Obiettivo di medio termine per l’Italia: il peggio non è mai morto

Gli Ecodemisti discutono l’obiettivo di medio termine (OMT) per il periodo 2020-22 indicato nel gennaio scorso dalla Commissione Europea per il deficit strutturale dell'Italia, che corrisponde a un avanzo di mezzo punto di PIL. Anche se nel dibattito di politica economica non si è dato molto spazio a questa novità, gli autori ritengono che, proprio mentre sembrano aprirsi minimi spiragli di cambiamento, un approfondimento sui meccanismi che hanno determinato quella novità possa contribuire a valutare quanto i vincoli imposti dall'UE siano sensati e non controproducenti.

Ha fatto un certo scalpore la recente pubblicazione, da parte del Financial Times, di indiscrezioni su possibili ipotesi in arrivo a Bruxelles di semplificazione e revisione delle regole di bilancio europee, soprattutto quelle relative al debito pubblico. Malgrado l’immediata smentita, si è creato un clima di attesa del cambiamento, plausibilmente favorito anche dalla condizione sfavorevole del ciclo in Germania. Del resto, sia la nuova presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sia Christine Lagarde, che sostituirà Mario Draghi alla BCE, si sono espresse a favore di un atteggiamento di bilancio accomodante. Difficile che una rivoluzione copernicana sia alle porte, ma almeno si comincia a mettere in discussione il vecchio paradigma.

Per dare una misura di quanto i vincoli imposti dall’UE siano insensati e controproducenti basta considerare il surreale obiettivo di medio termine (OMT) per il periodo 2020-2022 indicato nel gennaio scorso dalla Commissione europea per il deficit strutturale dell’Italia: + (più!) 0,5%, ovvero un avanzo pari a mezzo punto di PIL. Nel dibattito di politica economica non si è dato molto spazio a questa novità, e neanche il Governo allora in carica sembra essersene lamentato più di tanto, limitandosi sostanzialmente a ignorare l’ambiziosa richiesta e mirando, nel Documento di economia e finanza 2019 (DEF 2019), a “miglioramenti del saldo strutturale più contenuti in confronto ad un’interpretazione letterale delle regole”, in quanto le attuali condizioni cicliche richiederebbero altrimenti “interventi troppo restrittivi e controproducenti per l’economia”.

Mentre tra gli economisti alcuni tra i più consapevoli esponenti del mainstream cominciano finalmente a confrontarsi con quelli di paradigmi alternativi, mentre si leggono analisi sull’economia italiana che descrivono il nostro Paese come perso nella deflazione, l’obiettivo del pareggio di bilancio (strutturale) è stato tradotto addirittura in un surplus. Considerando che la spesa per interessi prevista dal DEF 2019 è pari al 3,6% del PIL nel 2020 e arriva al 3,8% nel 2022, l’OMT richiederebbe un avanzo primario strutturale (differenza tra entrate e spese pubbliche al netto degli interessi, tenendo conto degli effetti del ciclo), superiore al 4%.

E perché mai l’Italia, con prospettive di crescita del PIL di pochi decimi quest’anno (0,2% secondo il DEF 2019, 0,1% per la Commissione europea) e comunque inferiori all’1% annuo di qui al 2022 (secondo il DEF 2019), dovrebbe intraprendere politiche restrittive così aggressive? Il DEF spiega che la causa principale dell’innalzamento dell’asticella da -0,5% a +0,5% del PIL risiede nella revisione delle proiezioni di lungo termine relative alla spesa legata all’invecchiamento.

Per capire questo passaggio bisogna entrare nell’intricata foresta delle regole europee, secondo le quali l’OMT è calcolato come quel saldo strutturale che, se conseguito, consente la sostenibilità della finanza pubblica nel medio-lungo periodo, permettendo al contempo l’adozione di politiche anticicliche, senza il rischio di superare il limite del 3% del disavanzo nominale rispetto al PIL, uno dei due pilastri del Trattato di Maastricht (l’altro è il rapporto debito/PIL non superiore al 60%). Esso è calcolato con un algoritmo, definito nel Codice di Condotta del Patto di stabilità e crescita, in cui si tiene conto dell’ampiezza delle fluttuazioni cicliche del PIL, del livello del rapporto debito/PIL e dell’incremento delle spese legate all’invecchiamento della popolazione, determinate su un orizzonte infinito (ovvero definite fino al 2070 e poi tenute costanti). Il valore attuale di queste ultime deve essere coperto oggi nella misura di un terzo. A nostra conoscenza, al di fuori della UE, nessun paese al mondo stabilisce il suo obiettivo di finanza pubblica per il prossimo triennio in funzione (anche) di costi potenziali calcolati sui prossimi 50 anni e poi mantenuti fissi sull’orizzonte temporale infinito… e quindi anche oltre la data (fissata dagli astrofisici tra 5 miliardi di anni) in cui si esaurirà l’energia fornita dal Sole e, con essa, la vita sulla Terra, i sistemi di welfare e i tutori dei conti pubblici. Ma la cosa più stupefacente è che, come per tutte le regole europee, il sofisticatissimo calcolo dell’OMT non tiene conto dei suoi feedback sulla crescita del paese e delle interazioni tra le economie dei paesi membri dell’UE. Per tornare alla metafora astronomica, è come se la traiettoria di una sonda spaziale fosse calcolata ignorando la presenza degli altri corpi celesti, le leggi di Newton e quelle di Keplero. Alla NASA avrebbero licenziato i responsabili di un simile abbaglio, ma non così nelle istituzioni europee e nazionali.

Nell’individuazione del nuovo OMT per l’Italia il requisito più stringente risulta essere quello che garantisce la riduzione del debito (in rapporto al PIL) e la compensazione delle passività implicite. In particolare, la componente relativa agli effetti dell’invecchiamento è passata, in seguito all’aggiornamento dell’Ageing Report (da quello del 2015 a quello del 2018), da un valore negativo pari a -0,4% del PIL ad uno positivo e uguale a 1,1%, che appesantisce la posizione iniziale del bilancio, già sfavorevole (1,8%). Sono la sanità (con un impatto di +0,7% sull’OMT) e la long-term care, ovvero l’assistenza di lungo termine rivolta ai non autosufficienti (+0,9%), a spingere verso l’alto la spesa nel lungo periodo, in quanto le altre componenti (pensioni, istruzione, ammortizzatori sociali) hanno un segno negativo.

Vediamo allora quali siano i drammatici risultati dell’Ageing Report 2018 alla base di cotanta preoccupazione per gli equilibri pubblici. La spesa sanitaria è indicata in aumento dal 6,3% del PIL nel 2016 al 7% nel 2070, con una punta del 7,2% nel 2050. Difficile dare un significato di qualsiasi rilevanza a simili variazioni, tanto più se si considera l’incertezza di questo tipo di analisi, su cui si tornerà tra poco. Sulla long-term care invece l’Ageing Report fa emergere un problema reale, ma non tanto per la crescita stimata della spesa (dall’1,7% del 2016 al 3% del PIL dopo 54 anni, con una punta del 3,1% nel 2060), quanto perché il nostro Paese è privo di un sistema nazionale di prestazioni e servizi reali di cura a lungo termine, avendo lasciato in larga misura scoperto il rischio della non autosufficienza. A questo si fa spesso fronte attraverso soluzioni private non sempre basate su rapporti di lavoro regolari, i cui costi sono solo in parte coperti dai sussidi monetari pubblici. Si tratta di un problema che andrà affrontato prima o poi, ma che esula dal tema di cui si occupa questa breve nota.

Quanto ci preme osservare è invece che vengono prescritte politiche anticicliche oggi, assolutamente inadatte ad affrontare la realtà dell’economia attuale e depressive, per tenere conto di improbabili congetture su come evolveranno i costi del welfare di qui al 2070. Infatti, le analisi sui costi dell’invecchiamento nel lungo periodo non producono previsioni, bensì “proiezioni”, termine che sottolinea la caratteristica esplorativa di questo tipo di esercizi, volti a proporre scenari diversi, subordinati all’adozione di ipotesi alternative. Tali ipotesi possono essere utili per verificare come cambierebbe il futuro se alcune variabili evolvessero in determinate direzioni, ma appaiono assolutamente “eroiche” se guardate come tentativi di delineare gli sviluppi concreti della realtà futura.

Per di più, nell’impostazione di questi lavori c’è il sottinteso che l’invecchiamento della popolazione, ovvero l’allungamento della vita media, per favorire il quale si spendono tante risorse e tanto sforzo di ricerca medica, sia una iattura, perché in futuro si dovranno mantenere tanti anziani con meno giovani al lavoro. Eppure, a parte la considerazione lapalissiana che in linea di massima appare preferibile vivere a lungo che morire giovani, appare assai probabile che, da un lato, una minore offerta di lavoro sarà accompagnata da una riduzione della disoccupazione, dall’altro lato, il progresso tecnico tenderà a ridimensionare fortemente la necessità di manodopera. Anche se probabilmente i movimenti delle due variabili non saranno perfettamente sincroni non è chiaro perché si debba temere così tanto una carenza di manodopera, fenomeno peraltro che assai raramente si è verificato nella storia in assenza di guerre o pandemie devastanti, mentre è molto diffuso il caso opposto di elevata disoccupazione. Forse di quest’ultima, e di tutte le conseguenze sociali che comporta, si preferisce non occuparsi: in fondo la disoccupazione rappresenta sempre il sistema più antico per contenere la crescita salariale.

Più in dettaglio, le proiezioni di lungo periodo della spesa collegata all’invecchiamento si basano, oltre che sulla considerazione della normativa che regola l’erogazione delle prestazioni e dei servizi pubblici, su ipotesi di evoluzione delle variabili demografiche (fertilità, mortalità, flussi migratori netti) ed economiche (occupazione, produttività). Nella determinazione delle ipotesi sulle variabili economiche l’Ageing Report 2018 attribuisce un peso rilevante al passato recente, scontando per l’Italia che gli effetti della crisi continueranno a protrarsi per molto tempo, un po’ come nel mito della memoria dell’acqua. Come è stato sottolineato dalla Ragioneria Generale dello Stato nell’ultimo Rapporto su “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”), il “quadro di ipotesi delineato per il round di previsione 2018 risulta fortemente penalizzante per il nostro paese, sotto il profilo della crescita economica, rispetto al precedente round del 2015”, e sono particolarmente incisive le revisioni relative ai flussi migratori e alla produttività. Infatti i valori attribuiti alla produttività e al tasso di disoccupazione restano particolarmente sfavorevoli fino alla metà degli anni ‘40 del XXI secolo. Ad esempio si ipotizza, per il periodo 2020-2070, una riduzione della forza lavoro (15-64), di più di 5 milioni di persone, da 25,6 a 20,2 milioni circa, eppure il tasso di disoccupazione, nella medesima fascia di età, resterebbe superiore all’8% fino al 2040 e appena inferiore (7,9%) in seguito. In definitiva, il tasso medio di crescita del PIL potenziale sotteso alle proiezioni di lungo periodo sarebbe inferiore allo 0,5% nel 2017-40 e all’1,5% nel 2041-70.

Si ipotizza dunque una stagnazione costante per il prossimo quarto di secolo, seguita da una crescita molto moderata. Del resto, è questo il destino che ci aspetta in Europa – bene che vada -, con le regole attuali, dunque perché stupirsi? Le politiche di austerità continuamente riproposte non consentono all’economia di riprendersi e ci condannano ad un continuo declino, che rende più difficile rispettare le regole sulla sostenibilità delle finanze pubbliche. Dunque gli obiettivi vengono resi sempre più restrittivi, spingendo a ulteriori politiche di austerità in un ciclo perverso senza via di uscita (che prima o poi inghiottirà nello stesso vortice gli altri membri dell’Unione, i quali perderanno un mercato che vale circa il 7% delle esportazioni dell’Eurozona). Se ne sono accorti anche a Bruxelles, e ce lo dicono apertamente, a differenza di tanti economisti nostrani. Cui prodest? Questa è una domanda che bisogna cominciare a porsi.

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