Perché ha vinto Schroeder. Una indicazione per la sinistra europea

Il tabù infranto nel rapporto con gli Usa.

1. A grandi linee, i contenuti  dei due programmi politici che sono state giudicati dagli elettori tedeschi il 22 settembre non rivelano contrapposizioni sostanziali.

Non nella politica economica dove la polemica pre-elettorale ha riguardato soprattutto la valutazione dello scostamento fra le promesse fatte da Schroeder quattro anni fa e i consuntivi,  piuttosto che la direzione delle riforme stesse: la riduzione delle aliquote di imposta (6 punti) e la riforma pensionistica realizzate dal suo governo sono del resto in linea con la scelta di un parziale ritiro della mano pubblica dall’economia  auspicato da (quasi) tutti in Germania come in Europa. Né si scorgono dissensi di fondo sulla politica europea, i cui contenuti, e in particolare l’allargamento,  sono in buona parte patrimonio comune delle due coalizioni; non emergono contrasti di principio neanche nella  politica estera, ma su questo tornerò più avanti.

Si aggiunga che i due personaggi in lizza, per diversi motivi, non sono riusciti a suscitare nei rispettivi campi  un entusiasmo pari alle loro ambizioni. La reputazione del cancelliere è andata scemando via via che la velocità della sua azione di rinnovamento diminuiva, dando luogo anche a iniziative in contrasto con lo spirito del suo programma del 1998, come per gli aiuti alle industrie in difficoltà, (da ultimo  alla telefonia mobile) : l’affanno del cancelliere alle prese con il ristagno economico e con la mancata riduzione della disoccupazione,   ha oscurato nella percezione pubblica quella nuova frontiera annunciata con ispirazioni kennediane quattro anni fa. Su Stoiber c’è relativamente poco da dire, nonostante la rimonta con cui ha risollevato le sorti di un partito seriamente colpito dagli scandali:  è stato essenzialmente un candidato “contro”, ricettacolo delle insoddisfazioni dell’elettorato di centro più che il profeta di una nuova era.

2. La vittoria della coalizione guidata da Schroeder e da Fischer rappresenta  allora un evento tutto sommato di secondaria importanza per la Germania e per l’Europa?  Non credo sia così. Non tanto perché si sia  interrotta la serie dei successi elettorali delle coalizioni di centro-destra, circostanza, come si capisce,  comunque non irrilevante.

In primo luogo, anche sulle questioni di contenuto qualche  differenza non trascurabile  fra vincitori e vinti  c’è. In secondo luogo, c’est le ton qui fait la musique, e sotto questo profilo l’impatto in Europa dell’inatteso recupero di consensi della coalizione rosso-verde è  rilevante.

Circa il primo aspetto, mi voglio soffermare solo su tre punti, che mi paiono però significativi.

Per Schroeder l’auspicata flessibilità sul mercato del lavoro si  accompagna a un rafforzamento del sistema di codeterminazione, in particolare con l’estensione dei consigli di impresa anche alle imprese di minore dimensione. Il segnale è chiaro, soprattutto sul piano politico: le riforme del mercato del lavoro devono essere supportate da una forte presenza sindacale, in particolare all’interno delle aziende. Neanche la tradizione di cultura politica della CDU-CSU fin dai tempi della economia sociale di mercato di Erhard, ripresa ed enfatizzata da Stoiber durante la campagna elettorale, è fondata thatcherianamente sulla sconfitta delle rappresentanze del lavoro nelle relazioni industriali né – per inciso – tantomeno sulla distruzione dello stato sociale. Nella  posizione socialdemocratica c’è tuttavia qualcosa di più e di diverso: essa  riflette  la persistenza di un legame stretto con la base storica della sua influenza nella società tedesca, legame  che non si è voluto allentare, nonostante le difficoltà crescenti delle organizzazioni sindacali tedesche a governare le tendenze centrifughe che sono emerse nel modo stesso di concepire la rappresentanza dopo la fine del fordismo. Sotto questo profilo, Schroeder è ancora, a dispetto dei toni a tratti blairiani con cui si era presentato come successore di Kohl (il nuovo centro) e l’avverso spirito del tempo,  un difensore convinto del modello tedesco di relazioni industriali.   Ciò consente alla SPD di mantenere un riferimento sociale essenziale nel lavoro dipendente,  non più sufficiente a garantire una prevalenza elettorale, ma comunque necessario.

Il secondo punto riguarda la attribuzione della nazionalità tedesca agli immigrati  nati in Germania, osteggiata dai democristiani: è una rottura storica per un paese in cui il principio del “suolo e del sangue” ha avuto tanta parte nelle vicende nazionali  del novecento e in cui la quota di immigrati si colloca sul 9 per cento.  Un manifesto elettorale dei verdi mostrava sotto la scritta “una Germania variopinta” tre nanetti da giardino, ognuno di colore diverso. Per apprezzarne la rilevanza anche a livello europeo, basta pensare, credo,  ai recenti casi italiani.

L’ultimo punto specifico di contenuto su cui sono emerse differenziazioni di rilievo nell’ultimo mese di campagna elettorale è stato, come noto, la questione irachena. Qui la sottolineatura della distanza l’ha cercata e voluta il cancelliere. Nel loro secondo duello televisivo, Schroeder ha replicato ad uno Stoiber  incerto ma attento a privilegiare comunque le ragioni del grande alleato con poche secche parole: in ogni caso la guerra no. Non è facile misurare  l’effetto sulle elezioni di queste dichiarazioni, che comunque sicuramente c’è stato, come era del resto previsto nei calcoli elettorali del cancelliere. Il punto più significativo è però un altro: per la prima volta dall’Ostpolitik di Brandt  un tema di politica internazionale  è stato consapevolmente collocato al centro della campagna elettorale. Atto di autonomia in entrambi i casi, ma allora  necessariamente bisognoso di una convalida  da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica in un contesto internazionale con una  Germania occidentale ancora sotto tutela; oggi invece l’iniziativa viene da una Germania unita, in chiaro contrasto con l’amministrazione della potenza globale superstite. E’ presto per dire quale sia la portata e il grado di persistenza di questa posizione: se essa preluda, come qualcuno teme (fra cui Kissinger),  ad una sorta di nuova “via speciale” tedesca, seppellita a suo tempo da Adenauer, o se costituisca il possibile innesco di un processo di mutamento nei rapporti politici fra intera Europa e Stati Uniti. In ogni caso, un tabù è stato infranto, quale che sia l’esito della crisi irakena e l’evoluzione della posizione del governo tedesco.

3. Vengo ora  al secondo ordine di considerazioni circa la rilevanza delle elezioni tedesche, “il tono che fa la musica”. Quel tono l’ha dato in primo luogo Joshka Fischer, riuscendo meglio di chiunque altro a trasmettere la percezione che mutamenti importanti erano stati realizzati.  Nella sua persona, nell’arco della sua esperienza politica,  sono racchiusi i simboli della sinistra tedesca  post-1968; con la metafora di Dutschke,  Fischer ha compiuto una vera e propria lunga marcia attraverso le istituzioni, giungendo all’approdo molto mutato da come era partito, ma con una coerenza di ispirazione di cui testimonia la  elevatissima credibilità personale di cui oggi gode, forse da solo, in Germania. Fischer, a capo di un partito litigioso ma meno partecipe degli altri al circo dei grandi interessi costituiti, ha  realizzato con la tassa ecologica e il ritiro graduale dal nucleare due obiettivi storici del movimento verde. Da ministro degli esteri ha saputo comunicare  la visione di una Germania impegnata per una Europa federalista,  esplicitamente schierata nel dibattito sul futuro istituzionale e costituzionale del continente. Con Schroeder, ha messo fine allo stato di minorità internazionale in cui era costretta la Germania dal teorizzato non intervento delle proprie forze armate al di fuori del proprio territorio, prima in Kossovo poi in Afghanistan (si noti, in quest’ultimo caso con il voto contrario, per mere questioni di tattica politica interna, dell’opposizione demoliberale).

4. Ma non credo che la politica di Fischer possa essere misurata solamente in funzione degli interessi tedeschi.  Essa rimanda a questioni che riguardano la sinistra europea.      Altri leader dello stesso campo ideale,  penso all’esperienza del governo d’Alema in occasione del Kossovo, si sono mossi su linee simili, ma non hanno trovato il conforto di un sostegno pieno, innanzitutto all’interno del proprio schieramento, sostegno  che hanno invece saputo procurarsi Fischer e Schroeder.

Allargando la riflessione al di là della politica estera, la loro esperienza mostra finora che un’azione di governo complessivamente coerente è in grado di raccogliere sia i consensi addizionali per vincere le elezioni sia quelli del proprio  schieramento storico. L’impresa di Fischer, in particolare, è consistita nella sua capacità di operare con successo su entrambi i fronti, guadagnando consensi nell’area percorsa da venature  a vario titolo antagonistiche o  confitte nella sinistra tradizionale, ma anche in  quella del centro moderato.   Certo, gli uomini e i fattori nazionali specifici contano assai, ma questo mi pare  l’elemento di maggior interesse delle elezioni tedesche per le prospettive della sinistra europea e italiana: il saper parlare chiaramente con lo stesso linguaggio a parti della società così diverse  indica, in potenza, una grande capacità di presa politica e culturale, proprio quella capacità che la sinistra italiana va ricercando da anni.

 

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