bassi trasformando quelle misure in sussidi alle imprese. Non a caso, forme più o meno complete di UBI sono state proposte da economisti neoliberisti e sostenute dal mondo imprenditoriale.

Dal momento che il capitalismo necessita di un gran numero di consumatori, è necessario fornire alle persone abbastanza denaro da spendere in beni e servizi. Un contesto in cui cresce la proporzione di lavoratori poveri diminuirebbe anche la capacità di essere consumatori. Quindi, la soluzione potrebbe venire solo dallo stato che paga redditi abbastanza alti da essere consumatori di base, ma abbastanza bassi da impedire il libero sviluppo personale. Sotto questa prospettiva, i sussidi, l’UBI compreso, possono essere considerati la droga salvavita di un capitalismo agonizzante.

Nell’attuale mercato del lavoro, inoltre, solo chi proviene da ambienti privilegiati ha una certa libertà di scelta mentre chi non può permettersi di rimanere fuori dal mercato del lavoro è costretto ad accettare qualsiasi occupazione per sopravvivere. L’UBI non modifica questa situazione. Di un simile mercato del lavoro beneficiano soprattutto i datori di lavoro che possono pagare salari bassi e riconoscere sempre meno diritti, essendo disponibile una grande massa di lavoratori non qualificati. Questo meccanismo è ulteriormente alimentato dalle varie forme di sussidio al reddito condizionate all’attivazione sul mercato del lavoro, fra cui i modelli sedicenti di reddito universale, come il cosiddetto reddito di cittadinanza italiano, che a differenza dei modelli originali di UBI, condizionano l’erogazione del sussidio – oltre che a un test dei mezzi – alla disponibilità ad attivarsi sul mercato del lavoro.

Il potere innovativo dell’UII che qui propongo sta proprio nel superare il legame fra sussidio e lavoro e consentire a ciascuno uno sviluppo libero ed incondizionato a seconda dei propri talenti. In base alla mia proposta, ogni persona alla fine della scuola dell’obbligo acquisisce il diritto incondizionato e per l’intera durata della vita a ricevere una somma mensile di denaro G (attorno a 2/3 del reddito mediano nazionale). Tuttavia, a differenza di UBI, non appena l’individuo inizia a lavorare, smette di ricevere G e comincia a pagare le tasse secondo la seguente struttura: nessuna tassazione fino a un reddito da lavoro lordo pari a G, aliquote fiscali marginali crescenti continue per i redditi sopra a G.

Gli obiettivi dell’UII sono molteplici: slegare lavoro e sostentamento; consentire a tutti, ignorando il contesto sociale e familiare di origine, di scegliere se lavorare o meno; aumentare il potere contrattuale dei lavoratori; incentivare le imprese a investire maggiormente in automazione non potendo più fare affidamento su una illimitata forza lavoro globalizzata disposta a lavorare a qualsiasi condizione.

Garantendo un reddito abbastanza alto non sommabile al reddito da lavoro e ricevibile per tutta la vita, l’UII potrebbe rappresentare un’alternativa sufficiente al lavoro retribuito e consentire a tutti di scegliere come trascorrere il proprio tempo, riducendo l’attaccamento al valore stesso del lavoro e allontanando la società dall’etica del lavoro (Bauman, Work, consumerism and the new poor, McGraw-Hill, 2004). Credo infatti sia importante ridare neutralità al concetto di lavoro. Riconoscere che il lavoro di per sé è una scatola vuota, che assume accezioni positive o negative a seconda dei casi specifici. Spostarci dall’etica del lavoro significa pertanto rifiutare il paradigma unico per cui la realizzazione individuale deriva necessariamente dal lavoro e, inoltre, qualsiasi lavoro accresce la dignità dell’individuo e il reddito guadagnato col duro sacrificio è più dignitoso di quello ricevuto gratuitamente.

Occorre pertanto precisare che l’UII non si pone l’obiettivo di vietare il lavoro tout court, quanto piuttosto quello di offrire un’alternativa a ciascuno e non solo a coloro che hanno i mezzi per poter scegliere se lavorare o meno e quale attività intraprendere. È assolutamente possibile che molte persone, anche a parità di salario, possano preferire di continuare a svolgere un’attività lavorativa che li gratifichi. Allo stesso tempo, l’introduzione dell’UII aumenterebbe il potere contrattuale dei lavoratori, specialmente di quelli con salari più bassi e farebbe aprire gli occhi alla società su quanto alcuni lavori attualmente poco retribuiti siano essenziali.

Il lavoro non sembra rappresentare più (ammesso lo sia mai stato) il mezzo privilegiato per lo sviluppo della personalità, né essere indispensabile alla vita emozionale e alla esperienza intellettuale dell’individuo. Una riflessione che non si ponga l’obiettivo di mettere in discussione il valore culturale e sociale assegnato al lavoro rischia la placida integrazione nel processo capitalistico di razionalizzazione (Honneth, Work and instrumental action: on the normative basis of critical theory, 1982). Oggi appare necessario mettere in discussione non solo l’organizzazione del lavoro nella società capitalistica ma lo status necessariamente emancipativo ad esso assegnato a partire dal XIX secolo.

“È diventata una regola di preferenza della morale moderna che il lavoro utile sia cosa migliore che il godimento piacevole.” (Scheler, in Das ressentiment im aufbau der moralen, Klostermann, 1922) Scheler vede nell’etica borghese-capitalistica la rottura della priorità esistenziale e dinamica del piacere e dunque del “vitale” che ne è il valore fondante per giungere ad una concezione produttiva di ciò che è bene. Se, da un lato, il lavoro sembra consentire la trasformazione della natura e la sua subordinazione all’uomo, dall’altro lato sembra sempre più incapace di dare un senso e un valore al mondo. Secondo Marcuse qualunque tipo di società, per sopravvivere, richiede una qualche repressione dell’istintualità, necessaria per svolgere attività lavorative, denominata repressione fondamentale. Nella società capitalistica, tuttavia, c’è una repressione addizionale che determina una condizione di alienazione e di sacrificio sistematico del principio del piacere. Lo sviluppo tecnologico ha reso possibile pensare un mondo in cui non solo la repressione addizionale possa essere abolita, ma anche quella fondamentale sia superabile e gli uomini possano evitare di reprimere i propri istinti e le proprie passioni. Si arriva così alla sostituzione del principio di prestazione con il principio di piacere. Si arriva dunque all’UII.

Credo pertanto che un approccio marcusiano al concetto di lavoro e di progresso tecnologico sia fondamentale nella riflessione economica al fine di proporre un modello coerente con una società post-lavorista. Come sottolineato in precedenza, si può (e si deve) avere fiducia nel progresso tecnologico, alla condizione vincolante che si riconosca la non neutralità di esso e si abbia la consapevolezza che, in assenza di un cambio di paradigma sul valore da (non) attribuire al lavoro, il progresso tecnologico rischia di causare crescenti diseguaglianze e polarizzazioni dei redditi. Se risposte parziali come il tele-lavoro, lo smart-working e la settimana lavorativa corta possono rispondere ad alcuni di questi problemi, la domanda e la sfida fondamentale resta questa: scommettendo nelle possibilità offerte dalla tecnologia, riusciremo a emancipare l’uomo dalla necessità del lavoro salariato? Come possiamo pensare una società che non fondi il sostentamento dei suoi individui sul potenzialmente iniquo ricatto della prestazione lavorativa?

Una possibile preoccupazione legata all’introduzione dell‘UII è l’effetto sull’offerta di lavoro di tale riforma. Mentre è indispensabile indagare questi effetti, qualora l’introduzione di UII portasse a una forte riduzione dell’offerta di lavoro non significherebbe forse che le persone prima lavoravano principalmente per necessità? Pertanto, una riduzione dell’offerta di lavoro, anche se negativa in una prospettiva di equilibrio generale, non potrebbe avere effetti positivi in termini sia di uguaglianza di opportunità sia di benessere individuale?

Dopo aver ristabilito una sorta di parità di scelta nel mercato del lavoro, dovrebbe essere poi discusso come raggiungere un diverso equilibrio con la domanda di lavoro. L’unico modo per farlo non credo possa essere il ricatto dello scambio obbligato fra lavoro e consumo. Aumentare l’automazione, aumentare l’efficienza, aumentare i salari per i lavori necessari sono possibili soluzioni. E si dovrà anche discutere come finanziare questa misura tenendo altresì conto delle ripercussioni che potrà avere sul funzionamento complessivo del sistema economico che dipenderà anche dalla capacità di adottare gli adeguamenti istituzionali che essa richiede.

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