Oltre la crisi: partecipazione democratica e diritti sociali

Relazione di Riccardo Terzi alla Riunione inaugurale della Consulta Programmatica SPI-CGIL del 24 febbraio 2011 a Roma

La decisione di dar vita ad una “Consulta programmatica” è una scommessa impegnativa, e molti potrebbero obiettare che un tale compito non rientra nelle competenze istituzionali dello Spi, le quali non dovrebbero valicare il confine di una tradizionale tutela sindacale dei redditi da pensione. Noi scegliamo, coscientemente, di rompere con questa logica minimalista e corporativa, nella convinzione che nel tema dell’invecchiamento, visto in tutte le sue implicazioni individuali e collettive, rientrano tutti i grandi nodi della vita civile e dell’organizzazione sociale, che dunque è la stessa nostra funzione di “rappresentanza” che può essere pienamente svolta solo se abbiamo uno sguardo “generale”. Non è quindi uno sconfinamento arbitrario, ma è l’unico modo per prendere sul serio il nostro lavoro. Ecco perché ci occupiamo non di un segmento, ma dell’insieme, ovvero del modello sociale che regola tutto il complesso delle relazioni. Occorre cioè vedere come le singole parti non sono comprensibili separatamente, ma solo all’interno di una visione generale, e ciò vale, in modo evidente, per il tema dell’invecchiamento, che finisce per essere del tutto travisato se lo si affronta come un capitolo settoriale, in una logica di tipo assistenziale, mentre all’opposto la condizione degli anziani è un metro di misura della qualità sociale complessiva.

In questa nostra prima riunione, possiamo soffermarci su alcune premesse di analisi, cercando di cogliere quelli che sono i tratti dominanti dell’attuale fase politica. Potranno poi seguire approfondimenti più mirati, intorno ai singoli ambiti specifici, così da articolare, nel modo più preciso possibile, il nostro programma di lavoro. Diciamo , nel titolo di questo incontro, “oltre la crisi”, non perché siamo già incamminati lungo una via di uscita, ma perché c’è bisogno di una progettazione di lungo periodo, che non resti incagliata nelle misure di emergenza. La politica attuale è tutta giocata sui tempi corti, sulla tattica contingente, con l’attenzione rivolta in modo ossessivo all’andamento dei sondaggi, e nessuno sembra avere il senso della prospettiva, ovvero uno sguardo lungo e strategico, capace di vedere le tappe possibili di un processo storico, che va pazientemente organizzato e preparato. Restano così in ombra i dati strutturali e di fondo dell’attuale crisi, in quanto crisi di sistema, che investe, insieme, la struttura economica e le istituzioni politiche. La grande illusione che sembra orientare i comportamenti politici dei maggiori paesi europei è che ci si possa limitare a qualche misura di emergenza, in attesa che possa riprendere a funzionare, a pieno regime, il meccanismo della crescita economica, negli stessi termini e con la stessa logica del passato. Si gettano così le basi per nuovi futuri sconvolgimenti, perché si agisce solo sugli effetti e non sulle cause della crisi.

L’Italia, in modo particolare, appare del tutto bloccata, incapace anche dei più moderati programmi di riforma. È del tutto fuorviante, a mio giudizio, l’immagine ricorrente della “transizione”, la quale sottintende che abbiamo intrapreso un cammino e che si tratta solo di portarlo a termine. Dalla prima alla seconda Repubblica, dalla democrazia dei partiti alla democrazia dei cittadini, da un sistema consociativo a un sistema bipolare: dietro queste formule c’è l’idea che si tratti solo di allentare la presa del sistema dei partiti e che sia sufficiente un ridisegno istituzionale, per liberare le energie della società civile. È un’illusione che ritorna periodicamente, dalla commissione bicamerale fino alle ricorrenti esternazioni del Presidente della Repubblica. Il mio dubbio è che si rovesci l’ordine delle priorità, perché una politica istituzionale non potrà essere efficace se non c’è anche, prioritariamente, un’azione che incide nella struttura sociale. Tutta l’enfasi sulle riforme istituzionali ha questo significato: prendere atto di un cambiamento che è già avvenuto, nella prassi politica reale e nella coscienza civile del Paese, e dare a tale cambiamento un adeguato fondamento giuridico, con una riscrittura complessiva delle regole democratiche. La transizione è, appunto, il coronamento di questo processo. C’è tutta una retorica al servizio di questa tesi: la società civile è più avanti rispetto alla politica, è già una società post-ideologica, individualizzata, bipolarizzata, ed è la politica che deve mettersi al passo di questi mutamenti. Lo schema interpretativo è il nuovo contro il vecchio, l’innovazione contro la conservazione, la vitalità della società civile contro la forza di inerzia della partitocrazia. I cosiddetti “rottamatori” sono gli interpreti conseguenti di questo tipo di rappresentazione.

Ciò che non funziona in questo schema non è l’asprezza della critica al sistema politico, che spesso coglie nel segno, ma è la “pars costruens”, la quale è di una fragilità disarmante, perché si riduce alla retorica di una società civile immaginata e idealizzata. La società è già oltre, secondo questa interpretazione, perché si è liberata dei miti e dei conflitti del Novecento, e ciò che guida le persone, in questo mondo globalizzato, non è più la forza delle ideologie e delle appartenenze, ma è solo il calcolo delle convenienze individuali, che per sua natura si sottrae alle costruzioni astratte e artificiose della politica.

E allora, venute meno le tradizionali identità ideologiche, con il loro carico ormai solo ingombrante di progettualità o di utopia, l’unico criterio che resta in piedi è la governabilità del sistema, vale a dire l’affermazione di un potere che non sia più condizionato dal pluralismo inquieto e inconcludente delle idee. A questa medesima conclusione giunge anche il realismo rassegnato di Giuseppe De Rita: c’è solo la dimensione del contingente, ci sono solo processi da accompagnare e da regolare, e non c’è, oltre questa sfera del quotidiano, nessuno spazio possibile per una politica come progetto. Il mondo post-ideologico è il mondo che si sbarazza della fatica di pensare e che per questo si consegna alla nuda fattualità, alla forza del potere, perché la società individualizzata ha bisogno solo di essere disciplinata e trattenuta da un potere che garantisca la sicurezza collettiva. Alla fine c’è questo rovesciamento: la società civile si sottomette ad un potere controllato, e tutta la retorica intorno alla “democrazia dei cittadini” finisce nel nulla, perché i cittadini sono solo gli spettatori di un gioco politico sul quale non hanno nessuna influenza. La “seconda Repubblica” è nata su questa basi, su queste premesse, ed ha quindi in sè, nella sua ragione fondante, lo spirito dell’antipolitica, perché è esattamente la politica, ovvero la dimensione collettiva, ciò di cui dobbiamo liberarci. Questa è stata l’ideologia dominante in tutto l’ultimo ventennio, a destra come a sinistra, e l’attuale situazione di estremo degrado della vita pubblica non è che il punto di arrivo di questo lungo processo. Non si tratta solo di Berlusconi, come dovrebbe essere evidente, ma di tutto un indirizzo politico che, a questo punto, occorre avere la forza di rovesciare nelle sue premesse e nei suoi fondamenti. Per questo, possiamo dire di essere nel mezzo di una “mutazione”, che investe le forme della politica e l’insieme della nostra condizione civile, e dentro questa mutazione, se non vogliamo subirla passivamente, vanno individuate e mobilitate tutte le risorse possibili per uno sbocco democratico, per un esito che non sia il trionfo della passività e dell’adattamento.

Sul piano strettamente politico, la prima mossa che occorre fare è la critica del mito del bipolarismo. Questo mito ha prodotto una generale semplificazione, per cui non siamo più capaci di leggere la realtà in tutte le sue articolazioni e nella complessità dei suoi processi. Anche il nostro cervello finisce per essere bipolarizzato, capace di vedere solo un lato, e non l’insieme della realtà. E la bipolarizzazione tende a fare piazza pulita di tutte le autonomie, di tutte le istituzioni intermedie, di tutti gli organi di garanzia. Anche il sindacato ne è investito, perché ci stiamo avviando drammaticamente, senza averne piena consapevolezza, verso la bipolarizzazione tra un sindacato di governo e un sindacato di opposizione, consumando così tutto le risorse dell’autonomia, dell’essere cioè una forza di rappresentanza sociale che non si lascia mai organizzare dall’esterno e rifiuta qualsiasi rapporto di subordinazione al quadro politico, quale che esso sia. E questa violenta pressione della politica bipolare sta mettendo in crisi la magistratura, l’informazione, l’associazionismo, perché non è più ammissibile nessuno spazio di autonomia, ma tutti devono essere schierati, lottizzati, reclutati in uno dei due campi contrapposti.

Io penso, all’opposto, che proprio il principio di autonomia possa essere il cardine su cui costruire un nuovo e diverso sistema politico: autonomia dei soggetti politici, delle rappresentanze sociali, delle istituzioni territoriali, dei corpi sociali intermedi. Dobbiamo uscire, al più presto, da questa stagione di follia, che ha tutto appiattito, semplificato, snaturato, per cui non c’è più uno spazio pubblico, un luogo di confronto, ma solo lo spettacolo infinitamente ripetuto di uno scontro di fazioni, nel quale la posta in gioco non è quella delle idee, ma è solo quella del potere. È la democrazia la vittima sacrificale di questo meccanismo, proprio perché siamo ridotti ad essere gli spettatori passivi di un gioco che non ci appartiene. Dobbiamo mettere in primo piano, io credo, tutto il tema della democratizzazione delle strutture di potere e dei processi decisionali, contrastando apertamente, sul piano teorico e su quello pratico, le spinte che si sono dispiegate verso un sistema di tipo oligarchico e autoritario. Ciò vuol dire ripensare gli strumenti, gli spazi e i tempi di  una democrazia possibile, nella dimensione locale come in quella globale. Di fronte all’accelerazione di tutti i processi di cambiamento , la risposta ricorrente è che non ci possiamo più permettere i tempi lunghi della democrazia, e che occorre garantire la rapidità della decisione. Imboccata la strada del decisionismo, il resto viene da sè, e tornano così di moda tutti gli antichi argomenti del pensiero antidemocratico: la competenza, l’autorità, la responsabilità individuale di chi esercita il potere, contro le turbolenze di una democrazia di massa.

È un tema complicato, perché non disponiamo di risposte sufficienti, e sicuramente è ormai fuori tempo l’idea di ripristinare il ruolo svolto nel passato dai grandi partiti di massa, perché quel sistema è andato a pezzi e oggi non esistono propriamente partiti politici, ma cartelli elettorali, gruppi di pressione, potentati locali. Il campo della politica non è riuscito a strutturarsi, a darsi una forma stabile, ed è esposto alle più svariate scorribande, al trasformismo più sfacciato, e al continuo proliferare di nuove sigle e di nuovi avventurieri. È indicativo il fatto che il partito di più lunga tradizione sia oggi la Lega Nord di Umberto Bossi, che a qualcuno sembrava al suo sorgere una manifestazione del tutto aleatoria, un caso irrilevante di folklore locale. E allora, non possiamo fare a meno dei partiti, da un lato, ma dobbiamo anche saper immaginare una democrazia che non sia affidata esclusivamente al sistema dei partiti, ma che abbia una dinamica più ampia, un respiro allargato, coinvolgendo un più vasto arco di forze. Se analizziamo ciò che è accaduto negli ultimi mesi, vediamo all’opera una mobilitazione civile che ha assunto nuove forme: il mondo della scuola, le iniziative autonome della Cgil, fino all’ultima straordinaria manifestazione delle donne. Sono tutti movimenti che si sviluppano nell’autonomia del sociale, che hanno un impatto politico, ma non transitano direttamente dal sistema dei partiti.

Lo stesso metodo delle primarie può essere, a determinate condizioni, un modo per allargare gli spazi della partecipazione e per introdurre un po’ di dinamismo nelle strutture ossificate dei partiti. E vanno attentamente studiate tutte le esperienze di democrazia partecipata, tutti i diversi tentativi di sottoporre le decisioni pubbliche al dibattito e ad una libera e responsabile decisione dei cittadini, secondo determinate procedure. Dobbiamo cioè smentire, sulla base di esperienze effettive, la tesi dell’inconcludenza della democrazia e costruire un’alternativa praticabile al modello decisionista. La democrazia non può ammettere limiti, ma è per sua natura universalistica, inclusiva, e non ci possono essere aree protette che sfuggono al suo controllo. Nel momento in cui viene limitata, circoscritta, la democrazia perde la sua forza d’urto, la sua carica innovativa. Ed è proprio ciò che oggi sta accadendo, il che determina una crescente stanchezza democratica, perché si sono salvate solo le forme e si è perduta la sostanza. Ciò che va dunque elaborato è un programma democratico conseguente, che assuma come sua premessa l’estensione massima possibile delle procedure democratiche in tutti gli ambiti della vita sociale, contro tutte le strozzature burocratiche e oligarchiche che hanno ostruito i canali della partecipazione.

La crisi democratica, d’altra parte, si incrocia con la crisi sociale, e i due processi si alimentano reciprocamente. Non funziona il teorema dello “Stato minimo”, della politica che si ritira e lascia libero campo all’autonomia della società civile. Non funziona perché non ci sono forti istituzioni della società civile che siano in grado di supplire alle debolezze della politica, e la società stessa è attraversata da fratture, da corporativismi, da illegalità diffuse, e appare infiacchita la coscienza civile del paese, perché c’è tutto un sottofondo di rancori, di egoismi, di intolleranze che viene emergendo. Una politica di privatizzazione dello spazio pubblico ha quindi solo l’effetto di affidare la tenuta sociale del paese alla spontaneità dei meccanismi competitivi, i quali, lasciati a se stessi, producono una crescita illimitata delle diseguaglianze e allargano tutta l’area delle esclusioni. L’idea dell’autoregolazione sociale è, in queste condizioni, un mito privo di qualsiasi fondamento.

A questo proposito, viene spesso evocato in modo improprio il principio della “sussidiarietà”, facendolo semplicemente coincidere con la privatizzazione. Ma è un trucco verbale, perché la sussidiarietà, così come è definita anche nella Carta Costituzionale, non è il dominio del privato sul pubblico, ma la loro integrazione e collaborazione, in vista del bene comune, ed essa quindi prende senso come un nuovo possibile fattore di coesione sociale. La destra ha in mente una traiettoria del tutto diversa, come dimostra anche l’idea di una revisione costituzionale per liberare tutta l’attività economica da ogni vincolo di responsabilità. L’adesione entusiastica del Governo al “modello Marchionne” si spiega così, coerentemente, perché è un caso emblematico della rottura tra impresa e società, tra impresa e territorio, tra capitalismo e democrazia, e il modello che si vuole imporre è quello di un dominio unilaterale ed esclusivo dell’impresa, senza avere tra i piedi nè la contrattazione sindacale nè il controllo democratico. Tutti i rischi sociali sono così scaricati dall’impresa sui lavoratori e sul territorio, perché essa può sempre in modo unilaterale decidere se, dove e quando investire. Come questa operazione possa apparire a qualcuno come una sfida riformista, o come una nuova frontiera della partecipazione dei lavoratori, è uno dei tanti indecifrabili misteri della politica attuale. Resta aperto il problema di quale sia la via più efficace per contrastare il nuovo corso imprenditoriale aperto dalla Fiat. Ma, intanto, è di straordinaria importanza il fatto che una quota assai elevata di lavoratori, nonostante il ricatto, abbia tenuto una posizione di resistenza, e che la Cgil abbia saputo rappresentare questo disagio sociale.

Ma è chiaro che non può bastare la resistenza, e che occorre una risposta strutturata, fondata sulla più rigorosa analisi dei processi produttivi e dei possibili modelli di organizzazione del lavoro. Non è un tema solo sindacale, ma è piuttosto uno dei grandi nodi della politica, proprio perché si tratta di chi e di come si decide, e di quale dovrà essere l’assetto economico del Paese. Il centro-destra, su questo come su altri problemi, ha una sua perversa coerenza, e non è facile afferrarne la sostanza, perché c’è una miscela di arroganza e di impotenza, di dominio autoritario e di resa incondizionata al mercato. Questo è il berlusconismo: un potere che ha gli aspetti caricaturali del regime, ma che in realtà è un potere vuoto, perché i veri centri di decisione stanno altrove. Per questo non basterà liberare il campo dall’attuale impresentabile Presidente del Consiglio, anche se questo è il primo ineludibile passo per tentare di aprire una nuova stagione politica.

Ma non dimentichiamoci che dietro lo spettacolo grottesco della fine dell’impero c’è tutto il groviglio delle contraddizioni e dei conflitti sociali, e ci sono gli esiti di una politica che ha rinunciato a governare i processi, lasciando libero campo alle spinte più distruttive. C’è un’analisi sociale che deve essere aggiornata e approfondita. Non mi convince la tesi della “fine del sociale”, l’idea cioè che il processo di individualizzazione abbia dissolto ogni dimensione collettiva, per cui si tratta ormai solo di diritti individuali, di autonomia della persona, di domande di libertà. Questa dimensione individuale oggi emerge con più forza, ma è essa stessa il risultato di un processo sociale, e una astratta contrapposizione tra individuale e collettivo non consente una effettiva comprensione dei mutamenti che sono in atto.

Accenno solo a tre grandi trasformazioni che investono la nostra struttura sociale. Sono tre ondate che sconvolgono tutti gli equilibri preesistenti, e che mettono alla prova il nostro sistema di welfare. In primo luogo, c’è l’ondata demografica, con il fortissimo innalzamento delle aspettative di vita, il che determina un quadro del tutto nuovo, nella vita delle persone, nelle relazioni familiari, nel modo di organizzare la vita sociale, nella domanda di servizi e di spazi pubblici. È l’intero modello sociale che ha bisogno di essere ridefinito e ripensato. Ma finora c’è stato solo un approccio angusto, in una logica assistenzialistica, senza vedere tutta la dimensione del problema, nei suoi aspetti politici, culturali, esistenziali, senza una strategia volta a valorizzare tutte le risorse potenziali del mondo degli anziani, il quale rischia così di essere messo ai margini, senza svolgere nessun ruolo sociale. È il tema dell’invecchiamento attivo, sul quale da tempo lavora lo Spi, con il supporto del lavoro di ricerca svolto dall’Ires-Cgil.

La seconda grande ondata è quella migratoria. È un grande processo storico, di portata mondiale, che può esser affrontato solo con una visione globale, non in una logica di emergenza, ma in una prospettiva di integrazione e di ridefinizione dei confini della cittadinanza. Qui potrebbe essere utile una revisione costituzionale, perché la Costituzione è stata scritta in una fase storica in cui l’Italia era un paese di migranti, mentre oggi il processo si è rovesciato. Ma dovrebbe essere chiaro, se stiamo ai fondamenti della nostra Costituzione, alla sua logica inclusiva e al suo carattere universalistico, che oggi è necessario allargare il concetto di “sovranità popolare”, includendo tutti quelli che in Italia vivono, lavorano, e concorrono in varie forme allo sviluppo economico. Norme più semplificate per la cittadinanza e diritto di voto sono i due passaggi necessari per una inversione di rotta. Le posizioni della Lega e dell’attuale Governo sono incompatibili con il disegno costituzionale, perché sono guidate da una logica persecutoria e discriminatoria, e su questo è indispensabile condurre una battaglia politica e culturale a viso aperto, senza farsi condizionare dai calcoli elettorali.

Infine, c’è tutto il grande sommovimento che ha investito le forme del lavoro, con un processo che ha del tutto ribaltato il rapporto tra lavoro garantito e lavoro precario, per cui la precarietà è divenuta la regola, l’orizzonte di vita in cui si trovano schiacciate tutte le nuove generazioni, con un mutamento della condizione esistenziale di cui non si sono misurate tutte le conseguenze. Il tema è il lavoro, come indispensabile fattore di identità e di dignità. Non possiamo assecondare le fughe utopiche verso una società del non-lavoro, nè possiamo limitarci all’estensione degli ammortizzatori sociali, i quali sono necessari, ma sono pur sempre un surrogato, una misura di emergenza. Se un’intera generazione perde un ancoraggio forte con il lavoro, le conseguenze sono devastanti. In questo senso, è aperto potenzialmente un conflitto generazionale. Ma vanno correttamente indagate le cause e le ragioni di questo conflitto, evitando le troppo facili e sbrigative banalità che troppo spesso ci vengono proposte. Nella sostanza, il conflitto non riguarda essenzialmente il rapporto tra le generazioni, ma il modello sociale che si è affermato, il quale produce nuove drammatiche diseguaglianze, che investono tutte le diverse generazioni.

In ogni caso, il tema della condizione giovanile e delle sue prospettive è un tema decisivo, e potenzialmente esplosivo, che dobbiamo esplicitamente affrontare, e forse potrebbe essere questo l’oggetto di un nostro prossimo appuntamento. Bisogna rimettere mano alla politica previdenziale, che oggi non è in grado di offrire ai giovani nessuna seria prospettiva, e alle regole del mercato del lavoro, per mettere un freno che sia efficace ai processi di precarizzazione oggi dilaganti. Occorre cioè un nuovo patto di solidarietà tra le generazioni.

Insomma, è tutta l’architettura del welfare che deve essere ridefinita alla luce di questi profondi cambiamenti sociali, e questo richiede un intenso e impegnativo lavoro di progettazione politica, sulla base di una analisi della realtà. In questo consiste essenzialmente il lavoro che ci proponiamo di svolgere. Oggi ci limitiamo a tracciare alcune linee generali, ma è evidente che dobbiamo andare oltre, e costruire proposte, progetti, linee programmatiche concrete. Possiamo dire che tutti i temi che abbiamo qui indicati (l’invecchiamento, l’immigrazione, il lavoro) hanno in comune il concetto di cittadinanza,  l’idea cioè che debba esserci una cornice universale di diritti, a sostengo della dignità della persona, nelle diverse fasi della sua vita e nella varietà delle sue condizioni sociali. Il principio regolatore resta quello fissato dalla Costituzione, là dove la persona è pensata nelle sue relazioni sociali ed è definita come titolare di diritti fondamentali di libertà e di autonomia, che la Repubblica “riconosce” e garantisce, e che dunque hanno un valore primario e non possono dipendere dal variare delle situazioni politiche. È questo l’orizzonte in cui inquadrare tutte le singole concrete proposte: l’universalità dei diritti sociali, il principio di eguaglianza, la costruzione di una comune cittadinanza, nel quadro nazionale e in quello europeo.

Oggi tutto ciò può apparire velleitario, perché tutti i processi reali vanno in tutt’altra direzione. Ma è importante, io credo, fissare dei principi, degli obiettivi strategici, e definire così una precisa e chiara identità culturale, senza escludere per questo la possibilità di una politica tatticamente manovrata, in rapporto alle situazioni concrete. Così, ad esempio, tutto il tema del federalismo, che è oggi al centro dell’agenda politica del Governo e del Parlamento, va definito nei suoi principi, va ricondotto cioè ad una idea di cittadinanza unitaria e universale. L’autonomia dei poteri locali riguarda le politiche concrete, le forme organizzative, ma non i diritti di cittadinanza, e va quindi garantita l’unitarietà dell’ordinamento giuridico, contro i possibili strappi tra Nord e Sud, tra realtà forti e realtà deboli, e contro ogni forma di chiusura e di arroccamento delle singole comunità. A queste condizioni,ma solo se esse sono tenute ferme con coerenza, il federalismo può essere un importante risorsa per il rinnovamento politico e istituzionale. Così, su un altro piano, tutto il tema della costruzione unitaria dell’Europa deve essere il terreno di una precisa e incalzante iniziativa politica, e non possiamo più nasconderci dietro una generica retorica europeista. Quello che si è chiamato il “modello sociale europeo” è oggi sotto attacco, e l’Europa non ha un indirizzo, una missione visibile e riconosciuta, ma è attualmente solo il luogo di defatiganti mediazioni. Se si continua così, l’idea di Europa è destinata a perdere, nella coscienza di massa, qualsiasi significato.

Dopo un periodo di devastazione del dibattito politico, dobbiamo tornare ad occuparci di ciò che è davvero essenziale, dell’idea di società, del progetto, dei fini dell’agire politico, e su questo vanno misurate le tattiche, le alleanze, gli obiettivi parziali. Non aspettiamo che sia la politica a darci delle risposte. Ma pensiamo che sia nostro diritto e nostro dovere lavorare in questa prospettiva, partendo dalla parzialità del nostro punto di osservazione, ma sapendo che la democrazia vive del confronto e del conflitto tra le tante parzialità. E abbiamo l’ambizione non di superare la parzialità, ma di aprirla ad una dimensione più ampia, e per questo abbiamo bisogno del contributo, libero e critico, di ciascuno di voi.

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