Pensioni e salute

Tiziano Treu si occupa del legame fra condizioni di accesso al pensionamento e salute dei lavoratori, un tema relativamente poco considerato nel dibattito pubblico italiano. Treu chiarisce come le scelte operate finora dal legislatore siano caratterizzate da contraddizioni e auspica analisi che si pongano gli obiettivi, correlati, ma da tenere distinti, di ricercare indicatori dell’impatto dei vari lavori sulla salute dei lavoratori e di valutare l’incidenza delle diverse mansioni sull’aspettativa di vita dei lavoratori.

Le riforme delle pensioni approvate negli ultimi anni, non solo in Italia, sono state motivate in misura prevalente dalla necessità di garantire la sostenibilità finanziaria del sistema. Di recente è cresciuta l’attenzione agli aspetti della sostenibilità sociale, cioè alla adeguatezza delle pensioni, specie dei lavoratori giovani e futuri pensionati che vanno incontro a carriere discontinue e che con il sistema contributivo rischiano di avere pensioni insufficienti.

Il rapporto fra pensioni e salute dei lavoratori è stato considerato poco e per lo più in modo parziale. L’aspetto principale più volte preso in considerazione ha riguardato la necessità di prevedere riduzioni dell’età di pensionamento per chi è impiegato in lavori particolari variamente denominati: usuranti, pesanti o simili.

In Italia riduzioni dell’età di pensione così motivate sono state riservate nelle riforme degli anni 90 del secolo scorso a specifiche categorie di attività, piuttosto eterogenee, dalla polizia, alle forze armate, ai piloti e assistenti di volo, ai macchinisti ecc.

Questa categorializzazione è stata progressivamente superata (ma non completamente abbandonata) perché comprensiva di attività troppo diverse che non presentavano tutte motivi per godere delle deroghe all’età pensionabile. In normative successive tali deroghe sono state riservate non più a intere categorie di attività ma a specifici lavori o mansioni variamente individuati nel tempo, e anche questi piuttosto eterogenei: lavori notturni, prestazioni su catena di montaggio, guidatori di autobus e di camion, addetti a produzioni siderurgiche a caldo, ma anche maestre di asilo, infermiere impegnate in turni, operatori ecologici, ecc.

Per individuare i casi soggetti a deroga sono state incaricate a più riprese apposite commissioni, dopo la riforma del 1995 e poi nei primi anni 2000, fino a periodi più recenti in corrispondenza dei vari interventi di riforma. Ma queste commissioni non hanno praticamente mai operato, tant’è che non vi è traccia dei loro lavori né che abbiano dato indicazioni sui criteri con cui individuare i lavori inclusi nelle deroghe.

Il fatto è che la individuazione di tali lavori, come tutte le scelte in materia pensionistica, è stata la risultante di processi di consultazioni – contrattazione fra governo e parti sociali, sindacati in primis, cosicché ha corrisposto a diversi motivi di opportunità valutati dalle stesse parti, nonché ai variabili rapporti di forza fra i contraenti più che alla considerazione di criteri oggettivi riguardanti i caratteri dei lavori in questione.

La motivazione generale implicita nelle scelte, è che i caratteri di questi lavori li rendono insostenibili, fisicamente e/o psicologicamente, per gli addetti oltre un certo periodo di svolgimento. Ma questo motivo generale non è accompagnato da evidenze oggettive, riguardanti ad es. il numero di anni di lavoro necessari per giustificare la deroga: perché 7 anni piuttosto che 10, oppure periodi diversi?

Del resto il fatto stesso che questo numero di anni sia richiesto per lavori alquanto eterogenei pone in dubbio la fondatezza del motivo. Lo stesso dubbio riguarda altri requisiti previsti dalla normativa; ad es. la regola che l’impiego in tali lavori debba comprendere il periodo (1 anno) precedente alla pensione, che oltretutto finisce per escludere dal beneficio non pochi lavoratori divenuti inabili o disoccupati.

Così la condizione che il lavoratore pensionando abbia contribuito al sistema per un minimo di anni, piuttosto alto (30 -36 anni), una condizione che non ha alcun legame con la salute del lavoratore, ma si spiega per la necessità di ridurre il costo economico dei provvedimenti.

La individuazione di queste deroghe pensionistiche ha presentato dunque non poche aporie e contraddizioni; senza dire che ha continuato a essere variabile e controversa nel tempo, nonostante i ripetuti tentativi di aggiustarla.

Ora che alla vigilia (forse) di una nuova riforma pensionistica si è costituita una nuova commissione per individuare questi lavori, c’è da augurarsi che essa possa operare per un periodo sufficiente ad affrontare in modo compiuto e sulla base di criteri condivisi le scelte in proposito.

Nella esperienza di altri paesi queste commissioni, composte da esperti di varie discipline, sono non solo autonome nei loro lavori, ma durevoli nel tempo e dotate della strumentazione necessaria per acquisire tutti i dati necessari a valutare i caratteri rilevanti dei vari lavori.

Le analisi e le valutazioni della commissione dovrebbero avere due obiettivi:

  1. a) ricercare gli indicatori di sostenibilità nel tempo dei vari lavori rilevanti per il loro impatto sulla salute dei lavoratori;
  2. b) valutare la incidenza dei caratteri oggettivi dei vari lavori sulla aspettativa di vita dei lavoratori;

I due tipi di analisi sono connessi, in parte sovrapposti, ma vanno tenuti distinti. Infatti le ricerche in materia mostrano che l’aspettativa di vita è influenzata non solo dai caratteri e dalla durata del lavoro svolto, ma da altri fattori attinenti alle condizioni personali e familiari dei lavoratori (livello di istruzione, reddito personale e familiare ecc.). In realtà la relazione fra i due tipi di analisi è essa stessa materia di indagine

Anche le scelte di policy sono diverse nei due casi. Nel primo caso si tratta di determinare non solo il periodo massimo sostenibile di occupazione in un certo lavoro, ma anche, e innanzitutto, le misure necessarie per ridurre o eliminare gli effetti negativi di quel lavoro sulla salute delle persone (adattamenti ergonomici, prevenzione e miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza, orari flessibili o ridotti, modifiche dei percorsi di carriera, etc.).

Nel secondo caso si tratta di decidere l’importo della pensione in rapporto alla aspettativa di vita.

Non chiarire le relazioni fra i due tipi di analisi e di decisione può portare a conclusioni contraddittorie, come avviene nel nostro sistema. Infatti i motivi che giustificano la deroga alla età normale di pensionamento per certi lavori (quale che sia la loro razionalità) non sono presi in considerazione dalla nostra normativa nel determinare l’importo della pensione di questi soggetti, perché i coefficienti di trasformazione che lo determinano sono calcolati non sulla aspettativa di vita degli stessi soggetti ma su quella media della coorte.

Una simile scelta va a svantaggio dei lavoratori impiegati in lavori pesanti o disagiati (almeno) nei casi in cui l’impiego continuativo in questo tipo di occupazione comporta anche una riduzione dell’aspettativa di vita. Inoltre la scelta contraddice la logica e il merito del sistema contributivo, che è caratterizzato (o intende esserlo) da equità attuariale per cui le pensioni dei singoli lavoratori sono corrispondenti ai contributi pagati nel corso della vita lavorativa.

Questa aporia del nostro sistema non può essere ignorata e dovrebbe essere presa in considerazione dalla commissione ministeriale e dal decisore pubblico.

La complessità dei fattori che influiscono sull’ aspettativa di vita pone peraltro diverse questioni di metodo e di merito

Anzitutto richiede la disponibilità di dati possibilmente longitudinali su tutti i fattori rilevanti per la decisione; è responsabilità delle istituzioni competenti provvederli e metterli a disposizione della commissione.

In secondo luogo occorre selezionare i fattori che meglio possono cogliere le variazioni delle aspettative di vita, tenendo conto non solo della loro rilevanza e stabilità nel tempo, ma anche della reperibilità dei dati e della praticabilità delle analisi.

Le ricerche internazionali, e ora anche alcune italiane, hanno mostrato la rilevanza a questi fini di fattori quali, da una parte, i livelli di educazione e le condizioni di reddito personale familiare e, dall’altra, l’occupazione nelle diverse aree di mansioni (impiegati, operai, quadri e dirigenti).

Prendere in considerazione indicatori più specifici, riguardanti ad es. tutti i caratteri dei lavori usuranti o disagiati inclusi nelle categorie sopra discusse o riferiti a singole mansioni non è praticabile per mancanza di dati così disaggregati; inoltre ha lo svantaggio che questi indicatori sono meno stabili che in passato in quanto sempre più spesso i lavoratori cambiano lavori nel corso della vita.

Data la complessità di questo tipo di ricerche esse vanno testate attentamente in pratica, perché non è sicuro che portino subito a risultati utilizzabili per le scelte di policy.

Per tale motivo si è suggerito (Giuseppe Costa) di reintrodurre in Italia, come second best, una moderata progressività nel sistema pensionistico, per compensare i lavoratori a bassa qualificazione e reddito per la loro ridotta aspettativa di vita che è ampiamente documentata (si vedano su questo Leombruni, d’Errico, Stroscia, Zengarini e Costa, “Non tutti uguali al pensionamento: variazione nell’aspettativa di vita e implicazioni per le politiche previdenziali”, Social Policies 2015; d’Errico, Costa e Zengarini, “Dimmi che lavoro fai…e ti dirò quanto vivrai”, 2017).

In realtà l’obiettivo di garantire l’adeguatezza sociale delle pensioni nell’attuale condizione dei lavori ha suggerito modifiche più ampie del sistema. Mi riferisco alle proposte, presentate anche in Parlamento, di integrare le pensioni contributive con una base pensionistica fiscalmente finanziata, da garantire a quei pensionati che non raggiungono un livello sufficiente di pensione.

Un’altra proposta suggerita dai cambiamenti del lavoro e utile a una migliore conciliazione con i cicli di vita, è quella che mira a favorire un passaggio graduale al pensionamento (anche accompagnato con forme di staffetta generazionale).

Infine, voglio menzionare due punti generali di policy da sempre importanti ma oggi drammatizzati dalla emergenza Covid: anzitutto è urgente non solo rafforzare il sistema sanitario nel suo insieme ma anche prevedere misure specifiche di prevenzione e di cura che accompagnino l’invecchiamento per arricchirne la qualità prima e dopo la pensione; in secondo luogo occorre rimediare alla storica carenza di politiche attive per metterle in grado di promuovere la partecipazione attiva degli anziani al lavoro e alla vita civile.

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