Partito nazionale e territoriale

Il PCI è stata l’unica formazione politica veramente nazionale e territoriale e Luciano Barca è stato un dirigente di quel partito particolarmente sensibile al valore della territorialità, per inclinazione oltre che per diretto coinvolgimento. Partendo da queste constatazioni Gilberto Seravalli avanza una riflessione sui meriti del centro e dei livelli territoriali nelle decisioni politiche e nella loro capacità di promuovere innovazione e inclusione. Basandosi anche sui resoconti di Barca nelle Cronache, Seravalli giunge alla conclusione che dal confronto tra i due poli non emerga con chiarezza alcun vincitore.

Il carattere “nazionale e territoriale” può essere attribuito a una formazione politica che abbia importante peso elettorale complessivo e nello stesso tempo significativa concentrazione in alcune aree del Paese.

Alle elezioni del 18 aprile 1948, tra le formazioni politiche nazionali (DC 48,5%, Fronte Popolare 31%, Unità Socialista 7,1%), solo il FP poteva dirsi anche territoriale.

 

Figura 1 – Elezioni del 18 aprile 1948 per la Camera, percentuali di voti ottenuti dai principali partiti al livello nazionale e indice della loro concentrazione territoriale (scarto quadratico medio al livello circoscrizionale diviso valore assoluto del logaritmo della media nazionale).

Fonte: Elaborazioni su dati Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, Archivio Storico delle Elezioni.

Le elezioni del 1953 confermarono il carattere nazionale-territoriale del PCI che dal 1953 al 1987 doveva poi incrementarlo ulteriormente. Anche la DC si rafforzò nelle regioni bianche, ma perse voti nel complesso. In qualche misura opposta fu l’evoluzione del PSI, mentre nel 1987 compariva un nuovo partito territoriale, la Liga Veneta.

Figura 2 – Tutto come in figura 1, con riferimento alle elezioni per la Camera 7/6/1953, 19/5/1968, 3/6/1979, 14/6/1987.

Contano i risultati elettorali, ma conta anche la struttura organizzativa. Un partito può dirsi nazionale e territoriale in senso pieno se ha una forte organizzazione periferica. Il PCI l’aveva, con un rapporto iscritti/voti del 25% negli anni Cinquanta, 20% e poi 15% dagli anni Sessanta alla fine degli Ottanta (il Pds/Ds rimase sotto il 10%). Tale rapporto fu sempre inferiore nella DC, di oltre dieci punti fino agli anni Sessanta, di cinque in seguito.

Nella storia del PCI l’integrazione territoriale era intrecciata a quella “verticale”, interclassista, o almeno più aperta dell’operaismo dei primi trent’anni. Tale apertura, prospettata fin dal “rinnovamento” 1953-56, fu acquisita gradualmente. Se già lo Statuto del 1946 aveva aperto anche a chi non era marxista-leninista, il primo articolo continuerà a definire il PCI una organizzazione di classe e di avanguardie fino al 1975. Solo nello Statuto del 1979 si legge che il PCI organizza anche i “cittadini che lottano, nel quadro della Costituzione, per il consolidamento e sviluppo del regime democratico antifascista”. Tale intreccio verticale-territoriale fu nel PCI sempre complicato. Era lo snodo, si potrebbe dire, di quel paradosso dell’azione collettiva già individuato nel discorso di Togliatti a Reggio Emilia (24 settembre 1946: Ceto medio e Emilia rossa).

Il progresso economico sociale, territorialmente specifico, è spinto e sostenuto dall’azione collettiva di mutuo supporto solidale e lotta dei lavoratori e componenti del ceto medio che vengono alla ribalta mentre altre figure declinano a causa dei cambiamenti nella stratificazione sociale. Come dimostra la storia sociale dell’Emilia-Romagna, l’azione collettiva autorganizzata ha dei limiti contando in modo essenziale su rapporti di reciprocità in coalizioni circoscritte. Questi limiti possono essere superati con organizzazioni di rappresentanza e sostegno a carattere nazionale. Le quali però, specie per sterilizzare conflitti interni, possono poi indurre centro e periferia a chiudersi nei confronti di nuovi gruppi, bisogni, valori, che sorgono con gli ulteriori cambiamenti della società promossi dalla stessa azione collettiva, ovvero li omologano mediante manipolazione e dominio. Questa deriva, secondo Togliatti, non fu evitata dal Partito Socialista e dalle organizzazioni sindacali ed economiche dei lavoratori emiliani nei primi due decenni del Novecento e favorì l’avvento del fascismo. Il difficile è dunque perseverare nella innovazione-inclusione, contro “naturali” tendenze di conservazione-omologazione/esclusione; una difficoltà che si presenta in termini di contenuti non meno che di regole esplicite e tacite.

Si noti che un simile resoconto si applica senza eccessive forzature sia al problema generale dell’azione collettiva, sia al testo Ceto medio e Emilia rossa, e sia a numerosi “studi di caso” condotti in diversi paesi e fasi storiche dei quali dà conto la letteratura internazionale. Si tratta perciò di una questione di fondo, quindi anche del presente.

Le capacità innovative-inclusive di istanze centrali e periferiche dipendono ovviamente dalle rispettive risorse e “macchine” che le usano, ma attengono anche a una superiorità della periferia ovvero del centro in quanto tali? La storia del PCI è interessante a questo proposito come studio di caso coeteris paribus, dato che il PCI era una organizzazione politica forte sia al centro che in periferia. In tal modo questa storia, per quanto ormai lontana e particolare, può forse insegnare qualcosa in generale, anche di fronte all’odierno risorgente contrasto localismo-centralismo in molti ambiti. In effetti pareri contrastanti circa la maggiore o minore capacità di innovazione e inclusione espressa dal basso, dalle organizzazioni territoriali, dalle periferie, dalla società civile, rispetto a quella espressa dall’alto, dalle organizzazioni centrali, politiche e istituzionali, si traducono spesso in accuse reciproche di centralismo (da parte di chi confida nell’innovazione dal basso) o localismo (da parte di confida nell’innovazione dall’alto).

Luciano Barca, che ho avuto la fortuna di poter frequentare dalla fine degli anni Novanta, fu un importante dirigente nazionale del PCI sensibile al valore della territorialità per inclinazione e diretto coinvolgimento, anche se non era stato “parroco” e “vescovo” – cioè segretario di Federazione – come diceva Amendola, o forse proprio per questo. Inoltre la sua battaglia politica fu condotta su questioni di innovazione e inclusione che furono al centro del lavoro (e sofferenze) di tutta la sua vita. È dunque utile interrogare lui, leggendo i tre volumi di Cronache dall’interno del vertice del PCI, circa i luoghi delle aperture o al contrario degli scivolamenti verso la conservazione con esclusione-omologazione. Ebbene, contando i tanti passi nei quali registra le aperture e tali scivolamenti al vertice e nelle istanze territoriali, si apprende che furono singolarmente altrettanto frequenti da una parte e dall’altra.

Per gli anni fino al Sessanta non ho contato i riferimenti a una generica “forza d’inerzia” (Cronache p. 227) del livello territoriale contro la “piena applicazione della linea dell’VIII Congresso”, inerzia combattuta da Amendola, Segretario organizzativo, “con il bastone”. Ho contato invece riferimenti a circostanze precise, come nel caso della sconfitta alla Fiat nel 1955. Ho dovuto, poi, decidere a che parte dare “il voto” in vicende complicate; per esempio preparazione, svolgimento e conseguenze della Conferenza nazionale operaia di Genova 30 maggio 1965 (Cronache pp. 350-365), che videro Luciano Barca principale attore e relatore, l’appoggio di Longo Segretario nazionale, la violenta opposizione di Amendola (con Alicata e Napolitano), e alla fine la sostanziale sconfitta di Luciano Barca, nonostante il consenso di parte del gruppo dirigente nazionale e la voce di molte realtà decentrate sulle quali aveva lavorato.

La questione del contendere riguardava la maggiore o minore apertura ai “problemi nuovi che si pongono in fabbrica per le trasformazioni che sono intervenute […] e che esigono una visione più ampia, politica e non solo sindacale e tanto meno corporativa”; ampia quella proposta da Barca, chiusa quella di Amendola che “gioca la carta della demagogia più populista e grossolana […] opponendo che alla classe operaia interessa solo una cosa: i soldoni, la busta paga”. Ho dato il voto di maggiore apertura alle istanze decentrate. Mi sono attenuto a questo metodo anche in altre vicende: dando peso all’orientamento prevalente al vertice alla fine del dibattito. Particolarmente difficile è stato l’inquadramento di tutta la fase del compromesso storico e dell’austerità, che avevano elementi di innovazione e inclusione soprattutto dal lato delle regole nella interpretazione autentica di Luciano Barca molto vicino a Berlinguer. Anche qui non ho tenuto conto di riferimenti a generali limiti di comprensione e applicazione, che si ebbero sia al vertice che presso le istanze decentrate, ma li ho considerati su singole questioni e vicende.

Nella maggior parte dei casi l’attribuzione dei voti è stata abbastanza agevole. I risultati sono: maggiore apertura (o minore chiusura) delle istanze decentrate 19, del vertice 18. La lezione sarebbe dunque che innovazione-inclusione non è correlata al decentramento di per sé, né in senso positivo né in senso negativo; e in letteratura non mancano contributi che concordano.

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