Pensionamento flessibile e sostenibile tra finanza pubblica, efficienza e benessere

Maria Cozzolino e Fernando Di Nicola intervengono sull’esigenza di garantire un pensionamento flessibile che assicuri efficienza economica e benessere. Dopo aver richiamato i diversi profili di costo del calcolo contributivo-attuariale e retributivo delle pensioni, gli autori propongono un deciso ampliamento della scelta dell’età di pensionamento sulla base di un calcolo contributivo, che nel complesso ridurrebbe il debito pensionistico implicito e comporterebbe nei primi anni maggiori costi di cassa modesti e sostenibili, pienamente compensati negli anni successivi.

Ai tanti temi di rilievo che il nuovo governo Draghi dovrà affrontare si aggiunge quello, già in preventivo, relativo a una nuova forma flessibile di pensionamento che sostituisca “quota 100” in scadenza. Le questioni qui esaminate nell’alveo di un pensionamento flessibile sono relative agli effetti sulla sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico a lungo e a breve e termine e alla “equità attuariale” – cui si ispira il nuovo calcolo “contributivo” – come premessa per l’azione redistributiva, sullo sfondo delle esigenze di libertà di scelta individuale e di miglior funzionamento del mercato del lavoro e della produzione di beni e servizi.

Come diretta conseguenza, al dibattito in corso (ad es. V. Galasso, Inps, C. Mazzaferro e M. Raitano) può essere aggiunta qualche considerazione di sistema che eviti di circoscrivere una riflessione così importante sul costo per il bilancio pubblico di una “flessibilità responsabile” ai soli primi anni dopo l’attuazione della misura e, a volte, con ipotesi poco realistiche.

Preliminarmente, occorrerebbe prendere atto che il deficit pensionistico corrente (il saldo tra pensioni da lavoro e contributi in un certo anno) trae origine da una quota della spesa per pensioni in essere non coperta finanziariamente dai contributi versati dagli interessati nel corso degli anni (sul tema si veda M. Cozzolino e C. Mazzaferro 2018). Pur nella piena legittimità delle scelte passate della politica e nel rispetto dei diritti acquisiti di coloro che sono ormai in pensione, tale quota dovrebbe essere coerentemente competenza della finanza pubblica nel suo complesso, all’interno della quale ricadrebbero le conseguenze di un sistema di finanziamento a ripartizione.

Questo presupposto, oltre che favorire significative conseguenze allocative e redistributive, consentirebbe di partire dall’equilibrio finanziario del sistema pensionistico di domani al fine di stabilirne le strategie liberi dalle distorsioni percettive determinate dal deficit pensionistico di oggi e dalle scelte allocative del passato.

Si è visto che la flessibilità di quota 100 (almeno 38 anni di contribuzione ed almeno 62 anni di età, con calcolo della pensione misto retributivo e contributivo) nell’anticipare il pensionamento di vecchiaia stabilito dalla riforma Fornero (attualmente fissato a 67 anni) ha determinato un aumento del debito pensionistico insito nel maggior favore medio del calcolo della quota retributiva, non corretta per il più lungo periodo in cui si percepirà la pensione e non strettamente legata ai contributi versati. Analogamente, la persistenza della pensione anticipata – attualmente concessa con 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva a prescindere dall’età – continua a contenere, col calcolo retributivo, un analogo beneficio per i pensionandi ed un aggravio del debito implicito per la finanza pubblica, anche se via via di entità decrescente a causa della quota sempre maggiore di calcolo contributivo.

Ma nel sistema in transizione verso un pieno calcolo contributivo delle future pensioni (tra circa 15 anni, dato che riguarderà per obbligo chi ha iniziato a contribuire dal 1996) vi sono anche due forme opzionali di pensionamento contributivo, che consentono di andare in pensione prima dell’età “di vecchiaia”, purché con una pensione interamente calcolata con il contributivo: l’opzione donna (con almeno 58 o 59 anni di età e 35 anni di contribuzione) ed il pensionamento dei transitati nella gestione separata, a patto di avere almeno 64 anni, 15 di contribuzione ed altre condizioni minori.

In entrambi i casi, l’esercizio dell’opzione introduce significativi margini di libertà di scelta dell’età del pensionamento e inoltre, dal punto di vista attuariale, non trasferisce risorse pubbliche a beneficio degli interessati e quindi non aggrava il debito pensionistico implicito ed il bilancio pubblico nel lungo periodo.

Tuttavia, negli anni che separano chi sceglie una di queste due opzioni dal momento in cui si sarebbero raggiunti i requisiti per il pensionamento di vecchiaia a 67 anni (basato sul sistema di calcolo misto a partire dal 2012 o, nella gran parte dei casi, dal 1996) in termini di cassa si osserva un aumento della spesa pubblica per le pensioni erogate, compensato negli anni successivi dal minore importo medio fruito (a causa del calcolo contributivo anticipato, con minor montante attualizzato e più anni di fruizione su cui ripartirlo) rispetto al pensionamento ordinario successivo.

Sulla base di queste considerazioni, in analogia con quanto già ipotizzato da Raitano sul Menabò, si propone un nuovo, strutturale e sostenibile pensionamento flessibile fondato su un calcolo interamente contributivo ed un’età minima decisamente più bassa di quella di vecchiaia: 60 anni potrebbe essere un valore in grado di migliorare al contempo il benessere degli interessati e l’efficienza del mercato del lavoro, oggi ingessato e caratterizzato da produttività sub ottimale, a seguito dell’impedimento a scegliere più liberamente l’età dell’uscita determinato dalla riforma Fornero, a particolare discapito degli individui meno qualificati e produttivi e perciò più a rischio di espulsione dal lavoro in età lontane da quella per il pensionamento di vecchiaia.

Questo impianto implicherebbe un profilo temporale di finanza pubblica con maggiore spesa pensionistica nei primi anni di applicazione, collegato al numero di optanti, all’importo della pensione e all’età all’esercizio dell’opzione, compensata negli anni successivi dai minori trattamenti percepiti nella vita residua.

Il debito pensionistico, ovviamente, scenderebbe. Ma ci sarebbero altri e rilevanti aspetti da considerare:

  1. Poiché esiste già l’opzione donna dai 58/59 anni, temporanea ma rinnovata annualmente, questa nuova flessibilità sarebbe quasi equivalente all’estensione dell’opzione per gli uomini.
  2. Poiché il calcolo contributivo adotta coefficienti “di trasformazione” del montante in pensione annua legata agli anni residui di vita stimati demograficamente senza distinzioni di sesso tra donne e uomini – nonostante questi ultimi abbiano, in media, una vita residua decisamente minore – il calcolo contributivo della pensione, anche se attenuato dall’esistenza della reversibilità, implica un beneficio attuariale per le donne ed un corrispondente svantaggio per gli uomini, che, dunque, già oggi trovano meno conveniente un calcolo contributivo nel sistema pubblico rispetto ad uno privato che considerasse la vita residua in misura differenziata. Questa soglia di indifferenza è di grande rilievo nel determinare le convenienze ed i conseguenti comportamenti dei contribuenti interessati, il che dovrebbe spingere il policy maker a tenerne conto nel disegnare il sistema e le sue riforme.
  3. L’esistenza di un pensionamento anticipato per opzione con calcolo contributivo (che con la riforma Dini era stato coerentemente introdotto, e poi rimosso negli anni successivi per stringenti esigenze di deficit pubblico, destinato ad usi ritenuti più convenienti) ridurrebbe altre voci di spesa oggi maggiorate proprio per l’assenza di questa forma di flessibilità: ammortizzatori sociali, decreti quasi ad personam sugli esodati, APE sociale e sussidi di vario genere, incluso il reddito di cittadinanza.
  4. Il calcolo della pensione di vecchiaia per chi non volesse optare per un’uscita contributiva anticipata sarebbe decisamente più elevato, sia per il maggiore montante accumulato nella quota contributiva restando al lavoro per altri anni, sia per un minor numero di anni di vita attesa, sempre per la quota contributiva. Ne deriverebbe che sarebbe interessata all’anticipazione contributiva una quota certamente lontana dal totale degli aventi diritto e presumibilmente molto bassa, per motivi riconducibili a condizioni di salute insoddisfacenti anche se non certificate, a situazioni di mobbing non certificabile o di forte disagio sul lavoro, a condizioni di “esodato”, cioè di espulso dal mercato del lavoro senza stipendio e ormai senza ammortizzatori, infine a forti preferenze personali per il tempo libero o anche per un lavoro non regolamentato dal datore.
  5. Il costo in termini di cassa per l’anticipo della pensione, nei soli primi anni di applicazione, dipenderebbe strettamente dalla quota degli optanti e dagli anni che li separano dall’età del pensionamento di vecchiaia.

Quest’ultimo punto merita una valutazione quantitativa, anche se approssimata, onde evitare di sovrastimare l’andamento della spesa nei primi anni, come accaduto anche di recente con quota 100.

Nel caso dei pensionamenti con quota 100, calcolati con il sistema misto più favorevole e con la maggiore spinta all’uscita per la temporaneità della misura, decisamente meno della metà degli aventi diritto ha optato per questa forma di ritiro anticipato, nonostante fosse stato previsto inizialmente un irrealistico 100%, poi un comunque esagerato 70% di pensionamenti anticipati rispetto alla platea dei potenziali beneficiari. Questo risultato spinge a ritenere che – nonostante il vantaggio attuariale dell’anticipo con calcolo misto – il lavoratore senza rilevanti motivi per ritirarsi non rinuncia facilmente ad una parte del reddito in cambio di più tempo libero.

Di maggiore rilevanza per la stima dei profili di finanza pubblica sono le percentuali di adesione relative alle due forme citate di pensionamento anticipato col calcolo contributivo (cioè quello qui proposto). Nel caso dell’opzione donna e dell’opzione per i transitati nella gestione separata, gli optanti annuali osservati costituiscono meno del 2% degli aventi diritto, stimati sulla base dei dati dell’indagine SILC e depurati dai potenziali accedenti a trattamenti complessivamente più favorevoli, quali quota 100 o i pensionamenti di anzianità e di vecchiaia.

Complessivamente, ipotizzando un’adesione media del 10% degli aventi diritto, in considerazione dei tassi di adesione osservati degli optanti sia per i pensionamenti anticipati contributivi, sia per la più favorevole quota 100, con una stima di pensione contributiva anticipata a 62 anni e perciò di importo inferiore del 25% a quella ritardata e calcolata col sistema misto, nei primi 5 anni di attuazione di questa riforma le maggiori spese sarebbero prima crescenti, dai 3 miliardi nel primo anno a circa 5,1 mld nel quinto, e poi rapidamente decrescenti (1,5 miliardi dopo 9 anni). Si avrebbe successivamente un‘inversione di segno rispetto al tendenziale e una minore spesa netta complessiva. Per un migliore inquadramento del profilo di maggiori spese a breve richieste da questa riforma, si pensi che la recente stagione dei bonus alloca solo per quello ai dipendenti (caratterizzato peraltro da diversi aspetti indesiderati, richiamati tra gli altri da Pellegrino) una cifra costantemente superiore ai 16 miliardi di euro annui.

Ma da questi costi di cassa andrebbero sottratte quote significative di spese annuali oggi originate da ammortizzatori sociali, decreti ad hoc per esodati, ape sociale, reddito di cittadinanza ed altri sostegni, spesso sostenute a favore di soggetti in condizioni di disagio economico conseguente all’impossibilità di scegliere più liberamente l’età del proprio pensionamento.

Il sistema acquisirebbe maggiore flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e maggiore produttività per la sostituzione di persone generalmente meno produttive; inoltre, il benessere crescerebbe in conseguenza della libera scelta di tutti gli interessati (anche di coloro – probabilmente una maggioranza – che, potendo scegliere, preferirebbero restare al lavoro).

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