Pandemie e ricerca farmaceutica: la proposta di una infrastruttura pubblica europea (parte prima)

Massimo Florio e Laura Iacovone osservano che COVID-19 ha mostrato i limiti dell’industria farmaceutica nel programmare investimenti a lungo termine nella ricerca di farmaci utili a contrastare il diffondersi di malattie infettive, privilegiando le aree terapeutiche funzionali alla massimizzazione dei ritorni finanziari attesi dai farmaci. Trascurare la ricerca a più alto rischio, specie quando sono noti o prevedibili effetti sanitari potenzialmente devastanti, è un errore e non deve essere persa l’occasione per modificare obiettivi e attività degli attori del sistema. Florio e Iavocone, indicano come in un articolo di cui questa è la prima parte.

Come è potuto succedere? Come è potuto succedere che siamo arrivati così impreparati alla pandemia del COVID-19? E come possiamo imparare la lezione? La prima SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), si era manifestata nel 2002 ed è stata causata da un ceppo di coronavirus con un genoma simile a quello con cui abbiamo a che fare attualmente. La MERS (Middle East Respiratory Syndrome) è del 2012. Anche qui un coronavirus simile all’attuale. Esperimenti di laboratorio avevano già dimostrato la pericolosità per l’uomo di coronavirus ospitati in altre specie (Menachery et al., in Nat Med, 21(12): 2015). David Quammen, autore di “Spillover” ha scritto che nel 2017 si era trovata nuova evidenza di salto di specie dei coronavirus in Cina. Lo stesso Quammen, nel 2012, dopo avere intervistato decine di esperti scriveva (Quammen, Spillover, 2012 p.529). che la maggior parte riteneva probabile una pandemia con decine di milioni di morti come l’influenza spagnola o l’AIDS provocata da un virus a RNA.

Più che campanelli di allarme, c’erano da anni sirene di allarme a tutto volume, e c’era anche della ricerca iniziata e su cui insistere. Peter Hotez, un esperto di vaccini, già diversi anni fa (2016) aveva proposto di investire sul tema, perché pronto ad effettuare i test sugli esseri umani, senza riuscire a convincere le imprese farmaceutiche. Jason Schwartz, della Yale School of Public Health ha dichiarato che: “Se non avessimo messo da parte il programma di ricerca sul vaccino della SARS, avremmo molto più lavoro di base che potremmo ora applicare a questo nuovo, ma strettamente imparentato, virus” (Buranyi, in The Guardian, March 2020). Persino il segretario generale dell’OCSE ha scritto (Lettera al G20, 20 Marzo 2020): “Had a vaccine for the SARS-CoV-1 been developed at the time, it would have accelerated the development of one for the current outbreak given that the two viruses are 80% similar”.

Perché non lo si è neppure tentato? La ricerca di un vaccino non è facile, anche perché i virus a RNA mutano spesso (a differenza dei virus a DNA che hanno più meccanismi di correzione degli ‘errori’ di replicazione). La variabilità del virus e il rischio che un vaccino abbia gravi effetti collaterali sono ostacoli significativi. Ma questo è sufficiente a spiegare diciotto anni di quasi totale latitanza dell’industria farmaceutica dalla prima SARS? Quantomeno si poteva tentare di sviluppare farmaci antivirali per contrastare l’evoluzione della malattia nella sua forma più severa, quella che richiede il ricovero, spesso la terapia intensiva, e che ha un’alta probabilità di esito fatale nei soggetti più fragili. Ad esempio, farmaci che blocchino certi enzimi necessari alla crescita dei coronavirus potrebbero essere realizzati già oggi, secondo il Prof. Haseltine di Harvard Medical School. Perché non li abbiamo?

Le priorità dell’industria farmaceutica. Per il settore farmaceutico il fatto di indirizzare la ricerca e la produzione di farmaci in determinate aree terapeutiche ad alto potenziale di mercato è strettamente connessa ad alcune specificità dell’attività di impresa in questo campo. Un fattore importante è la rischiosità degli investimenti in R&D. Per ogni farmaco che riesce ad accedere alla sperimentazione clinica, prima di essere approvato, la spesa in R&D è elevata (in Italia arriva al 17% del valore aggiunto; Farmindustria 2020). Il tasso di insuccessi è alto. Inoltre, date le numerose fasi di sviluppo e produzione, dalla ricerca all’effettiva introduzione sul mercato di un farmaco innovativo, il time-to-market può arrivare sino a 10-12 anni.

Il sistema regge sotto il profilo dei ritorni economici essenzialmente grazie alla concessione di una protezione brevettuale pari a 20 anni (con differenze fra giurisdizioni). Le criticità tipiche dell’attività di R&D è forse tuttavia da alcuni anni mitigata dal contributo che i Tech Giant (Google, Amazon, Apple, Facebook, Microsoft e IBM) stanno offrendo in termini di algoritmi di intelligenza artificiale, in grado di ottimizzare la scelta dei percorsi di ricerca con la più elevata probabilità di successo (Deloitte, Innovazione in ambito benessere e salute, 2019 e Global Health Care Outlook, 2019). A ciò si aggiunga il contributo (diretto e indiretto) derivante dallo sviluppo della genetica – a partire dalla comprensione della sequenza del genoma umano, ossia un set di informazioni di enorme valore sul piano della conoscenza in campo medico e scientifico – favorendo nell’ultimo decennio un’esplosione di start up a capitale privato (Ascione, Il futuro della salute, 2018) (da qui “Genetics the new digital”). Sono proprio tali partnership tra Big Pharma e Tech Giant che stanno lentamente trasformando sia l’effettivo assetto competitivo all’interno del settore farmaceutico, sia i confini settoriali, con l’integrazione tra settore farmaceutico, sanità, information technology, nonché progressivamente con le imprese di servizi assicurativi.

In questo quadro in veloce evoluzione (si veda, General Accounting Office) la priorità per le imprese maggiori sembra essere quella di azzeccare farmaci ‘blockbuster’ da un miliardo di dollari di fatturato annuo. Questi farmaci puntano sulle patologie croniche, come il colesterolo alto, il diabete, l’ipertensione e certe forme tumorali. Un farmaco per il colesterolo come Lipitor ha generato da solo in meno di venti anni 150 miliardi di dollari per Pfizer.

La ricerca sulle malattie infettive invece non sembra essere una priorità del settore. Le 20 Big Pharma nel 2019 avevano in corso circa 400 ricerche su nuovi farmaci, la metà delle quali per antitumorali. Solo poco più del 15% riguardava le malattie infettiva (Rizvi, in PublicCitizen, Febrary 2020) nonostante la preoccupante previsione che intorno al 2050 i batteri resistenti agli attuali farmaci potrebbero uccidere 10 milioni di persone all’anno (O’Neill, Review on Antimicrobial Resistance, Tackling Drug-Resistant Infections Globally. Final Report and Recommendations, May 2016). Nel 2019, pur con sussidi pubblici stimati nel complesso in 700 milioni di USD dalla prima SARS, sui coronavirus erano in corso in tutto 6 clinical trials, 10 studi di base e pre-clinici, e non vi erano farmaci in corso di registrazione da parte dell’industria (Rizvi 2020, Tab 2). Nello stesso anno, si contavano su una mano le Big Pharma (GSK, J&J, Sanofi, Pfizer e Merck) con progetti di ricerca e sviluppo di vaccini, alcuni dei quali risultano peraltro essere estremamente redditizi (Tabella 1; Longsworth, McCabe, and Sterne, Vaccine R&D and Economic Impact of COVID-19 Pandemic, 2020-Apr-22) nonostante, al contrario dei farmaci, essi possano essere somministrati da 1 a 4 volte nella vita di un individuo.

Il problema è che molte malattie infettive danno luogo ad epidemie locali, spesso in aree a bassa capacità di spesa (come Ebola in Africa). Una volta spenta l’infezione e il senso di emergenza, l’interesse economico per un vaccino si spegne perché esse non assicurano un mercato interessante e commisurato ai rischi della ricerca su bersagli mutevoli. Una pandemia virale, come quella in corso, per sua natura non dà luogo a condizioni croniche, quindi non genera un mercato stabile su cui investire (T’Hoen, Coronavirus. The latest problem Big Pharma won’t solve, 2020, February 7), nonostante – a differenza del passato – la sua dimensione planetaria, a partire dai paesi occidentali più industrializzati. Lo sviluppo di un vaccino è peraltro complesso, costoso, rischioso e richiede tempo. Normalmente, i tempi necessari per collocare sul mercato un vaccino è tra I 5 e i 15 anni e richiede un lungo processo di validazione, con test sugli animali, costosi studi clinici sugli esseri umani fino all’approvazione da parte del regolatore (internazionale e nazionale). Solo per far accedere un nuovo vaccino candidato allo studio clinico (Fase 1) possono occorrere 5-7 anni. L’intero processo di realizzazione e commercializzazione di un nuovo vaccino, inoltre, può costare dai 400 milioni fino a 2 miliardi di dollari (Longsworth, McCabe, and Sterne, 2020). Secondo gli esperti, al momento attuale, grazie alla decisione a livello internazionale di abbreviare tali fasi, occorrerà comunque almeno un anno per avere un vaccino per COVID-19 efficace e disponibile per la popolazione.

L’attuale pandemia ha quindi non solo messo in luce il complesso processo associato allo sviluppo di un vaccino, ma anche quanto i fondi della ricerca medica e farmaceutica tendano ad essere allocati in modo reattivo in funzione del mercato, più che seguire una visione proattiva finalizzata a prevenire e anticipare le cure delle patologie a maggior probabilità di diffusione. Il reiterato abbandono dei progetti di sviluppo di vaccini e cure alla fine di ogni epidemia – oltre alla dispersione e allo spreco di energie e risorse – non consente quindi di capitalizzare gli eventuali progressi della ricerca di base.

Il modello di intervento pubblico attuale prevede che i governi modifichino gli incentivi del settore farmaceutico offrendo loro sussidi alla R&D. Lo sta facendo ora (Gard, STAT, 2020) il governo degli USA, con oltre un miliardo di dollari mirati a COVID-19 per i National Institutes of Health (che dipendono dal ministero della salute) e per altre agenzie. Queste a loro volta li stanno destinando a finanziare studi che in definitiva abbassano i costi di ricerca delle imprese del settore farmaceutico. Queste, a loro volta, hanno ottenuto dal Congresso che al governo non sia consentito di porre limiti ai prezzi che potranno essere richiesti dalle imprese farmaceutiche che, anche grazie ai sussidi pubblici, brevetteranno farmaci per il COVID-19 (Mazzucato e Momenghalibaf, in New York Times, March 18, 2020).

Non sembra tuttavia sufficiente che i singoli governi e le organizzazioni no-profit si attivino nella ricerca di fondi e definizione di incentivi per stimolare e orientare di volta in volta la ricerca e produzione di vaccini da parte delle multinazionali, nella speranza di prevenire il sorgere di nuove pandemie, perché sussiste un vizio di fondo dovuto a obiettivi e orizzonti strategici profondamente diversi e non sempre conciliabili. Sta emergendo un movimento di opinione europeo di senso opposto: valga ad esempio l’appello in UK affinché le Big Pharma – come hanno annunciato di volere fare GSK e Sanofi – possano unire le loro forze per lo sviluppo di un vaccino al Covid-19 senza obiettivo di profitto (The Independent, 16.04.2020); o, ancora, gli appelli in Italia da parte di organizzazioni no-profit: “Se c’è una cosa che il coronavirus sta insegnando è che la sanità deve essere pubblica, gratuita e deve ricevere costantemente investimenti per consentire gli stessi diritti a tutti” (Gino Strada, Emergency, Rai 2, 29/3/2020), e dalla comunità di medici a favore di farmaci e vaccini accessibili all’intera collettività, con la sospensione della protezione brevettuale, per garantire il diritto alla salute (Silvio Garattini, Presidente emerito dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e Claudia Lodesani, Presidente Medici Senza Frontiere Italia; La Repubblica 21.4.2020).

Di qui la nostra proposta: una infrastruttura pubblica europea, Biomed Europa, che si sostituisca alle imprese farmaceutiche in alcune aree di ricerca, e intervenga su tutto il ciclo del farmaco, dalla ricerca di base allo sviluppo, dalla organizzazione delle varie fasi della sperimentazione, fino alla produzione e distribuzione a prezzi che coprano solo i costi marginali. Le priorità di questa infrastruttura, da istituire con un trattato fra stati partecipanti, come il CERN, l’Agenzia Spaziale Europea, o l’European Molecular Biology Laboratory, dovrebbero essere dettate dalla comunità scientifica e dai sistemi sanitari pubblici dei partecipanti. Nella seconda parte dell’articolo, che sarà pubblicata sul prossimo numero del Menabò, dettagliamo la proposta e ne discutiamo la fattibilità.

 

 

*Il presente testo sviluppa un intervento al webinar del Forum Diseguaglianze e Diversità del 25 Marzo 2020, https://www.forumdisuguaglianzediversita.org

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