Per una politica pubblica contro il fallimento formativo

Marco Rossi-Doria e Giulia Tosoni, dopo avere ricordato che la dispersione scolastica riguarda in Italia quasi un giovane su cinque, illustrano le possibili soluzioni: le scuole della seconda opportunità e gli interventi di miglioramento nella capacità delle scuole di garantire a tutti apprendimenti precoci e di qualità. A parere dei due autori, le esperienze di successo sono numerose ma il nodo principale rimane la rigidità del sistema e la difficoltà a passare dalle sperimentazioni al cambiamento permanente ed effettivo della vita quotidiana in tutte le scuole.

L’Italia è passata, in 150 anni, dall’analfabetismo di massa – 80% circa nel 1861 – all’istruzione superiore di massa. Un enorme progresso, avvenuto soprattutto dopo l’introduzione della scuola media unica nel 1962. Pochi anni dopo, nel 1967, arrivarono le parole profetiche di Don Milani: “Il problema principale della scuola italiana sono i ragazzi che perde”. E’ ancora – nonostante i progressi e i profondi cambiamenti avvenuti nel Paese – indubbiamente così. La dispersione scolastica, infatti, benché negli ultimi anni si sia lentamente ridimensionata (dal 23% al 17%, Istat), non è scesa mai sotto la soglia del 10% richiesta dall’Unione Europea, e resiste ben al di sopra della media attuale (12% in UE27).

In base alla definizione internazionalmente concordata, gli early school leavers sono i giovani fra i 18 e i 24 anni che non hanno conseguito un titolo di studio o una qualifica professionale e che non sono in formazione. In Italia li chiamiamo i “dispersi”, con un’analogia linguistica del tutto inappropriata, come i soldati al fronte di cui si perdono le tracce e non si conosce il destino. Invece conosciamo le loro storie, le loro traiettorie di vita, i loro volti e il loro nomi. Per questo sappiamo che è inutile sperare che il nostro alto tasso di abbandoni rientri presto nella media europea, perché oggi lo impedisce la disuguaglianza delle opportunità. La dispersione si concentra soprattutto nel biennio delle scuole secondarie di II grado, ma resiste ancora un residuo precoce e doloroso nelle scuole secondarie di I grado. Il fenomeno ha una costante: i ragazzi che la scuola italiana perde provengono dalle periferie vecchie e nuove dell’esclusione sociale e dalle famiglie più povere e con minore istruzione. Vivono in maggioranza nel Mezzogiorno (sono il 22,2% in Campania, il 25,8% in Sicilia, il 19,9% in Puglia, il 24,7% in Sardegna), ma anche nelle periferie urbane del Centro-Nord. Il circolo vizioso tra povertà e povertà di istruzione ha carattere intergenerazionale e rivela l’incapacità della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. I dati Ocse del maggio 2015 confermano questa urgenza politica e mostrano le connessioni strettissime tra i fallimenti formativi e la disattivazione di troppa parte dei nostri giovani (NEET) entro la school-work transition.

Nel corso degli ultimi vent’anni una serie di programmi e progetti – spesso in analogia con iniziative in Europa nate con Jacques Delors alla fine degli anni ’80 – hanno permesso di conoscere le complesse fragilità multi-fattoriali che sono causa degli abbandoni scolastici e anche le tante azioni promettenti di recupero fondati su una nuova, possibile capacità del sistema di ri-incontrare questi ragazzi e accompagnarli a nuova formazione. Eppure esperienza e consapevolezza non sono sufficienti in mancanza di un’adeguata politica nazionale capace di sostenere le famiglie povere accompagnando al contempo la scolarità dei figli. Occorrono misure di contrasto della povertà multidimensionale e dell’esclusione sociale, a cominciare dal Mezzogiorno, e politiche di sostegno verso le fasce più deboli dei giovani adulti, attraverso la formazione-lavoro e incentivi all’auto-impresa. Al contempo, decenni di ricerca e impegno sul campo indicano che se la scuola italiana non riesce a promuovere attraverso l’apprendimento proprio coloro che ne avrebbero maggiormente bisogno, ciò dipende da ragioni anche attinenti l’organizzazione e la vita quotidiana nelle classi. L’impostazione della scuola tradizionale trasmissiva è ancora oggi fondata, soprattutto negli istituti superiori, sul rapporto tra un insegnante e il gruppo classe e sulla corrispondenza tra classe ed aula: 20-25 ragazzi fermi nei banchi dentro un’aula per 4-5 o più ore al giorno. Questa impostazione preserva fortemente l’idea di uno spazio comune – la scuola pubblica – in cui ci si incontra, si impara e si convive tra diversi. Tuttavia questo giusto principio non può realizzarsi a scapito dei bisogni diversificati di ciascuno. Per un’uguaglianza effettiva delle opportunità è indispensabile mettere in atto delle discriminazioni positive. Più in generale, un’organizzazione scolastica fortemente standardizzata – a fronte di una situazione del Paese profondamente mutata e complessa dal punto di vista dell'”antropologia educativa” – nega la possibilità per scuole e docenti di costruire risposte flessibili, efficaci e mirate. E’ evidente l’urgenza di ridefinire il tempo scuola, gli spazi fisici, le possibilità organizzative e di dare mezzi e risorse umane adeguate. Abbiamo a lungo ragionato di queste tematiche nel nostro libro-conversazione La Scuola è mondo (Ed. Gruppo Abele, 2015). Fermo restando l’importanza di un tempo-scuola che sia dedicato a tutti, che sostiene il carattere sociale dei processi di apprendimento, va oggi promossa un’azione plurale a supporto dell’apprendimento di ciascuno, capace di sviluppare le parti forti, compensare quelle deboli e aiutare ad esplorare le parti non attivate di ogni bambino e ragazzo, anziché offrire solo percorsi standard uguali per tutti.

Nonostante tutto, la lotta contro l’abbandono scolastico non comincia da zero: le scuole e i docenti, insieme a tanti alleati in campo educativo nei diversi territori, hanno accumulato una grande esperienza, sebbene le pratiche realizzate a macchia di leopardo non abbiano potuto trasformarsi in interventi di sistema, dotati di continuità nel tempo, carattere istituzionale e risorse adeguate. Le risposte possibili appartengono a due famiglie di misure pubbliche.

La prima famiglia è quella del recupero dell’abbandono, la cosiddetta “seconda occasione”. La storia di questi ragazzi non è solo genericamente dovuta al crescere nei contesti della povertà e povertà d’istruzione. E’ una storia di sofferenza legata alla scuola, a fallimenti passati che bruciano ancora, a litigi con gli insegnanti, a sanzioni disciplinari ripetute, a bocciature. Quando si ascolta e si dà loro voce e parola emerge chiaramente la delusione, la frustrazione, la convinzione di non essere stati capiti, di non essere tagliati per la scuola. Non è possibile riconquistarli alla formazione riproponendo loro la scuola così com’è. Esiste allora un’esperienza ormai consolidata in varie zone del Paese di scuola altra e diversa, realizzata con la collaborazione di educatori e volontari del privato sociale, per piccoli gruppi, organizzata attraverso spazi di socializzazione e di discussione, tempi per l’apprendimento a partire da quel che già si è imparato, occasioni formative fuori dalla scuola, nel quartiere, nella città e poi in bottega o nella formazione professionale, per avviarsi ad un lavoro dove sia auspicabile anche la possibilità di continuare ad apprendere nel corso della vita. Si tratta di una strada promettente, che ha dato buoni risultati fin dalle prime sperimentazioni avviate negli anni ’90, con il Progetto Chance – Maestri di Strada di Napoli, Provaci Ancora Sam a Torino, Icaro a Reggio Emilia e Verona, le Scuole di seconda opportunità a Milano e Roma, ecc. Una strada che, tuttavia, è ancora pioneristica, affidata all’impegno di docenti di frontiera ed educatori del privato sociale e alla lungimiranza di alcune istituzioni locali, mai diventata sistematica offerta pubblica sul territorio nazionale.

La seconda famiglia di risposte possibili è quella che attiene alla prevenzione del fallimento formativo. Si tratta di pratiche che agiscono ancora all’interno della scuola di tutti e che puntano a maggiore flessibilità nell’offerta di istruzione e di formazione e a un miglioramento delle scuole nella capacità di garantire apprendimenti di qualità precoci e per tutti. E’ possibile realizzare interventi fin dalla scuola dell’infanzia, che sostengano anche una genitorialità positiva nei contesti più difficili. Nella scuola primaria sono moltissime le esperienze che hanno rotto lo standard e riorganizzato la didattica con la possibilità di lavorare per piccoli gruppi e cambiando ambiente didattico attraverso le aule tematiche, i laboratori, il giardino, ecc. Un tempo scuola più lungo viene utilizzato in molti luoghi per attività di socializzazione, per lo sport, la musica, il teatro, il sostegno allo studio individuale e per fare i compiti. Curare attentamente il passaggio da un ciclo scolastico all’altro è cruciale per ammorbidire i traumi che ne derivano: molte scuole creano momenti di continuità e accompagnamento tra la fine della primaria e l’inizio della scuola media, e poi ancora tra questa e la superiore. Soprattutto nelle zone educative più difficili, la scuola, con le sue risorse ridotte all’osso, non può svolgere da sola questi compiti e ha bisogno delle alleanze con il territorio: centri sportivi, associazioni di volontariato, parrocchie, piccole e medie imprese sono soggetti importanti per garantire un’offerta formativa ampia, ricca di esperienze fuori dalla scuola che accompagnino bambini e ragazzi verso il mondo, permettendo di scoprire interessi, passioni e talenti e di sostenere adeguatamente la socializzazione con i pari. Anche in questo caso la scuola italiana offre un ampio panorama di pratiche realizzate su tutto il territorio nazionale, che vivono grazie a gruppi docenti coesi e riflessivi, dirigenti intraprendenti, istituzioni locali presenti ed efficienti. Purtroppo anche queste pratiche faticano ancora a farsi sistema: l’autonomia scolastica doveva rappresentare la molla capace di liberare queste energie, ma ha più spesso significato una maggiore solitudine per le scuole nel confrontarsi con l’assenza di risorse e le rigidità burocratiche.

Così, la discriminazione positiva a favore dei giovani a rischio di drop-out dal sistema d’istruzione e formazione appare troppo lenta e incostante. Insieme a politiche generali contro l’esclusione sociale, per battere la dispersione scolastica è indispensabile attivare una profonda innovazione nel concreto lavoro delle scuole, assumendo la questione del successo formativo come priorità politica del Paese. Lungo il corso dei decenni, decine di migliaia di persone hanno lavorato con intelligenza, competenza e dedizione e da tempo sono noti ai decisori, agli studiosi e soprattutto agli operatori in campo quali sono i principali ingredienti, in termini di politiche pubbliche e di concrete pratiche, che, se attuate con costanza, consentono un progressivo miglioramento della situazione. Eccone gli indirizzi, in estrema sintesi: forte coordinamento tra promotori delle politiche (ottimizzazione delle iniziative e delle risorse tra scuole, decisore nazionale, regioni, enti locali); mantenimento nel tempo delle buone pratiche ordinarie e compensative per assicurare apprendimento a ciascuno nelle scuole e fuori; rigorosi processi di accompagnamento (assessment) e di valutazione dei risultati; sviluppo della scolarità precoce e cura dell’apprendimento di ciascuno all’età giusta; azioni di orientamento e accompagnamento nei passaggi tra gradi di scuola; contesti di apprendimento orientati alla didattica laboratoriale anziché trasmissiva e adeguamento degli ambienti scolastici non solo per renderli sicuri ma anche per renderli accoglienti e coerenti con tale prospettiva; sostegno a iniziative di sviluppo locale legate all’apprendimento dell’insieme della popolazione e allo sviluppo del carattere comunitario delle stesse scuole; sostegno ai percorsi tra scuola e lavoro e alle scuole di seconda occasione; cura dell’alleanza tra scuole e famiglie e dell’alleanza territoriale tra tutte le agenzie educative e formative (scuole, privato sociale, centri sportivi, volontariato, parrocchie, agenzie di formazione, imprese, ecc.).

E’ sempre più urgente riconoscere la centralità di questa sfida e approntare una regia nazionale stabile, perché tutto questo possa accadere con costanza e ovunque.

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