Oltre “Quota 100”. L’equità “stella polare” di un sistema pensionistico adeguato e sostenibile

Matteo Jessoula si chiede come superare “Quota 100” e costruire un sistema pensionistico che sia sostenibile economicamente e adeguato nelle condizioni di accesso alla quiescenza e nel livello delle prestazioni. Jessoula illustra le difficoltà poste, da un lato, dal vincolo sulle risorse e, dall’altro, dalle marcate iniquità del sistema attuale, in cui età pensionabile ed effettiva di uscita dal mercato del lavoro sono tra le più alte d’Europa e i differenziali nell’aspettativa di vita tra classi sociali sono elevati. Il criterio guida conclude Jessoula, deve essere l’equità.

Fin dai primi anni Novanta, nel dibattito pensionistico italiano si è invocato il confronto con gli altri paesi europei per delineare (a volte denunciare) la peculiarità italiana circa l’accesso facile al pensionamento – il “paese delle baby pensioni” – e il basso tasso di occupazione per i lavoratori anziani.

Tre decenni dopo, proprio i dati elaborati dalla Commissione Europea nel Pension Adequacy Report 2021 consentono di catturare nitidamente la situazione italiana oggi e di delineare la cornice entro cui dovranno opportunamente collocarsi le scelte dei decisori politici in vista della scadenza del triennio sperimentale di “Quota 100”.

Il primo punto che emerge dal rapporto è che l’Italia ha, effettivamente, l’età pensionabile più alta d’Europa: 67 anni, contro i 65 e 9 mesi in Germania, 66 e 2 mesi in Francia, 65 in Austria, Belgio, Polonia. Peraltro, Francia e Germania consentono strutturalmente (dunque non tramite misure temporanee come “Ape sociale”, “Opzione donna”, “Quota 100”) il pensionamento anticipato rispettivamente a 62 anni e 63 anni e 10 mesi, mentre la Svezia consente il pensionamento “flessibile” entro la forchetta 62-68 anni.

La tipica obiezione sul punto è che l’Italia ha sì l’età legale di pensionamento più elevata d’Europa, ma l’età effettiva di accesso alla quiescenza sarebbe molto più bassa, e inferiore alla media UE, complici una serie di deroghe che consentirebbero di prolungare la tradizione del pensionamento anticipato. I nuovi dati della Commissione Europea ci dicono, però, che non solo le regole formali di accesso al pensionamento sono tra le più stringenti, ma anche l’età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro è tra le più elevate d’Europa (nonostante “Quota 100” e meccanismi simili): 65,2 anni per gli uomini, 65,8 anni per le donne nel 2019, in linea con i paesi Scandinavi (Danimarca: 65 anni gli uomini, 64,1 le donne; 65,6 e 64,5 in Svezia) e sensibilmente più alta di Germania (64,7 e 64,5), Francia (62,3 e 62,2).

Queste cifre sono il risultato delle severe riforme Sacconi e Fornero-Monti (2009-11), che hanno anche prodotto un robusto incremento del tasso di occupazione nella fascia di età 55-64 anni. Se tale effetto può in generale considerarsi benvenuto, in un paese affetto da una cronica modesta partecipazione al mercato del lavoro, gli effetti delle riforme rivelano marcate criticità da tre diverse angolature.

Primo, l’aumento del tasso di occupazione è stato accompagnato dal drammatico incremento dei disoccupati nella fascia d’età 50-64 anni, più che quadruplicati in un decennio, dalle 128.000 unità del 2007 alle 539.000 del 2018, con il relativo tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 6% nel 2019 – mentre è al 2,5% in Germania, al 3,3% in Danimarca. Trattasi di un fenomeno nuovo per l’Italia, che negli ultimi quarant’anni aveva sempre mantenuto basso il tasso di disoccupazione dei lavoratori anziani, e soprattutto preoccupante per via delle peculiarità di questi lavoratori, spesso capifamiglia e con scarsissime possibilità di trovare un’occupazione regolarmente retribuita dopo i 55 anni.

Secondo, assieme e Polonia e Ungheria, l’Italia è il paese in cui la durata del periodo di pensionamento si è maggiormente ridotta – di oltre 4 anni – tra il 2008 e il 2018: considerando che ciò è avvenuto a fronte di un incremento modesto (1 anno) dell’aspettativa di vita a 65 anni nello stesso periodo, e soprattutto della stabilità, nell’ultimo quindicennio, del numero di “anni attesi in buona salute” (circa 10) una volta raggiunti i 65 anni, criticità evidenti emergono circa il rapporto tra estensione della vita lavorativa e durata della fase di quiescenza in buona salute, specie per le classi sociali più svantaggiate.

Infatti, terzo, una serie di studi ha messo a fuoco come, anche in Italia, le differenze nell’aspettativa di vita a 65 anni sono significative e raggiungono i 3-5 anni a sfavore degli individui appartenenti alla classe sociale più svantaggiata. Specie se osservato con riferimento all’elevata età di pensionamento, tale differenziale indica il chiaro profilo regressivo delle regole previdenziali italiane a danno degli individui con condizioni di vita e di lavoro meno favorevoli.

Su questo sfondo, come anticipato sopra, si è sviluppato da alcuni mesi il dibattito attorno al termine del periodo sperimentale di “Quota 100”, che riporterebbe le lancette dei requisiti di accesso al pensionamento al 2019. A partire dal 1° gennaio 2022, lavoratori e lavoratrici dovrebbero entrare in quiescenza tramite due diversi canali: la pensione di vecchiaia – che prevede minimo 67 anni di età e 20 anni di contribuzione per gli individui nel regime “retributivo” e “misto”, più il raggiungimento di un livello minimo di prestazione pensionistica pari a 1,5 volte l’assegno sociale nel contributivo puro – e la pensione “anticipata” – che richiede 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne nei sistemi retributivo e misto, e la possibilità di ritirarsi a 64 anni con 20 anni di anzianità nel contributivo, a patto però di raggiungere la non trascurabile soglia di importo pensionistico mensile pari a 2,8 volte l’assegno sociale (1.400 euro circa).

Varie proposte per superare “Quota 100” sono perciò circolate nel dibattito pubblico, tra cui in particolare le seguenti: i) “Quota 102”, un meccanismo simile ma meno generoso di quello in vigore, che consentirebbe il pensionamento con 64 anni d’età e 38 di contribuzione; ii) “Quota 41”, che ammorbidirebbe i requisiti per la pensione anticipata per tutti; iii) un’opzione, che chiamiamo “Contributivo-misto”, prevede la possibilità – per i lavoratori soggetti al sistema misto – di anticipare la quiescenza ricevendo solo la parte contributiva della prestazione pensionistica, con almeno 63 anni di età, 20 anni di contribuzione e un importo pensionistico minimo di 1,2 volte l’assegno sociale; infine, iv) l’“Opzione contributiva”, che consiste nel passaggio integrale al metodo di calcolo contributivo con pensionamento a 64 anni di età, almeno 20 di anzianità contributiva e un importo pensionistico minimo almeno a 2,8 volte l’assegno sociale. Quest’ultima opzione potrebbe poi prevedere un’alternativa – potenzialmente efficace per lavoratori autonomi e donne – sempre nel caso di passaggio integrale al metodo contributivo, che consentirebbe l’uscita dal mercato del lavoro a 64 anni di età e 36 anni di contributi, senza soglia di importo minimo.

Come valutare queste diverse proposte? Se una valutazione dettagliata va oltre i limiti di questo contributo, quanto segue mira a delineare la cornice di riferimento entro cui le stesse devono essere soppesate, al fine di (ri-)disegnare regole che possano mantenere la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, garantendone però l’adeguatezza lungo le tre dimensioni individuate dall’UE nel Pension Adequacy Report: 1) protezione contro la povertà; 2) mantenimento del reddito dei lavoratori; 3) durata del pensionamento, e dunque adeguatezza dei criteri di accesso.

In primo luogo, va detto che il dibattito italiano non rappresenta un’anomalia in Europa. Negli ultimi anni, infatti, diversi paesi sono intervenuti per ammorbidire i requisiti di accesso alla pensione, talvolta anche smantellando le severe riforme adottate nella Grande Crisi: la Polonia ha riportato l’età pensionabile a 65/60 (uomini/donne) dopo averne previsto l’innalzamento a 67 nel 2020/2040 (uomini/donne); la Croazia ha prima disposto e poi subito eliminato l’innalzamento a 67 anni nel 2033; la Repubblica Ceca ha “congelato” il meccanismo di innalzamento automatico dell’età in relazione all’aspettativa di vita definendo una soglia massima di 64 anni; infine l’Olanda ha posticipato dal 2020 al 2024 l’incremento dell’età pensionabile a 67 anni, mentre la Germania ha introdotto il pensionamento anticipato a 63 anni e 10 mesi.

È pur vero, tuttavia, che il caso italiano presenta le note particolarità sul fronte dei costi, con il rapporto fra spesa pensionistica e PIL più elevato d’Europa, il che costringe i governi a considerare attentamente le implicazioni finanziarie degli interventi. Al riguardo, l’impatto delle ultime tre opzioni di riforma delineate sopra è stato oggetto di valutazione nel recentissimo Rapporto Annuale INPS 2021, peraltro encomiabile per ricchezza e profondità dei dati: Quota 41 è l’opzione più onerosa, con un incremento di spesa previsto di 4,3 miliardi nel 2022 e crescente fino a raggiungere i 9,2 miliardi nel 2031; l’“Opzione contributiva” porterebbe a maggiori spese per 1,2 miliardi nel 2022, fino a un massimo di 4,7 miliardi nel 2027; la “Contributiva-mista” sarebbe decisamente meno costosa – con 443 milioni di spesa aggiuntiva nel 2022 e un massimo di 2,4 miliardi nel 2029. Riassumendo, l’opzione più onerosa (Quota 41) produrrebbe un incremento di spesa pari a circa lo 0,4% del PIL nell’anno di maggiore impatto (2031). Questi dati, come detto, vanno valutati con attenzione, e soprattutto contestualizzati non soltanto rispetto al livello di spesa pensionistica, ma anche alla tendenza della stessa. Due considerazioni sono perciò rilevanti sul punto. Da un lato, come mostrato da Brambilla e Mundo, il tragico impatto del Covid-19 sulle coorti più anziane ha comportato una riduzione di spesa di 1,1 miliardi di euro nel solo 2020, e un risparmio previsto cumulato di 11,9 miliardi nel 2020-2029 (cui dovrà purtroppo aggiungersi l’ulteriore diminuzione di spesa a causa dei decessi del 2021). Dall’altro, lo stesso Rapporto INPS mostra come, in assenza di misure espansive, la spesa per pensioni sul PIL in Italia è prevista diminuire dal 16,2% nel 2020 al 14,6% nel 2027. Nel complesso, dunque, i dati ci dicono che se la spesa pensionistica è ancora elevata, esiste tuttavia un discreto margine di manovra per i decisori politici.

Entro questo quadro almeno in parte vincolato sul versante della spesa, è essenziale disegnare bene gli interventi, destinando le risorse aggiuntive in modo tanto efficace – coprendo dunque adeguatamente bisogni effettivi – quanto efficiente, intercettando cioè prima di tutto le situazioni di maggiore sofferenza. Il criterio che consente di combinare efficacia ed efficienza è, come argomentato altrove (Jessoula e Raitano, Pensioni e disuguaglianze: una sfida complessa, l’equità necessaria, Politiche Sociali 2020), l’equità, non intesa in senso attuariale, bensì sostanziale specie alla luce delle diverse forme di iniquità ed elementi regressivi presenti nel sistema. In tale prospettiva, ispirata a un principio di progressività delle tutele, pare opportuno concludere delineando alcune ampie raccomandazioni di policy rispetto alle opzioni di riforma in campo.

Primo, è opportuno evitare di replicare il disegno di provvedimenti come “Quota 100”, che non solo hanno incontrato un limitato interesse tra i lavoratori – 253.000 sono stati infatti i beneficiari di tale misura nel 2019-20 rispetto ai 617.000 stimati dal governo – ma hanno anche favorito il pensionamento anticipato di gruppi non particolarmente svantaggiati: in prevalenza uomini, occupati nel settore pubblico e con redditi medio alti. Inoltre, come previsto, le donne sono decisamente sottorappresentate tra i beneficiari (circa 70.000 contro i 180.000 uomini) e tra queste la misura è stata principalmente goduta da donne con redditi molto elevati (Rapporto Annuale INPS 2021). Provvedimenti simili rischiano infatti di approfondire le disuguaglianze di opportunità nell’accesso al pensionamento, in un sistema che già presenta una marcata disuguaglianza sul versante dei redditi pensionistici – il rapporto tra il primo e l’ultimo quintile è infatti il secondo più elevato nell’UE dopo la Lettonia (Pension Adequacy Report 2021).

Secondo, pare invece utile riprendere la via aperta con la versione “sociale” dell’APE e soprattutto la nomina della commissione di studio sui differenziali nell’aspettativa di vita tra le varie categorie professionali, nella prospettiva di definire condizioni più favorevoli – rispetto a regole di accesso al pensionamento e/o di calcolo delle prestazioni – per gli individui maggiormente svantaggiati, in quanto impiegati in mansioni gravose (anche se non strettamente usuranti), con minore aspettativa di vita, a media-bassa retribuzione, con carriere frammentate.

Terzo, è necessario approfondire la riflessione su come costruire un sistema adeguato, sostenibile ed equo anche al di là della scadenza di Quota 100, considerando – come recentemente suggerito dalla Corte dei Conti – il prossimo avvicendamento tra le coorti di pensionandi nel regime misto e quelle nel contributivo puro: si tratterebbe, di fatto, di prevedere regole omogenee e auspicabilmente flessibili per il pensionamento – pur calibrandole rispetto ai diversi regimi. Ciò consentirebbe anche di affrontare, e rimuovere, alcune storture delle regole attuali, specialmente le soglie di importo minimo per il pensionamento di vecchiaia e anticipato (1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale) che non hanno pari nei sistemi pensionistici europei. L’adeguatezza delle prestazioni, specie nella parte bassa della distribuzione, non si costruisce infatti tramite l’imposizione di clausole regressive come quelle in oggetto: l’adeguatezza, intesa sia come “prevenzione della povertà” che come “mantenimento del reddito”, va invece perseguita “strutturalmente” tramite la buona performance del mercato del lavoro – sia rispetto a quantità che qualità dell’occupazione – obiettivo comunque non facile da raggiungere, e soprattutto attraverso formule di calcolo progressive (considerato il vincolo sulle risorse) e l’individuazione di opportuni meccanismi di finanziamento – anche sfruttando maggiormente la leva fiscale come già avvenuto in un numero significativo di paesi UE.

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