Perché gli eurobond dovrebbero chiederli tedeschi e olandesi

Civil Servant muove dalla considerazione che, diversamente da quanto accadrebbe in un mercato perfetto, nel caso di emissioni di eurobonds vi sarebbero margini per guadagnare sulla differenza di prezzo tra beni sostanzialmente identici ma scambiati tra soggetti differenti su uno stesso mercato. Infatti, se gli eurobond possono essere emessi solo a tassi superiori a quelli dei bund tedeschi, allora i tedeschi potrebbero indebitarsi per acquistarli lucrando sulla differenza tra i rendimenti (al netto del diverso rischio).

Si parla da tempo di debito comune europeo, soprattutto dal 2008, quando l’accordo di Basilea II “suggerì” alle banche di valutare i titoli di stato che avevano in portafoglio come tutti gli altri asset, ossia in base al rating, mentre in precedenza quelli dei paesi OCSE godevano di un coefficiente di rischio nullo per definizione. Un paio di anni dopo, l’accordo di Basilea III inasprì i criteri di valutazione e amplificò gli effetti di questo criterio contabile, aumentando il rapporto tra capitale e credito erogabile. Fino a quel momento la diversa solidità delle finanze pubbliche dei paesi europei non aveva influito troppo sulla quotazione dei titoli pubblici nazionali, creando di fatto un mercato unico per tutto il debito sovrano europeo, tanto che all’inizio del 2011 erano ancora praticamente inesistenti le compravendite dei credit default swap (CDS) sui debiti nazionali, ossia degli strumenti che forniscono una assicurazione contro il rischio che i titoli pubblici non siano rimborsati regolarmente.

I postumi della crisi dei debiti privati e la contabilità creativa della Grecia hanno fatto il resto: le differenze tra i titoli nazionali, tenute fino ad allora sotto il tappeto, sono esplose e gli economisti più lungimiranti hanno cominciato a riflettere sull’opportunità che almeno parte dei debiti nazionali (particolarmente la quota inferiore al 60% del Pil scolpita sulle tavole di Maastricht) fosse finanziata con uno strumento comune. Immediatamente si levarono gli scudi contro il rischio che il debito comune incoraggiasse politiche fiscali scriteriate nei paesi meno virtuosi, trascinando tutti gli altri verso il default. Inoltre si temeva che, senza la pressione di tassi di interesse più elevati, i paesi più indebitati non avrebbero mai messo in ordine nei propri conti pubblici. A nulla valsero gli appelli alla solidarietà europea, che in effetti è un argomento più etico che economico, né la considerazione che un debito comune avrebbe stabilizzato tutti i mercati finanziari e non solo quelli dei paesi più deboli. In realtà, alcuni semplici accorgimenti tecnici avrebbero minimizzato i rischi ed esaltato le virtù degli eurobond, ma da allora questa espressione è diventata una specie di tabù sui tavoli europei. L’opposizione agli eurobond ha condizionato addirittura le strategie di governi e partiti di opposizione in Germania e nel nord-Europa almeno quanto il contrasto all’immigrazione. Mai un tema così tecnico come il finanziamento degli stati aveva diviso tanto l’opinione pubblica.

La crisi del corona virus sembra aver ridato nuova vita alla proposta di un debito comune europeo, eventualmente limitato alle sole spese straordinarie legate alla pandemia. Anche questa volta, i paesi finanziariamente più solidi, dalla Germania ai “nordici frugali” (Austria, Olanda, Danimarca, Finlandia, Svezia), si stanno opponendo strenuamente all’emissione di titoli di debito comune. La “narrazione” prevalente in questi paesi è che i corona bond sarebbero vantaggiosi solo per i paesi con una reputazione peggiore, come i soliti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, mentre stavolta l’Irlanda non sembra interessata), che ora sono costretti ad indebitarsi a tassi più elevati degli altri. Invece i paesi più virtuosi sono convinti di rimetterci, perché potrebbero reperire le stesse risorse finanziarie a condizioni molto migliori se si presentassero sul mercato senza il fardello di certi imbarazzanti compagni di avventura. La mole gigantesca di liquidità necessaria ad affrontare questa crisi, valutabile attorno al 10% del Pil europeo, potrebbe far cadere questa illusione, ma per ora i mercati sembrano disposti ad assecondarla.

A prescindere dalla fondatezza e dal profilo etico delle argomentazioni contro gli eurobond, i paesi rigoristi sembrano trascurare un particolare che invece renderebbe estremamente vantaggioso proprio per loro la condivisione di una parte del debito sovrano europeo. Lo stesso errore sembrano commettere i sostenitori più entusiasti degli euro e corona bond. Questi strumenti, infatti sono soggetti ad un fenomeno pervasivo su tutti i mercati, che è la possibilità di guadagnare sulle differenze di prezzo tra prodotti sostanzialmente simili. Vedremo tra breve come tedeschi e paesi frugali potrebbero avvantaggiarsene.

Secondo i manuali di economia, il mercato, quando funziona, tende a livellare i prezzi di uno stesso bene scambiato tra operatori diversi. Si chiama ipotesi di “non arbitraggio” o “legge del prezzo unico” ed è la materia prima per centinaia di teoremi sull’equilibrio economico generale, sulla determinazione dei cambi e sulla valutazione dei prodotti finanziari. Nel mondo reale, molti degli studenti più brillanti, che hanno compreso meglio questi teoremi, vanno a lavorare per fondi di investimento e banche d’affari che guadagnano proprio arbitrando tra asset di ogni tipo. C’è chi la chiama bieca speculazione e chi asimmetria informativa e remunerazione del rischio. Qualcuno ha trovato anche ottime ragioni perché i prezzi conservino una certa variabilità anche all’interno di uno stesso mercato, ad esempio perché compratori e venditori bilanciano la perdita attesa rispetto al prezzo migliore con il costo della ricerca necessaria a trovarlo. In questa ottica, l’arbitraggio sarebbe l’equo compenso per aver effettuato una indagine di mercato al posto delle parti coinvolte direttamente nelle transazioni.

Nel caso degli eurobond esisterebbero, per lungo tempo, ampi margini di arbitraggio. Questi strumenti, infatti, sarebbero necessariamente emessi a condizioni intermedie tra quelle che i singoli paesi europei potrebbero spuntare sul mercato per i propri titoli nazionali. Se diamo retta a qualche teorema di matematica finanziaria, la semplice condivisione dei rischi dovrebbe mantenere il rendimento degli eurobond al di sotto della media dei titoli dei partecipanti, a condizione che i rischi nazionali tendano a compensarsi tra loro. D’altra parte, i nostri antenati inventarono gli insaccati proprio perché scoprirono che il loro gusto è molto migliore di quello dei singoli ingredienti, anche se il Nobel per una intuizione simile, applicata al mercato finanziario, lo vinse Harry Markowitz nel 1990.

In un mondo perfetto l’arbitraggio non sarebbe possibile neanche tra i migliori salumi, ma viviamo in mondo, anzi in un mercato, in cui i prezzi degli asset ed i loro rendimenti risentono solo in parte di cosiddetti “fondamentali”, ossia della capacità e volontà degli emittenti di onorare i propri obblighi. Sul valore di scambio dei titoli influiscono sentiment più o meno irrazionali, attacchi speculativi, manovre delle banche centrali, esigenze momentanee di tesoreria degli emittenti e dei possibili acquirenti, manovre sul mercato secondario, ecc. Per avere un’idea dei margini di arbitraggio che esistono sui titoli di stato basta dare un’occhiata agli spread su un titolo ritenuto sicuro, come i bund tedeschi, e i corrispondenti CDS. In un mondo normale, se non proprio perfetto, spread e CDS dovrebbero essere quasi equivalenti, invece le cose non stanno così, come conferma perfino uno studio elaborato da ricercatori della BCE. Quindi gli operatori specializzati sono in grado di sfruttare tutte le oscillazioni degli spread coprendosi con i CDS solo quando è conveniente. Anche in questo caso, le informazioni e la capacità di elaborarle hanno un prezzo.

È verosimile che gli eurobond, se verranno mai emessi, renderanno più dei titoli tedeschi, anche se è minima la probabilità che non siano rimborsati alla scadenza o che non paghino regolarmente le cedole promesse. Questo significa che i governi dei paesi che riescono a spuntare sul mercato un tasso inferiore a quello degli eurobond, come i “frugali”, troverebbero conveniente indebitarsi in proprio al solo scopo di comprare gli eurobond e godersi il differenziale di interesse senza muovere un dito. Lo stesso vale tutti i paesi che godono una reputazione finanziaria migliore della media del pool che emette gli eurobond faranno soldi facili. Potrebbero farlo anche oggi, e talvolta lo fanno, ma correndo parecchi rischi in più perché, come abbiamo visto, un eurobond è decisamente più sicuro dei singoli titoli nazionali. Al massimo gli eurobond potrebbero rubare un po’ di mercato ai titoli dei paesi forti, ma è una possibilità piuttosto remota, almeno fino a quando i paesi più deboli rimarranno tali.

Gli eurobond, tuttavia, offrono parecchi vantaggi anche ai paesi più deboli, che possono indebitarsi a condizioni migliori di quelle che avrebbero spuntato da soli sul mercato. Quindi non resta loro che far buon viso al cattivo gioco, ringraziando i paesi “frugali” e tollerando il loro eventuale arbitraggio sui titoli comuni. Potrebbe essere un interessante caso di sindrome di Stoccolma applicato alla finanza. Questa condizione di subalternità durerà fino a quando il mercato non farà coincidere il rendimento degli eurobond, al netto dei corrispondenti CDS, con quello dei titoli dei paesi più forti. Ma non è detto che questa condizione, tanto cara ai manuali di economia, si verificherà mai.

Se le cose stanno così, è difficile spiegarsi la posizione del fronte rigorista europeo sulla base di argomenti puramente economici. Per il momento, solo la Francia sembra aver capito i vantaggi degli eurobond anche per un paese finanziariamente solido, ma se anche i “frugali” fiutassero l’affare potrebbero diventare tra i principali promotori degli eurobond. D’altra parte non dimentichiamo che le cartolarizzazioni sono state inventate proprio in Olanda nel diciottesimo secolo. E già allora qualcuno si arricchì con operazioni di buyback a prezzi stracciati ai danni degli altri coloni americani finiti nel calderone dei debiti cartolarizzati.

Messa così, gli eurobond sembrerebbero un affare sia per i paesi forti, sia (forse meno) per quelli deboli, ma visto che in economia, come in natura, nulla si crea e nulla si distrugge, ci si deve chiedere chi perderebbe da questa operazione. Bob Dylan direbbe che “la risposta soffia nel vento”, e precisamente in quella brezza che gonfia vele e tasche di chi fa intermediazione tra i titoli nazionali, perché quando si riducono i differenziali tra i rendimenti e tra i rischi si restringono anche i margini di arbitraggio.

 

L’eurobuffi

Un norcino che chiamano er Todesco

i buffi nun l’ha mai potuti véde

“so’ peggio der peccato” dice ar chiosco,

ma abbozza se Rosina je lo chiede.

Ar mercato hanno fatto sta’ pensata:

“mettemo tutti i buffi dentro a ‘n cesto

e poi je presentamo sta ‘ncartata.

Vedemo se diventa più modesto”

Quanno se presentorno cor presente

la sora Assunta, che c’ha ‘n cervello fino,

disse al Todesco: “Pija tutto quanto,

poi và da don Nicola all’Aventino

fatte dà i sordi e pòrtaje ‘sto conto:

“M’avete dato ‘n pacco co’ la fanga

io ve ritorno i sordi ed il contante

però per ogni scudo che ve manca

voi me ne date due da ridà ar Monte”

Così li fai contenti e ce guadagni

ché manco er mejo baro rinomato

j’avrebbe torto quello che ce magni

e te ritrovi pure ringraziato.

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