Partner non lavoratori: l’economia dei lavoretti

Rama Dasi Mariani riflette sulle trasformazioni del lavoro in un numero crescente di settori determinate dalla tecnologia delle app. Lo spunto è una discussione svoltasi di recente di “Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri”, il nuovo libro di Riccardo Staglianò. Mariani riassume le cause e le conseguenze del fenomeno, nonché le azioni necessarie per correggere i fallimenti del mercato associati all’economia delle app, soffermandosi in particolare sul monopolio delle informazioni e la possibilità di escludere dal mercato chi non utilizza i nuovi canali.

Roma, 8 maggio 2018. Ore 10:33. Un’email sul cellulare mi ricorda che stasera Riccardo Staglianò discuterà del suo nuovo libro con il gruppo Ineq che si riunisce al Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza. Incuriosita, sempre tramite il mio smartphone, googlo il titolo del libro: “Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri”. Il primo risultato della ricerca mi restituisce il link per l’acquisto della versione ebook, immediatamente disponibile e ad un prezzo di circa la metà rispetto alla versione cartacea. La copertina raffigura l’icona di un’app, quasi a ricordarci, nel caso ci fosse sfuggito, quale sia lo strumento con cui svolgiamo il maggior numero di attività quotidiane. Mentre rifletto sul messaggio del libro, ancora prima di aprirlo, vengo distratta da un whatsupp di mia sorella da Londra che, sullo schermo, si sovrappone alla pagina internet. Mi informa che è rientrata in ufficio, dopo un weekend di vacanza. Rispondo velocemente e torno al mio lavoro.

Ore 17:30. Una notifica mi avvisa che alle 18:00 inizia la presentazione del libro, che il traffico è moderato e che occorre circa mezz’ora per raggiungere l’università. Mi avvio, e dopo mezz’ora sono lì. Trovo rapidamente il parcheggio, ma bisogna pagare e allora, prendo ancora una volta il cellulare, e adempio. Mi viene nuovamente da pensare che le mie giornate sono sempre più scandite dalla tecnologia, ma che poi non è così male.

Il mio pensiero è ancora in corso quando Staglianò inizia il suo intervento: “questo non è un libro contro la tecnologia”; e per un attimo, scioccamente, dubito che mi abbia letto nel pensiero. La sua denuncia è rivolta alla retorica e la narrativa che hanno accompagnato gli ultimi cambiamenti. “Economicamente efficiente”, “socialmente giusta”. Questi sono gli slogan che pubblicitari, giornalisti, lobbisti ed anche politici hanno utilizzato per presentare la sharing economy, ossia l’economia della condivisione. A ben vedere, però, le nuove piattaforme come Uber ed Airbnb condividono ben poco e sarebbe più giusto parlare di gig economy: l’“economia dei lavoretti”. Staglianò spiega perché e ne darò conto tra poco. Intanto continuo seguendo l’ordine cronologico.

Staglianò dice che questo libro può essere considerato un prequel del suo precedente lavoro, “Al Posto Tuo”, in cui paventava la possibilità che il lavoro umano venisse rimpiazzato dalla robotizzazione. Infatti, molti dei “lavoretti” di cui si parla nel libro probabilmente presto saranno sostituiti dal capitale tecnologico.

“Al posto tuo”, continua Staglianò, ha ricevuto soprattutto due critiche. La prima si fa forte della storia e sostiene che poiché dalla rivoluzione industriale ad oggi il progresso tecnologico è stato incessante ma non ha ridotto l’occupazione sarà così anche in futuro. La seconda richiama l’attenzione sul fatto che negli Stati Uniti si è prossimi alla piena occupazione e, dunque, anche questo mostrerebbe che le preoccupazioni per il lavoro sono fuori luogo. Staglianò ribatte: le 246 pagine di “Al Posto Tuo” volevano proprio spiegare perché questa volta è diverso e poi se i lavori non vengono solo contati ma anche “pesati” – con la loro qualità e con le retribuzioni che assicurano – il riferimento agli Stati Uniti conferma e non smentisce il problema.

Al centro di “Lavoretti”, appunto, c’è l’alienazione del lavoro e il venire meno delle sue tutele. I servizi condivisi tramite app non assicurano né un salario di sussistenza né la copertura da malattia e vecchiaia. Citando una ricca aneddotica, Staglianò spiega che gli autisti di Uber, i gestori degli appartamenti su Airbnb, i fattorini di Foodora non sono neppure definiti lavoratori e l’attività che svolgono non assicura loro la dignità una volta associata al lavoro.

L’effetto di tutto ciò è innanzitutto un aumento delle disuguaglianze. La gig economy, infatti, concentra i guadagni nelle mani di pochi e mina anche la capacità redistributiva del sistema. Come ha già argomentato in “Al posto tuo”, ancor prima che politico il problema è economico, ossia di sostenibilità del sistema. Infatti, da una parte, l’occasionalità dei contratti e la loro natura hanno fatto sì che sparissero i contributi sociali a carico dei datori di lavoro; dall’altra, invece, l’evasione delle imposte sui profitti ha raggiunto ordini di grandezza sconcertanti. Valutata 30 miliardi di dollari in Francia, Airbnb ha versato nel 2014 al governo d’Oltralpe 84.883 euro di tasse. Non manca nessuno zero. Insomma, se le risorse a disposizione dei governi vengono prepotentemente depauperate, prima o poi il welfare non reggerà più.

Staglianò ricostruisce poi il percorso che ha portato alla situazione attuale. Tre sono le tappe principali o, meglio, i momenti di crisi come li definisce l’autore. Il primo coincide con gli shock petroliferi degli anni ’70 e l’arresto della crescita dell’economia reale; il secondo con la nascita della New (o Net) Economy di fine XX secolo, la finanziarizzazione dell’economia e l’aumento delle relative bolle; il terzo con la Grande recessione del 2008. Tutti questi momenti di snodo hanno progressivamente portato verso un sistema che crea ricchezza senza lavoro e hanno, appunto, fatto sorgere la necessità di arrotondare attraverso i “lavoretti” delle app.

Quali sono gli elementi distintivi delle applicazioni informatiche – che nell’insieme oggi sono più che una pletora – responsabili della diffusione dei “lavoretti”? Uber, Airbnb, Foodora, per citare gli esempi ricorrenti nel libro, possono essere descritte come piattaforme che non hanno lavoratori dipendenti. Gli autisti, i gestori, i fattorini vengono definiti elegantemente partner (da qui l’idiosincrasia di Staglianò per la retorica dello sharing), i quali offrono lavoro senza ricevere in cambio un salario. Infatti, se le corse, le prenotazioni o le consegne scarseggiano i partner non guadagnano, dunque ricade su di loro il rischio di impresa. Non basta. Ai partner è anche richiesto di apportare il capitale. La macchina, l’appartamento e la bicicletta sono di loro proprietà e loro sostengono i costi di ammortamento. Ciò che viene condiviso, pertanto, sono solo le informazioni, e solo loro possono giustificare le alte commissioni che falcidiano i guadagni dei partner.

Dunque, un luogo virtuale: niente lavoro, niente capitale, solo l’incontro di domanda e offerta e in quel luogo, penso io, il costo delle informazioni può essere interpretato come un costo di transazione – con buona pace per l’efficienza economica che, ci è stato detto, si accompagna alla sharing economy. Le commissioni imposte dalle app forse potrebbero essere interpretate come il costo da sostenere per godere dei benefici rappresentati dalle esternalità di rete. Ma possiamo davvero pensare che il beneficio marginale della presenza sulla piattaforma è pari all’ammontare della commissione? Se, come ricorda Staglianò, consideriamo che soltanto il 4 percento degli autisti di Uber continua a lavorare per l’azienda dopo un anno la risposta non può che essere negativa. Tuttavia, non conoscendo com’è costruito il dato non sappiamo se si tratta di un turn over tra gli stessi individui o un ricambio di nuovi partner. In ogni caso le app continuano ad avere collaboratori, perché? La lettura più convincente è quella secondo la quale esse hanno creato e detengono il monopolio dell’informazione e in virtù di ciò hanno anche il potere di esclusione dal mercato.

Dopo questa analisi, si discute di possibili soluzioni. Se il problema di base è il potere di mercato di cui godono le piattaforme, la prima cosa da fare dovrebbe essere ridisegnare le regole della concorrenza e magari anche riscrivere i diritti di proprietà. Il primo dito è, quindi, puntato verso l’antitrust che dovrebbe iniziare ad elaborare un piano. Tuttavia, l’azione dell’autorità in materia non va oltre l’espressione di un parere favorevole ad una riforma.

Ma questo non basta. Occorre il riconoscimento dello status di lavoratore dipendente per i “collaboratori” delle app. Sarebbe questo, sostiene Staglianò, l’unico modo per riqualificare il lavoro nella sharing economy e per dotarlo di tutele all’altezza del ruolo che l’art. 1 della nostra Costituzione gli riconosce. Il mea culpa, in questo caso, dovrebbero farlo anche i sindacati. Troppo concentrati sul loro principale bacino di utenza, su coloro a cui le tutele, seppur non sempre garantite sono almeno riconosciute.

Infine, si può pensare ad una web tax e ad un coordinamento a livello internazionale delle imposte sui profitti. Questo per evitare le preoccupanti elusione ed evasione fiscali, di cui i paradisi fiscali sono l’emblema. Così diffuse tra i giganti della sharing economy, e non soltanto tra di essi. Tuttavia, la fuga verso i paradisi fiscali non è un problema specifico della sharing economy. Il compito non è facile ma ad assolverlo dovrebbero essere i governi e i politici. A loro è demandato anche il compito di divulgare la giusta retorica. Purtroppo, e in particolar modo in Italia, il problema viene a mala pena riconosciuto.

Ore 19:43. Nonostante l’amarezza delle conclusioni, l’incontro si chiude con un applauso. Un collega propone a bassa voce di cenare insieme e inizia a cercare sul cellulare recensioni sul nuovo ristorante di cucina asiatica aperto nelle vicinanze. Un altro, però, propone una pizza dove andiamo fin da quando eravamo matricole. Di informazioni ne abbiamo tante, acquisite personalmente negli anni; elaborandole, giungiamo alla conclusione che lì la pizza è sempre buona.

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