Per un ruolo politico dell’Antitrust. “The Curse of Bigness. Antitrust In The New Gilded Age” di Tim Wu

Fabrizio Leone, si occupa di un recente saggio di Tim Wu, noto per la sua teoria sulla “neutralità della rete”, sul ruolo “costituzionale” dell’antitrust. Dopo aver richiamato episodi recenti che illustrano la rilevanza della questione, Leone sottolinea che secondo Wu l’antitrust dovrebbe essere non un mero controllore dei prezzi al consumo ma il garante della prevalenza degli interessi pubblici su quelli privati. Valutando questa posizione Leone sostiene che un punto debole di Wu è la mancanza di proposte politiche concretamente praticabili.

A luglio di quest’anno, la Federal Trade Commission (FTC, l’agenzia antitrust statunitense) ha commissionato a Facebook una multa di 5 miliardi a seguito delle indagini sul caso di Cambridge Analytica. Nonostante si tratti della sanzione pecuniaria più grande mai inflitta nella storia degli Stati Uniti, il giornale The Guardian sottolinea come questa sia in realtà quasi un regalo a fronte dei reati contestati per un’impresa di tali dimensioni. Quali sono le ragioni di una simile affermazione? Cos’altro avrebbe potuto fare la FTC? E, più in generale, qual è il compito dell’antitrust in una democrazia?

Nell’accezione comune, l’antitrust viene connotato come un ente imparziale volto a tutelare il benessere dei consumatori mediante il controllo del livello dei prezzi al dettaglio (su Etica ed Economia se ne è già parlato qui). Questa descrizione è tuttavia il frutto di un percorso politico ben preciso, e la funzione dell’antitrust non è sempre coincisa unicamente con tale scopo. Nel suo ultimo saggio “The Curse of Bigness. Antitrust In The New Gilded Age” (Columbia Global Reports, 2018. 154 pagine), Tim Wu offre un’interessante discussione sul tema. In particolare, Wu rifiuta la connotazione dell’antitrust come un mero organo tecnico. Al contrario, ne evoca il compito, definito a più tratti “costituente”, di garante della supremazia dell’interesse pubblico su quello privato. A fronte delle dilaganti tendenze monopolistiche e delle crescenti disuguaglianze del nostro tempo, conferire all’antitrust tale ruolo è un passo necessario per non << […] ripetere gli errori capitali del ventesimo secolo. Come ci ha insegnato la storia di quegli anni, l’eccessiva concentrazione del potere economico porta infatti alla disuguaglianza estrema e alla sofferenza. […] se abbiamo qualcosa da imparare dalla Gilded Age (n.d.r. espressione usata negli Stati Uniti per indicare gli ultimi 30 anni del XIX secolo), io credo che sia proprio questo: il fallimento delle politiche pubbliche nel soddisfare gli interessi della collettività spiana la strada ai fascismi e alle dittature>>.

Al fine di individuare soluzioni per i problemi di oggi, Wu ripercorre la storia dell’antitrust negli Stati Uniti sin dall’inizio del secolo scorso. A cavallo tra XIX e XX secolo, l’economia statunitense già sperimentò una decisa tendenza alla concentrazione del capitale e del potere di mercato nelle mani di poche, grandi e influenti imprese. In quegli anni, compagnie come la Standard Oil di John D. Rockfeller o la International Mercatile Marine Co. di John P. Morgan controllavano e amministravano i trasporti, il commercio estero, l’energia, le telecomunicazioni e altri settori chiave dell’economia. Wu scrive che la ricetta per la creazione di tali colossi è stata semplice e brutale: acquisizione orizzontale di altre imprese (ovvero acquisizione di imprese in settori diversi da quelli dell’acquirente), isolamento dei concorrenti e impedimento alla creazione di nuove attività. Nonostante violenze e soprusi di vario genere abbiano accompagnato tale processo, i monopoli venivano considerati da tutti i maggiori imprenditori degli Stati Uniti come l’unica forma di produzione in grado di garantire stabilità al Paese. A suffragio delle loro istanze, in molti allora vedevano nel regime di “crudele e caotica concorrenza”, che aveva caratterizzato l’economia mondiale durante buona parte del XIX secolo, il responsabile principale della crisi del 1873, quando il crollo dei prezzi agricoli e la sovrapproduzione industriale avevano spinto l’economia atlantica in una profonda recessione.

Wu divide le posizioni politiche sul fenomeno in due fasi principali. La prima caratterizzata dal favoreggiamento, spesso connivente, dell’ascesa dei monopoli. La seconda, invece, di più decisa reazione. L’inizio di quest’ultima viene individuato nella promulgazione dello Sherman Act nel 1890, che vietava espressamente acquisizioni e fusioni tra imprese aventi sede in Stati diversi del Paese. Comunemente considerato la prima legge antitrust della storia, lo Sherman Act sentenziava infatti che i monopolisti possedevano un potere non inferiore a quello dei monarchi, e che dunque la loro esistenza era in esplicito contrasto con il testo della Costituzione. I primi due celebri casi di giurisprudenza anti-trust si sono verificati durante la presidenza di Theodore Roosvelt: nel primo caso, l’atto è stato invocato per bloccare il tentativo di monopolizzazione da parte di Morgan del settore dei trasporti. Nel secondo, per sancire la divisione di Standard Oil in 34 sotto-imprese obbligate a operare solo entro i propri confini federali. A partire da quella data, e per oltre 50 anni, lo Sherman Act è stato usato per giustificare misure di questo genere.

La situazione è tuttavia cambiata drasticamente negli anni ’70 e ’80. L’ascesa della Scuola di Chicago, che ha profondamente rivisitato il ruolo dell’intervento dello Stato nell’economia, ha portato anche a una significativa revisione dei compiti dell’antitrust. Come racconta Wu nel suo libro, il mantra dell’efficienza del sistema della formazione dei prezzi in un regime di concorrenza ideale è stato trasformato da Robert Bork in una semplice formula giuridica: l’antitrust deve intervenire solo se una certa azione ha comportato, o rischia di comportare, un aumento del livello dei prezzi al dettaglio. La giustificazione epistemologica di tale affermazione risiede nell’idea che il livello di prezzi effettivamente osservato corrisponda (o sia almeno vicino) a quello ideale; la sua giustificazione normativa sta nel ritenere che questi siano una misura sufficientemente accurata del benessere dei consumatori. È evidente che la ricetta di Bork non lascia nessuno spazio a un’interpretazione costituzionale dell’antitrust. Impedire fusioni e acquisizioni tra imprese, o decretarne la scissione, è lecito solo qualora ci siano evidenti prove che ciò abbia portato, o possa portare, a un aumento del prezzo medio di un prodotto. Al contrario, fusioni e acquisizioni sarebbero persino desiderabili qualora implichino la riduzione e addirittura la scomparsa delle imprese che operano con prezzi più elevati. Wu sottolinea a più riprese quanto le agenzie di antitrust contemporanee rispondano più a questa logica che a quella dello Sherman Act.

All’inizio degli anni 2000, l’economia statunitense è tornata a sperimentare un livello di concentrazione monopolistica simile a quello della Gilded Age. Negli ultimi 20 anni, nonostante la crisi economica, il processo non ha subito battute d’arresto. L’ascesa del capitalismo delle piattaforme ha persino rafforzato e allargato i poteri dei monopolisti contemporanei. La faccenda delle fake news durante le elezioni presidenziali americane, il ricorso all’evasione fiscale o l’imposizione di condizioni lavorative al limite del sopportabile mostrano, tra le altre cose, che i monopoli di oggi riescono spesso a soggiogare il potere degli Stati e a incidere profondamente sul funzionamento delle democrazie. Per evitare il ripetersi degli “errori capitali del ventesimo secolo” descritti in apertura, Wu prospetta una riforma del ruolo dell’antitrust ispirata all’opera del giurista Louis Brandeis. I punti principali della sua proposta vertono attorno alla democratizzazione dei processi di acquisizione e fusione tra grandi imprese e, qualora necessario, all’utilizzo di misure volte alla scissione dei grandi gruppi. Per quanto riguarda il primo punto, Wu propone di coinvolgere l’opinione pubblica e invitare i cittadini a esprimere il loro parere relativamente alle fusioni tra grandi gruppi di imprese. Relativamente al secondo, esorta la politica contemporanea a seguire l’esempio di Roosvelt e a non aver timore di avanzare richieste di maggiori controlli sui grandi monopoli contemporanei. In entrambi i casi, più che stilare un manifesto programmatico, Wu evidenzia la necessità sensibilizzare i cittadini sulle conseguenze politiche e sociali che una certa fusione tra imprese potrebbe avere. Solo in questo modo, sostiene l’autore, si può mantenere alta l’attenzione sui rischi di un’eccessiva concentrazione di mercato. Riprendendo l’esempio di Facebook, Wu sottolinea che non ci sono motivi per pensare che l’acquisto di WhatsApp e Instagram (e di molte altre imprese) sia efficiente dal punto di vista dei consumatori. Tuttavia, lo scandalo di Cambridge Analytica ha dimostrato la serietà dei rischi derivanti dalla detenzione di informazioni di milioni di persone da parte di una sola impresa privata. Il giudizio che il The Guardian dà della sanzione della FTC a Facebook può dunque ora essere meglio compreso: una multa, seppur salata, è una questione di poco conto se comparata al rischio di subire un destino simile a quello di Standard Oil. Wu riconosce che la riforma dell’antitrust non è da sola sufficiente a risolvere tutte le questioni sociali contemporanee, ma allo stesso tempo sembra ritenere che la via per la creazione di un sistema realmente democratico non possa prescindere da un antitrust vigile e davvero capace di preservare la supremazia del pubblico sul privato.

 In conclusione, il saggio di Wu offre numerosi spunti di riflessione, ma lascia alcuni interrogativi aperti. Innanzitutto, il libro manca di una riflessione realmente approfondita sulle cause della formazione dei monopoli. La loro esistenza, più che un risultato delle forze contrastanti del mercato, viene infatti ricondotta esclusivamente alle manomissioni del sistema operate da pochi influenti personaggi. In loro assenza, sembrerebbe quasi che l’antitrust non abbia motivo di esistere, giacché in un regime di concorrenza leale non ci sarebbe bisogno di alcun controllore. Indubbiamente, le pressioni politiche sul governo statunitense hanno favorito l’ascesa dei monopoli, ma Wu non sembra considerare l’eventualità che il processo di concentrazione del capitale sia una caratteristica innata delle economie di mercato e non una loro degenerazione. In quest’ottica, è la concorrenza in sé e per sé a dar vita a tendenze monopolistiche, e la storia del pensiero economico, da Karl Marx a Piero Sraffa, abbonda di analisi del fenomeno. In secondo luogo, la sua agenda neo-brandeisiana non è accompagnata da proposte politiche da poter prendere realisticamente in considerazione. Sia il coinvolgimento dell’opinione pubblica che il maggior coraggio politico nei confronti dei monopoli sono invocati in senso astratto, quasi a significare che la presa di coscienza dell’importanza del problema sia di per sé sufficiente a mobilitare le persone. Piuttosto, in un’era di disaffezione politica come la nostra, sembra invece importante escogitare meccanismi di coinvolgimento più concreti.

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