Per legge, ma non troppo. Il rebus del salario minimo nella crisi della contrattazione

Luisa Corazza riflette sulla prospettiva di una regolazione per legge del salario minimo. Il punto di partenza è la crisi della contrattazione collettiva che viene ricondotta a tre cause e che definisce lo scenario sul quale si inserisce la recente proposta di Direttiva europea sui salari minimi adeguati che Corazza ritiene non assicuri un salario sufficiente, in base al principio costituzionale, perché spostando l’asse delle politiche salariali sorgono rischi rispetto ai quali il sindacato rappresenta un elemento di garanzia.

Il tema del salario minimo legale è tornato prepotentemente di attualità negli ultimi anni. La questione della adeguatezza delle retribuzioni è stata infatti riproposta con forza nel dibattito politico italiano, dove circolano proposte volte a spostare sull’iniziativa legislativa la definizione dei salari (si v. i due disegni di legge sul salario minimo legale, a firma rispettivamente Catalfo e Nannicini); è stata oggetto di un parziale mutamento di prospettiva delle forze sindacali, dove si registra – se pure solo in alcuni ambiti – una inedita disponibilità a superare il monopolio della contrattazione (siamo tutti consapevoli del rilievo che comporta un passo indietro del sindacato su questo tema); e infine, ha trovato una sponda nella stessa Unione europea, dove si è fatta strada una proposta di Direttiva relativa ai salari minimi adeguati (Proposta di Direttiva COM(2020)682 a cui  il Menabò ha dedicato un forum nel numero 142 con i contributi di E. Menegatti, A. Lo Faro, M. Faioli, A. Cataldi-M. De Crescenzo-G. Di Domenico, A. Di Filippo).

Il problema dei lavoratori poveri (working poor), ovvero la crescita esponenziale di settori dove la retribuzione non è sufficiente per uscire dalla spirale della povertà (C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Il Mulino, Bologna, 2015) ha rilanciato il tema del minimum wage, offrendo argomenti a chi cerca di trovare soluzioni diverse da quelle che hanno sino ad ora ispirato le politiche salariali in Italia, radicate sul primato della contrattazione collettiva.

Tutto nasce, quindi, dalla crisi della contrattazione quale sede privilegiata per la definizione dei salari, ascrivibile a ragioni in gran parte note, che affondano le loro radici in nuove ed antiche questioni riassumibili nei tre punti che seguono.

1) La proliferazione dei contratti collettivi ha messo in crisi l’affidabilità del contratto nazionale di categoria sul piano dell’autorità salariale.

Negli ultimi anni, assistiamo a una moltiplicazione incontrollata dei contratti collettivi di livello nazionale. Il CNEL ha censito di recente i CCNL contandone oltre 900. Questo fenomeno è riconducibile a diverse ragioni, che vanno dalla tendenza – patologica – delle imprese a pretendere contratti di tipo “sartoriale”, finendo in tal modo per scivolare nella contrattazione pirata, alla generale crisi di rappresentatività, che interessa non soltanto il fronte sindacale, ma in maniera ancora più seria il fronte della rappresentanza datoriale.

Il risultato di questa moltiplicazione (a livello nazionale) dei contratti è la perdita di autorevolezza del contratto collettivo nel definire quei minimi tabellari della retribuzione che dovrebbero costituire il parametro della retribuzione “sufficiente” come richiesto dall’art. 36 della Costituzione. In una giungla di contratti, è sufficiente rinviare alla retribuzione fissata dal contratto nazionale per “garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”?

2) L’inadeguatezza del concetto di categoria merceologica quale criterio fondante per l’applicazione della contrattazione collettiva nazionale.

La contrattazione collettiva italiana si è sviluppata attorno al concetto di categoria merceologica, che ha consentito nel tempo di individuare settori produttivi omogenei secondo la tradizione del “ramo d’industria”. In ossequio ad una concezione democratica delle relazioni industriali – sposata da un sistema che dopo l’esperienza fascista ha mostrato una tendenziale allergia ad ogni intervento della legge nelle faccende sindacali – la “categoria” ha costituito il punto di riferimento della contrattazione nazionale senza essere oggetto oltre che di alcuna definizione normativa, neppure di un’autentica riflessione ad opera della stessa autonomia collettiva (ad esempio, nel protocollo Giugni-Ciampi del 1993, che ha costituito un punto di svolta per le politiche salariali, il sistema della contrattazione viene riorganizzato senza tuttavia alcuna ridefinizione degli ambiti categoriali).

Le profonde trasformazioni che hanno attraversato, negli ultimi decenni, i processi produttivi sono state un banco di prova importante per il nostro sistema contrattuale, e l’idea di agglomerare i contratti intorno alla categoria (quindi, di fatto, al ramo d’industria) ha mostrato tutta la sua fragilità.

La frammentazione del processo produttivo, la diffusione strutturale delle catene del valore e il conseguente dumping contrattuale ha infatti innescato una concorrenza tra contratti collettivi – tutti di livello nazionale – i quali possono rappresentare opzioni applicative alternative all’interno della medesima impresa.

Trovandosi in un vero e proprio “mercato delle regole”, l’imprenditore può scegliere quale contratto applicare con una relativa elasticità, aiutandosi con una sistematica segmentazione del ciclo produttivo, che attraverso reti di fornitura e di appalti decentra non solo l’esecuzione dei processi ma anche la fissazione dei salari. Si genera così un dumping contrattuale che di fatto azzera la funzione di garanzia retributiva storicamente svolta dal contratto nazionale (M. Veruggio, “Dumping contrattuale: sanare i bilanci pagando 4 euro l’ora”).

3) La difficoltà della contrattazione collettiva nel mantenere il proprio ruolo di autorità salariale affonda le radici anche nella crisi del sindacalismo confederale, che ha senz’altro costituito il pilastro fondante delle politiche salariali contrattuali, rivestendo a partire dal 1993 un preciso ruolo istituzionale nella programmazione macroeconomica. L’indebolirsi del peso dei sindacati confederali appare inevitabile a seguito della descritta proliferazione di sindacati di dubbia genuinità, che esercitano una pressione costante dall’esterno, in quanto stipulano contratti collettivi a condizioni competitive. Tuttavia, le ragioni di questa crisi possono rintracciarsi anche all’interno dello stesso sistema confederale, messo a dura prova dal dumping selvaggio e generalizzato che in alcuni casi costringe gli stessi confederali ad accettare condizioni retributive vicine quando non addirittura sotto la soglia di povertà per poter continuare a “stare sul mercato”. La giurisprudenza sta iniziando ad affrontare la questione, e in alcuni casi i giudici hanno ritenuto non compatibili con il principio di sufficienza della retribuzione fissato dall’art. 36 alcuni minimi tabellari definiti da contratti a firma confederale (Trib. Torino 9 agosto 2019; Trib. Milano 25 febbraio 2020).

Conclusioni. I tempi sembrano dunque maturi per passare ad un sistema che possa garantire l’accesso a standard retributivi minimi fissati dalla legge. In tal modo sarà possibile non solo creare un argine alla spinta incontrollata verso l’abbattimento dei salari, che si inseguono nella dinamica contrattuale in una perversa race to the bottom, ma anche far riferimento a parametri che presentino un minimo di universalità per impedire che gli “esclusi” dal lavoro protetto possano essere sottoposti alle forme più odiose di sfruttamento sul piano della retribuzione. Non va dimenticato infatti il problema di coloro che non essendo destinatari dell’applicazione di alcun contratto collettivo potrebbero ampiamente beneficiare di un riferimento univoco di matrice legale.

Solo l’evoluzione legislativa dei prossimi mesi potrà indicarci in quale direzione andrà l’Italia anche nel confronto con gli altri sistemi europei, a cui la proposta di Direttiva si riferisce in verità in maniera prevalente. L’intervento europeo è infatti indirizzato a quei sistemi, dotati di una architettura opposta a quella italiana, dove la determinazione del salario è interamente affidata alla fonte legale e dove, per ragioni di competitività, è specifico interesse dei governi far leva sulla depressione dei salari (O. Razzolini, “Salario minimo: la direttiva non chiude il discorso”).

Proprio l’esperienza europea ci fa comprendere la complessità della situazione. Risolvere la questione delle politiche salariali affidandosi integralmente alla legge presenta a sua volta non pochi problemi: non solo quelli dati dalla necessità di adeguamento dei livelli retributivi in base alle fluttuazioni temporali e alla specificità dei settori, ma anche, e soprattutto, i problemi che derivano dal rischio che il soggetto politico decida di utilizzare la leva dei salari per perseguire obiettivi di competitività del sistema, scaricando in sintesi sui lavoratori il costo di alcune scelte di politica economica (è quello che accade nei paesi del recente allargamento europeo ai quali la proposta di Direttiva principalmente si rivolge, si v. al riguardo, sul Menabò, A. Lo Faro, Al andar se hace camino: la Proposta di Direttiva sul salario minimo tra ottimismo della volontà e…,).

In altre parole, per una gestione equilibrata delle retribuzioni resta fondamentale lo stato di salute dell’autonomia collettiva, non solo perché una totale estromissione della contrattazione dal processo di determinazione dei salari finirebbe per marginalizzare il ruolo del sindacato nel sistema economico (con tutto quello che ne consegue), ma anche perché il coinvolgimento del sindacato nelle dinamiche retributive rappresenta comunque un elemento di garanzia rispetto al rischio di derive populiste e liberiste che potrebbero far leva sulla manodopera a basso costo per rendere più competitivo il nostro sistema produttivo, rischio dal quale nessun paese può dirsi, di questi tempi, completamente esente. Della necessità di non estromettere il sindacato dai processi decisionali in tema di politica economica sembra consapevole anche l’attuale governo, che ha iniziato la sua azione con un ampio coinvolgimento delle parti sociali e non menziona, forse volutamente, il tema del salario minimo legale nel PNNR appena presentato.

Soluzioni miste, in grado di coinvolgere il sindacato o mediante forme di rinvio alla contrattazione collettiva o mediante sistemi di governance che inseriscano le parti sociali nei processi di determinazione dei salari, appaiono dunque più in linea con la nostra Costituzione economica. Certo è che, con la crisi attuale del sistema contrattuale, appare del tutto anacronistico arroccarsi su una difesa senza se e senza ma del primato del contratto collettivo quale strumento per la definizione dei salari. L’obiettivo è, e resta, quello di arrivare a una retribuzione sufficiente a garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa.

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