Occorre più Europa. Quale Europa? La sfida del prossimo governo italiano

Roberto Tamborini si chiede se l'Europa avrà il posto che merita nei programmi delle forze politiche per le elezioni del 4 marzo. A suo parere difficilmente sarà così; di Europa si parlerà poco e male, come al solito, soprattutto perché nessuna delle forze in campo sembra essere consapevole della reale posta in gioco. Tamborini ricorda che nel 2018 si avvierà il processo di riforma delle istituzioni europee dal cui esito dipende il futuro dell'Italia in Europa e propone una breve guida per capire la sfida più importante del prossimo governo italiano.

La storica euro-miopia della politica italiana potrà avere conseguenze più gravi che in passato. Nella prossima primavera, mentre l’Italia sarà impantanata nella ricerca di un’improbabile maggioranza di governo, partirà un processo di riforma delle istituzioni europee che sarà cruciale per il nostro futuro. Le forze progressiste ed europeiste devono urgentemente elaborare una strategia intelligente e lungimirante, e comunicarla efficacemente all’opinione pubblica, per posizionare l’Italia, e tentare d’indirizzare le riforme, nella maniera migliore possibile per il progresso reale dell’Europa in armonia coi nostri interessi nazionali. Dimostrare che ciò è possibile sarebbe un risultato di portata storica.

Cominciamo ricordando alcuni fatti recenti. L’ascesa del presidente francese Macron ha fortemente accelerato, almeno nelle intenzioni proclamate (si veda il famoso discorso della Sorbona del novembre scorso), il processo di riforma delle istituzioni europee, e in particolare di quelle dell’Unione monetaria, che non hanno retto al primo vero stress test  della loro storia, la crisi economica e finanziaria iniziata nel 2008. Una crisi che all’inizio l’Europa ha guardato con distacco come un affare americano, e che poi invece si è abbattuta sul nostro continente con maggior forza e più a lungo. Grazie soprattutto a numerosi studiosi indipendenti, si è formato un ampio consenso, che ha raggiunto anche i vertici istituzionali e politici, sul fatto che la “europeizzazione” della crisi sia stata dovuta in buona misura al cattivo funzionamento delle istituzioni di governo politico-economico.

Quale sarà la direzione di marcia del processo riformatore? Occorrerà, prima di tutto, un motore politico, che non potrà non essere una rinnovata partnership franco-tedesca. Se la disposizione di Macron è abbastanza chiara, quella di Merkel è ancora in gran parte da verificare, insieme al potenziale europeista dei socialdemocratici. Tuttavia è pressoché certo che nel nuovo anno i governi di Francia e Germania saranno in grado di esercitare i loro pieni poteri. In dicembre il ministro Padoan ha trasmesso ai colleghi europei un documento che delinea la posizione italiana in tangibile sintonia con quella francese (Reforming the European Monetary Union in a stronger European Union). L’Italia (con forse la Spagna) potrebbe entrare nella cabina di regia oppure restar chiusa fuori in mancanza di un governo all’altezza della sfida.

Ma le riforme istituzionali europee non sono già scritte e pronte per la firma dei leader politici. Il dibattito è in corso da anni, ed esiste una biblioteca di proposte, accurate e dettagliate. Per restare ai documenti ufficiali più noti, come il Rapporto dei Cinque Presidenti (Juncker, Tusk, Dijesselbloem, Draghi, Schultz) del 2015, e l’ultimo “pacchetto” confezionato dalla Commissione europea nel dicembre scorso, si raccomanda, in vario modo, una più avanzata integrazione europea identificata in tre pilastri da affiancare all’Unione monetaria: l’Unione bancaria, l’Unione fiscale, l’Unione politica. La prima è già in cantiere e sono stati realizzati alcuni nuovi istituti, come la vigilanza unica sulla banche maggiori e il Meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie (comprendente il famigerato bail in), mentre è in stallo la creazione del fondo unico di garanzia dei depositi. L’Unione fiscale, cioè gli organi e le regole di governo fiscale dei paesi della Zona Euro, è interamente da scrivere e sarà verosimilmente il nucleo centrale dei negoziati. L’Unione politica è come sempre la meta ideale ma rimane ancora ben lontana dallo stadio di una vera e propria agenda politica.

Non è possibile passare in rassegna qui tutte le proposte disponibili, ma è lecito chiedersi perché nessuna sia riuscita, finora, ad ottenere il necessario consenso politico. La ragione è semplice: c’è generale insoddisfazione per lo status quo, ma ragioni e diagnosi sono diverse, soprattutto a livello politico. Quindi anche le finalità della riforme sono diverse. Perciò sul fronte europeo non avrà luogo solo la battaglia tra europeisti e anti-europeisti, ma anche tra visioni diverse dell’Europa, che vengono solitamente rappresentate in due modelli alternativi.

Il modello Maastricht 2.0

Una visione della crisi europea, prevalente (finora) in Germania, è incentrata sul fallimento politico del sistema di regole di comportamento dei governi sottoscritte nel Trattato di Maastricht e modifiche seguenti, fino al cosiddetto Fiscal Compact del 2012. Non sarebbe stata l’applicazione ma la violazione di tali regole a determinare la crisi europea, mentre esse forniscono essenziali linee guida per il buon funzionamento dell’Unione. Sul banco degli imputati c’è prima di tutto la “politicizzazione” della Commissione europea, la quale si sarebbe attribuita un crescente ruolo d’interprete delle regole e di mediatore coi governi nazionali, anziché di guardiano imparziale della loro applicazione.

Di conseguenza, quando i fautori di questo modello parlano di “più Europa” intendono approfondire e rafforzare l’originario sistema di regole vincolanti per i governi con un’ulteriore cessione di sovranità a favore di organi essenzialmente tecnocratici, come ad esempio i Fiscal Board (di cui ne esiste già uno in seno alla Commissione, l’European Fiscal Board costituito da esperti indipendenti di nomina governativa, con finalità, per ora di tipo consultivo) aventi il mandato di far valere rigorosamente le regole stesse di fronte ai governi nazionali. Questa visione è espressa molto chiaramente nell’ultimo documento redatto dall’uscente Ministro delle finanze tedesco W. Schauble per l’Ecofin, reso pubblico dal Corriere della Sera.

Il modello confederale

Un’altra visione mette invece in primo piano una lunga serie di criticità dell’impianto regolatorio originario, nodi che son venuti al pettine con la crisi e l’hanno aggravata, come

  • non tener conto delle interdipendenze tra i paesi,
  • l’insufficiente coordinamento delle politiche fiscali nazionali tra loro e comples­sivamente con la politica monetaria,
  • l’assenza di strumenti sovranazionali di stabilizzazione economica,
  • un’ “austerità” fiscale impartita troppo presto, in dose eccessiva e in maniera scoordinata.

Nelle decisioni cruciali di politica economica si è creato un forte contrasto tra “metodo comunitario” (leggi e decisioni spettano gli organi comunitari) e “metodo intergovernativo” (la legge del più forte?). Si è accentuato il “deficit democratico” dell’Europa, producendo una crisi sia di input legitimacy (legittimità democratica di decisori e decisioni di  politica economica) che di output legitimacy (correttezza ed efficacia delle politiche).

In questa visione, la direzione di marcia è opposta a quella di Maastricht 2.0. L’ispirazione confederale va presa in senso lato, ad intendere che lo scopo delle riforme deve essere quello di creare un “genuino” pezzo di governo politico-eonomico sovranazionale, con una chiara legittimità istituzionale (sia di input che di output), altresì coerente col ruolo dei governi nazionali quali primi depositari delle preferenze sociali riguardo alla politiche pubbliche e ai loro risultati. L’agenda delle riforme generalmente comprende:

  • il completamento dell’Unione bancaria;
  • un “Fondo monetario europeo”, ossia ampliamento e rafforzamento dell’attuale Meccanismo europeo di stabilità (ESM) con lo scopo di sostenere i paesi che perdono l’accesso ai mercati finanziari e fornire il capitale di supporto per il Meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie;
  • un “Ministro delle finanze europeo” con chiara e piena legittimità entro l’ordinamento comunitario, in grado di (i) definire l’andamento aggregato della politica fiscale in coordinamento con la politica monetaria, (ii) monitorare lo stato delle finanze pubbliche nazionali anche in chiave di coordinamento, (iii) gestire alcune poste di bilancio comune in funzione di supporto alla stabilizzazione in caso di shock aggregati o nazionali, e di supporto alle politiche per la crescita;
  • la ridefinizione e semplificazione delle regole di condotta fiscale nazionale, concentrandole sulla sostenibilità del debito pubblico nel medio-lungo termine, rimuovendo i meccanismi che possono generare effetti prociclici ed effetti negativi reciproci tra paesi.

Le posizioni di Italia e Francia (finora) si collocano in buona misura entro questo quadro.

L’ultima roadmap della Commissione europea

Il documento di dicembre della Commissione non si segnala per particolare ampiezza e profondità, ma è utile scorrerne i punti principali, e più controversi, in quanto esso dà un’indicazione del rapporto di forza tra le diverse visioni, e quindi per capire quale potrebbe essere un efficace posizionamento italiano.

  • Il Fondo Monetario Europeo

C’è generale consenso, ma emergono alcuni punti critici per garantire che il FME sia in grado di realizzare interventi appropriati, rapidi ed efficaci, ovvero scongiurare il pericolo che sia disegnato in modo da non essere utilizzabile. Primo, superare la logica inter­­governa­tiva e unanimistica dell’attuale governance. Secondo, tarare adeguata­mente le condizionalità e non imporle stile Troika. Terzo, escludere la ristrutturazione automatica del debito dei paesi richiedenti (può far precipitare anziché scongiurare una crisi). Quarto, escludere che il FME assuma la funzione di controllo tecnocratico dei bilanci nazionali.

  • Il Ministro delle finanze europeo

Idea tanto evocativa quanto ambigua. Ci saranno diversi nodi da sciogliere e pericoli da evitare, visto che tale figura sarebbe molto diversa nel modello Maastricht 2.0 o in quello confederale.

Primo, chi è questa figura? Il documento della Commissione propone che sia il presidente eletto dell’Eurogruppo (il consesso dei Ministri delle finanze dei paesi della Zona Euro) nonché Vicepresidente della Commissione. Questa proposta sembra propendere per il riconoscimento della dimensione politica del governo fiscale dell’Unione. Ma non è moltiplicando le cariche che si risolvono i problemi di legittimità. L’Eurogruppo stesso è un organo problematico, che alcuni ritengono troppo intergovernativo e disallineato rispetto all’ordinamento della Ue.

Secondo, qual è il mandato e quali sono i poteri? Un vero salto di qualità nella politica fiscale europea richiede gli elementi indicati nell’agenda confederale, che però non sono ritenuti prioritari, se non osteggiati, dai fautori di Maastricht 2.0, che in subordine preferirebbero affidare più competenze al FME.

Terzo, quali finanze europee e per cosa? Buon senso vorrebbe che la discussione su un Ministro delle finanze europeo andasse di pari passo con quella sulle risorse che avrebbe a disposizione. Ma il tema cruciale del bilancio europeo rimane vago. Su questo fronte occorre essere consapevoli che proposte di gestione comunitaria del debito pubblico, o altri meccanismi di condivisione dei rischi. non avranno molte chance di successo.

  • Il Fiscal Compact come legge della UE

Il tema della riforma delle regole fiscali sarà focalizzato sul Fiscal Compact, e prima di tutto sulla decisione se inserirlo a pieno titolo nella legislazione dell’UE (esso è “solo” un trattato internazionale). La Commissione, e naturalmente i sostenitori di Maastricht 2.0, sono favorevoli. L’Italia ha già espresso il proprio parere contrario, ma il punto sostanziale è che il destino del Fiscal Compact non può essere deciso indipendentemente dal modello di Unione che si vuol costruire.

Primo, non risolve (forse aggrava) i difetti complessivi delle regole fiscali emersi con la crisi. Secondo, se si vogliono vincolare significativamente i bilanci statali, come in effetti avviene in diversi sistemi federali, occorre che essi siano sufficientemente piccoli e limitati a competenze locali. Terzo, e più importante, il Fiscal Compact presenta seri problemi fondativi connaturati con l’ideologia delle regole contro la discrezionalità dei governi, sulla quale convergono l’ordoliberalismo tedesco e il neo-liberismo anglosassone. Il punto è che non esistono “contratti completi”. E’ un errore elevare regole di politica economica dettagliate e specifiche a rango di leggi, o peggio di norme costituzionali, che devono contenere solo principi generali. Le nostre conoscenze economiche sono sempre parziali e contingenti, evolvono e si adattano a mutevoli circostanze storiche e istituzionali. Le regole che possiamo fissare in un dato momento sono sempre limitate dal loro tempo storico e dottrinario; possono e debbono essere modificate nel corso del tempo. La discrezionalità dei governi va disciplinata, ma non è sopprimibile, per ragioni sia di input che output legitimacy della politica economica.

In conclusione, il 2018 si preannuncia come un anno decisivo per il futuro dell’Italia in Europa. Come in ogni negoziato di alta politica, occorrerà un governo dotato di una combinazione straordinaria di idee chiare, determinazione e realismo.

In primo luogo, l’Italia dovrà convincere sé stessa, per convincere tutti gli altri, che la riforma dell’Unione non è un sistema di scappatoie dalle responsabilità politiche, fiscali ed economiche che sono indispensabili per vivere e prosperare nell’Europa dell’euro. A tale scopo è necessario che il nuovo governo mostri di affrontare sul serio, con programmi convincenti, due problemi: il debito pubblico e la crescita economica. Secondo, dovrà evitare la trappola retorica degli Stati Uniti d’Europa, belli e impossibili, e la prospettiva immediata di balzi in avanti federali con massicci meccanismi di solidarietà e mutualità fiscale. D’altra parte, il realismo politico non è una legge cha vale a senso unico. Quindi, in terzo luogo il leader degli europeisti italiani dovrà avere sia la credibilità, che la capacità e la forza di proporre ai partner europei i passi indispensabili per superare lo status quo. Le linee del governo dell’Unione monetaria tracciate a Maastricht hanno fondamenta obsolete e regressive. C’è urgente bisogno di passi concreti contenuti nell’agenda confederale, tanto di quelli che non piacciono al “Sud” quanto di quelli che non piacciono al “Nord”.

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