Per sconfiggere il fallimento formativo

Marco Rossi-Doria affronta il tema cruciale del fallimento formativo, muovendo dall’osservazione che sebbene i dati segnalino una tendenziale attenuazione del fenomeno nel corso degli ultimi anni, la situazione rimane molto preoccupante sotto una molteplicità di profili. Rossi-Doria sostiene che Parlamento e governo hanno nel corso del tempo elaborato proposte serie e fattibili - e ricorda in particolare il Rapporto del Miur del gennaio scorso - ma sul piano dell’attuazione dei provvedimenti tutto tace.

Per quanto riguarda il fallimento formativo, la situazione dell’Italia è migliorata negli ultimi lustri in termini quantitativi. Il fallimento formativo è in lenta decrescita: dal 20,8% nel 2006 al 13,8% nel 2016. Tuttavia, la situazione rimane estremamente critica per l’intreccio di quattro elementi che, insieme, disegnano una crisi strutturale: alti tassi di abbandono uniti a molte ripetenze, alto numero di ragazzi con bassi livelli nelle conoscenze oggi irrinunciabili ai fini dello sviluppo sociale e personale nonché per esercitare la cittadinanza, forte presenza della povertà minorile e concentrazione di questi dati negativi nelle periferie povere ovunque, ma con uno squilibrio Nord/Sud pauroso.

Il carattere strutturale del fallimento formativo acquista ancor più peso perché ci troviamo in situazione di squilibrio demografico: facciamo pochi figli e ancora troppi di questi vivono un fallimento formativo che ne condiziona pesantemente la vita. E poiché a cadere fuori dal sistema d’istruzione e formazione sono quasi sempre i figli di genitori poveri con bassi livelli d’istruzione e che vivono in situazioni multi-fattoriali di esclusione, la nostra scuola mostra di avere indebolito la sua decisiva funzione democratica di ascensore sociale.

E’ passato quasi un anno da quando venivano descritte queste cose nel Rapporto del MIUR, frutto dell’intenso lavoro della Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa che è stato inviato alle Camere, ai comuni d’Italia, alle regioni, ai ministeri, alle parti sociali, al terzo settore.

E, nei luoghi della decisione politica, tutto tace.

Il tema è terribile e antico. Il documento della Cabina di regia – che ha visto un largo confronto del Ministero con scuole, esperti, comuni, regioni, privato sociale sulle esperienze già in campo oltre che sull’analisi dei dati – è solo l’ultimo di una lunga serie che le istituzioni hanno curato nel tempo. Il nostro è davvero uno strano Paese: dai media e dal dibattito pubblico poco si capisce quante volte le istituzioni italiane sanno documentare, con l’aiuto di esperti rigorosi e appassionati e di persone impegnati sul campo, le situazioni di crisi “incallite” e proporre soluzioni credibili grazie a azioni prolungate. È così per il fallimento formativo ma anche per la povertà, il dissesto idro-geologico, la tutela dei beni culturali, ecc. Lo stato, nelle sue articolazioni, spesso sa analizzare bene la situazione e prospettare serie risposte sulla base di indirizzi attentamente vagliati anche alla luce di buone pratiche consolidate e azioni diffuse, che attendono supporto.

Ma a valle di questi momenti di sintesi e competente proposta, l’azione politica costante e concertata non ha luogo. E non è solo perché “ci vorrebbero tanti soldi”, anche perché a volte, come nel nostro caso, non è così. Una strana rimozione segue spesso la chiamata a fare e far bene. E sulle ragioni profonde di questa situazione è bene non smettere di interrogarsi.

Per il contrasto alla dispersione scolastica – che è meglio chiamare fallimento formativo – molte indagini e rapporti puntuali sul fenomeno, sulla scia della grande denuncia di don Milani, si sono susseguite fin dagli anni settanta del secolo scorso. In tempi recenti, nel 2014, la VII Commissione della Camera dei deputati approvò un corposo documento, elaborato al termine di un’indagine conoscitiva, molto ampia, sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica.

Per sintetizzare, in poche righe, l’importanza del tema e le ragioni di questo “grido di dolore” riporto le prime frasi del Rapporto del MIUR del gennaio 2018:

È tempo per una grande politica nazionale tesa a battere il fallimento formativo in Italia.

Affermare – attraverso costanti e ben articolate politiche pubbliche – l’obiettivo di battere la cosiddetta dispersione scolastica – il fallimento formativo – significa occuparsi bene del nostro oggi e guardare lontano. Non si tratta solo di trovare soluzione a un problema del nostro sistema scolastico che dura da decenni ma di puntare alla crescita dell’Italia in un’ottica di equità e nel rispetto dell’art. 3 della Costituzione della Repubblica in accordo con tutti gli indirizzi di politica economica.

La dispersione non è un epifenomeno marginale, per quanto numericamente significativo; non è solo una disfunzione della scuola; per il sistema di istruzione e formazione non è un problema, è il problema. Ma, ancora di più, la dispersione è causa e insieme conseguenza di mancata crescita e, al contempo, di deficit democratico nei meccanismi di mobilità sociale del nostro Paese ed è l’indicatore di una deficienza del nostro sistema in termini di equità.

La conseguenza della dispersione non è solo la perdita, per centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi – in un Paese che fa pochi figli – delle opportunità che derivano dal compimento della scuola superiore o di una seria formazione professionale. La caduta di tali opportunità, infatti, comporta dei fortissimi rischi per ciascuna delle persone in crescita interessate. Condanna all’emarginazione sociale una fetta della popolazione all’avvio della vita con rischi multidimensionali in termini di minore aspettativa di vita, maggiore possibilità di contrarre malattie, di cadere in dipendenze da alcool e sostanze psicotrope, di delinquere, di essere precocemente messo fuori o ai margini del mercato del lavoro, di conoscere la povertà precoce e di non uscire dalla povertà per l’intera vita, di non partecipare alle comuni decisioni e all’esercizio dei diritti democratici.

Se per le persone si tratta di un rischio – in termini di mancata cittadinanza e di possibilità di una vita dignitosa – il perdurare del fallimento formativo di massa comporta una perdita economica per l’intero Paese in termini di PIL e di coesione territoriale e sociale. Rappresenta un abbassamento del livello culturale dell’intera società. Produce una maggiore spesa pubblica per sanità, sicurezza e per spesa sociale dedicata alle diverse età della vita. Genera marginalità e conflitto sociale. Condiziona negativamente la partecipazione democratica di tutti “.

Il documento del MIUR consta di 6 parti. Nella prima mostra come il fallimento formativo sia fenomeno davvero complesso e chiama a una strategia nazionale che abbia uno spirito repubblicano e, dunque, capace di andare oltre le contrapposizioni tra partiti e l’alternarsi dei governi, a livello nazionale, regionale, locale. A fondamento di questa “chiamata” pone la centralità dei ragazzi in quanto persone portatrici di diritti inalienabili e anche speciali, a seguito delle convenzioni internazionali. Come dire: contrasti e ragioni d’equilibrio politici e anche istituzionali, vincoli o anche confusioni provenienti da norme e regolamenti, esigenze e problemi di scuole e docenti o di genitori e comunità sono tutte cose comprensibili e anche legittime ma sono in posizione gerarchicamente sottoposta al diritto di ogni bambino e ragazzo di poter aspirare al futuro attraverso una scuola capace di relazione educativa ad un tempo accogliente della persona in crescita e rigorosa nel proporre sapere.

La seconda entra nel merito della definizione del fallimento formativo precoce, della sua entità e delle differenziazioni territoriali, dei caratteri differenziati e complessi che assume. Cura del lessico e consapevolezza dei contesti, dati PISA e INVALSI sulle povertà di competenze in aree di sapere irrinunciabile correlati alle condizioni di partenza sociale e culturale dei ragazzi, la categoria degli early leavers from education and training (ELET) nell’evoluzione del fenomeno e nella sua differenziazione per aree geografiche, la rilevanza dei servizi e scuole per la prima infanzia (lo starting strong/iniziare bene), i quartieri a più forte rischio e il rischio ulteriore determinato dalla forte presenza criminale, i minori stranieri e i minori rom sinti e caminanti sono altrettanti focus di questa parte analitica corredata con tabelle e grafici.

La terza parte guarda al fallimento formativo e all’esclusione precoce dalle opportunità in relazione con la nostra crisi educativa più generalmente intesa, che investe temi fondamentali e difficili quali lo squilibrio demografico e la mutata scena antropologica che questa contribuisce a produrre, le forme nuove della socialità nel tempo della crescita, il presidio o meno del limite da parte degli adulti, il posto delle nuove tecnologie, ecc.

La quarta analizza il fallimento e alla perdurante povertà educativa in Italia – un male cronico – attraverso la storia della nostra alfabetizzazione e indica in una scuola democratica, ad un tempo accogliente e rigorosa, l’orizzonte di lavoro che non ci viene solo dalla Costituzione ma anche da tante esperienze positive lungo i decenni al cui significato positivo per l’intera società, in termini di possibilità di battere in età precoce le diseguaglianze reali e di conoscenza diffusa, non è pensabile rinunciare.

La quinta parte fornisce indirizzi per la lotta al fallimento formativo anche alla luce delle indicazioni di ONU, UE e del nostro Parlamento.

La sesta parte riunisce i “ritrovati” di maggiore efficacia nel contrastare il fallimento formativo. Qui la Cabina di regia ha dato un contributo fortemente innovativo al dibattito sul tema perché ha davvero provato a riunire, in sintesi, in poche pagine, le buone policies e le buone pratiche esistenti e operanti e lo ha potuto fare grazie a un’ampia consultazione da Nord a Sud su cosa si fa già, su come lo si fa e con quali promesse, successi, criticità. Così troviamo un repertorio chiaro che disegna una strategia di contrasto di un fenomeno complesso e multi-fattoriale: regia unica nazionale indispensabile, miglioramento delle strutture scolastiche, diversa idea del tempo-scuola e del rapporto tra scuola e azioni educative esterne alla scuola, innovazione pedagogica e didattica, rafforzamento della formazione professionale, misure finalizzate alla creazione di vere e proprie aree di educazione prioritaria nei quartieri di massima concentrazione della povertà educativa, ecc.

Se il documento non ha fin qui trovato una risposta nella politica, ha, invece, incontrato un generale plauso non solo nel mondo della scuola, soprattutto di quella sua parte che è in azione nei tanti quartieri della nostra povertà educativa, ma anche nel larghissimo campo educativo che riunisce il privato sociale, il volontariato, le esperienze dell’aggregazione dei ragazzi, della formazione e degli apprendimenti anche informali, dello sport. È un buon segnale. Perché proprio nella cooperazione tra scuola e agenzie educative dei territori vi è quella rete larghissima fatta di azioni e competenze condivise che rappresenta l’esercito civile che può battere il fallimento formativo.

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