Pandemia economica e cornice giuridica

Daniele Vattermoli ricorda che il 15 agosto 2020 sarebbe dovuto entrare in vigore il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ma il Governo ha lasciato sostanzialmente inalterato il tessuto normativo, in attesa che passi l’uragano pandemico. Secondo Vattermoli è stata una scelta ragionevole che però non invertirà il ciclo economico, né potrà attutire gli effetti della crisi qualora gli agenti che operano nel mercato non tengano comportamenti improntati alla buona fede e alla correttezza.

I. L’impatto, tanto sanitario quanto economico, che ha avuto in Italia la pandemia associata al COVID-19, ha imposto al Governo italiano di assumere iniziative a sostegno delle imprese oramai non più procrastinabili.

Il lockdown, quale misura inizialmente individuata dalle autorità preposte per fronteggiare la diffusione del virus, ha com’è noto determinato una paralisi del ciclo economico di interi settori merceologici, generando perdite nell’ordine di centinaia di miliardi euro e, soprattutto ed in prospettiva, una carenza di liquidità per le imprese senza precedenti. I successivi provvedimenti “ad intermittenza”, con le c.d. “chiusure selettive”, in risposta alla seconda e alla terza “ondata” di diffusione del virus non hanno poi di certo favorito la ripresa economica, il mercato risultando attualmente drogato dagli interventi pubblici attuati attraverso i decreti-ristori.

Il primo e forse più importante provvedimento adottato dal Governo per far fronte a tali problemi è stato il decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. decreto liquidità), convertito nella legge n. 40/2020. Tale provvedimento contiene disposizioni che spaziano su un orizzonte molto ampio: si va dalle misure a sostegno della liquidità delle imprese a quelle in materia di esercizio di poteri speciali dello Stato nei settori di rilevanza strategica; dalle misure fiscali a quelle in materia di termini processuali; dalle misure in materia di salute a quelle a sostegno dell’occupazione. Molte di queste misure sono state poi prorogate e/o modificate e/o integrate con provvedimenti successivi, senza tuttavia che venisse stravolta la filosofia di fondo che ha animato il primigenio decreto-liquidità.

II. Tra le misure dall’impatto più rilevante, almeno per chi si occupa della regolamentazione giuridica della crisi delle imprese, va senz’altro annoverata quella che concerne il rinvio in blocco dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, introdotto nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 14/2019, inizialmente prevista per il 15 agosto 2020 e (per il momento) posticipata al 1° settembre 2021.

Il Codice – destinato a sostituire la gloriosa ed oramai irriconoscibile legge fallimentare del 1942, martoriata da uffici ministeriali carenti delle pur basilari nozioni di tecnica legislativa –, ha quali sue linee ispiratrici, tra le altre: la linea volta a favorire l’emersione anticipata delle crisi e l’adozione tempestiva di soluzioni delle medesime (in questo quadro si iscrive, in particolare, l’introduzione dei meccanismi di allerta e prevenzione e del procedimento di composizione assistita delle crisi); la linea volta a potenziare le soluzioni negoziate della crisi (in particolare, gli accordi di ristrutturazione dei debiti); la linea volta a favorire meccanismi e tecniche di conservazione delle strutture produttive.

Se così è, si potrebbe credere che vi sia stata una contraddizione nel rinviare l’entrata in vigore di un Codice che si fonda sull’agevolare il salvataggio delle imprese, cogliendo precocemente i sintomi della crisi. In realtà non è così: quella filosofia può funzionare in una fase fisiologica del mercato; non in una fase patologica come quella che stiamo vivendo; non hanno senso, in questo contesto, le misure di allerta e, più in generale, gli strumenti di rilevazione tempestiva della crisi con i connessi meccanismi che impongono al debitore l’adozione di idonee prompt actions. E dato che il futuro sistema, per quanto si possa affermare il contrario, è strutturato in modo tale da “penalizzare” il debitore che non si avvale di quegli strumenti, meglio che si sia restati con i piedi per terra continuando ad utilizzare il tessuto normativo attuale, che non avrà il pregio della organicità, ma almeno è ben conosciuto dagli operatori.

Da questo punto di vista, un ulteriore slittamento dell’entrata in vigore del Codice – che potrebbe anche essere “parziale”, ovvero riguardare la sola parte relativa alle misure di allerta – non sarebbe poi opzione così stravagante. Quanto affermato non significa, ovviamente, mostrare apprezzamento per il sistema delineato dalla legge fallimentare o, meglio, per l’applicazione che nella prassi della stessa viene fatta. Basti pensare che dai dati Cerved (aggiornati a settembre 2020) risulta che la durata media dei fallimenti in Italia supera di poco i 7 anni; mentre da uno studio dell’EBA il recovery ratio per i creditori in Italia si aggira al 17-19% del nominale del credito vantato (a fronte di una media europea che si attesta intorno al 40%).

Non v’è dubbio, poi, che il rinvio dell’entrata in vigore del Codice abbia comportato anche l’impossibilità di utilizzare alcuni meccanismi virtuosi, che lo stesso contemplava, come ad esempio quelli in tema di procedure da sovraindebitamento, destinate a regolare le crisi di modeste dimensioni (dei consumatori, dei professionisti, delle piccole imprese commerciali e delle imprese agricole); per ovviare a tale inconveniente la legge n. 176/2020 ha modificato la legge n. 3/2012, che ha appunto introdotto nel nostro ordinamento tali procedure, anticipando di fatto l’entrata in vigore della porzione di disciplina del Codice della crisi dedicata al sovraindebitamento.

Accanto al rinvio dell’entrata in vigore del Codice, altre misure hanno interessato, direttamente o indirettamente, il diritto dell’insolvenza: da quella che ha bloccato le dichiarazioni di fallimento da marzo a giugno 2020 a quella che ha stabilito una moratoria di 6 mesi per l’esecuzione dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione dei debiti; da quella che ha escluso la postergazione dei crediti per i finanziamenti dei soci alla società, a quella che ha sterilizzato le regole in materia di obbligo di ricapitalizzazione o di scioglimento per perdite di rilevante entità.

III. In una visione complessiva può dirsi che la scelta del Governo è stata sin qui quella di intervenire a sostegno delle imprese in crisi, attuale o prospettica, da due diverse angolazioni: per un verso, estendendo la loro capacità di credito attraverso il rilascio di garanzie dello Stato, consentendo così alle stesse di accedere a canali di finanziamento che senza l’intervento pubblico sarebbero sicuramente risultati impraticabili; per altro verso, creando un buffering temporale da utilizzare per superare la situazione di crisi attraverso la ripresa del normale ciclo produttivo, oppure mediante le procedure di composizione negoziata della crisi.

Espandere la capacità di credito di un’impresa in crisi non significa, ovviamente, accollarsi le perdite da questa sofferte; così come spostare in avanti il termine di adempimento delle obbligazioni erariali e previdenziali, non significa condonarle. Detto in altri termini, le misure emergenziali non consentono alle imprese di “cancellare” elementi del passivo; anzi, se malamente interpretate ed applicate, rischiano nel medio periodo di amplificare (o, addirittura, di determinare) la situazione di crisi.

D’altra parte, rendere improcedibile l’istanza di fallimento non ha significato far venir meno lo stato di insolvenza; così come concedere una moratoria per perfezionare un accordo con i creditori (o darvi esecuzione) nell’ambito di una procedura di crisi non significa rimuovere lo stato di crisi.

La conseguenza di tutto ciò è che le imprese, pur avendone in astratto la possibilità in virtù della garanzia rilasciata dallo Stato, debbono accedere ai nuovi canali di finanziamento solo se ritengono, secondo una valutazione ragionevole e vagliando attentamente i possibili scenari futuri, di poter restituire i capitali presi a prestito. Non v’è, in altri termini, alcuna deroga ai criteri di corretta amministrazione imprenditoriale; e, soprattutto, non vi sono eccezioni al dovere di protezione nei confronti dei creditori che incombe sul debitore. L’aggravamento del dissesto, per effetto di comportamenti non ispirati, appunto, al criterio di corretta amministrazione imprenditoriale, non può non esporre l’amministratore della società a responsabilità, tanto civili quanto penali.

La prospettiva di poter usufruire della garanzia pubblica potrebbe innescare un fenomeno di moral hazard che spinge gli amministratori a giocarsi il “tutto per tutto”, anche quando sarebbe ragionevole non aumentare la leva, rendendo così concreto il rischio di depauperamento patrimoniale a danno sia dei contribuenti, nei limiti delle perdite associate all’escussione della garanzia nei confronti dello Stato; sia dei creditori anteriori, per via del risk altering determinato dal fresh money, specialmente qualora quest’ultimo fosse assistito da una qualsiasi forma di preferenza; e sia, infine, dei creditori successivi, che potrebbero essere indotti a prestare credito all’impresa decotta, in virtù dell’apparenza di solvibilità generata dal finanziamento garantito. L’effetto domino è dietro l’angolo.

Ragionevolezza, prudenza, perizia, diligenza, buona fede e correttezza: oggi più che mai occorre riferirsi alle clausole generali per evitare che la crisi di alcuni settori e di alcune fasce di imprese si trasformi, paradossalmente, in una pandemia economica. E ciò, si badi, indipendentemente dal quadro giuridico di riferimento, sia esso la legge fallimentare o il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: le norme possono essere più o meno efficienti, ma non possono da sole invertire l’andamento di un ciclo economico né sostituirsi ai comportamenti degli agenti che operano sul mercato. E poi come si dice: fatta la legge, trovato l’inganno. In questo siamo sempre stati all’avanguardia.

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