Nuove spigolature sui lavoratori delle piattaforme digitali

Stefano Giubboni torna a occuparsi delle questioni sollevate dalla condizione dei lavoratori delle piattaforme digitali per commentare i più recenti sviluppi sia sul terreno giudiziario che su quello politico-sindacale. Su tale ultimo versante, Giubboni giudica di particolare interesse l’iniziativa assunta dalla Commissione europea, che lo scorso febbraio ha promosso una prima consultazione delle parti sociali per un possibile intervento regolativo a tutela dei lavoratori delle piattaforme.

1. Il dibattito politico-sindacale sulle condizioni dei lavoratori delle piattaforme digitali mantiene non sorprendentemente, anche in Italia, una notevole vivacità. A vivacizzarlo, nel nostro Paese, resta in primo luogo la querelle sulla corretta qualificazione dell’attività di lavoro dei riders delle piattaforme digitali, come ben noto oggetto di un importante contenzioso giudiziario dagli esiti contrastanti. Se la Cassazione, con l’importante sentenza n. 1663/2020, ha optato per l’inquadramento dei riders nella nuova figura delle collaborazioni etero-organizzate dal committente (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015), più di recente il Tribunale di Palermo ha ritenuto di poter senz’altro rintracciare, nelle effettive modalità tipiche di svolgimento di quel rapporto di lavoro, gli indici della subordinazione ai sensi dell’art. 2094 c.c., svalutando il profilo – ritenuto invece ancora dirimente dalla Suprema Corte – dell’astratta libertà di accettazione del servizio da parte del lavoratore.

Il problema qualificatorio si è più di recente riproposto, con effetti per così dire «aumentati», nella indagine avviata su vasta scala dalla Procura della Repubblica di Milano con il coinvolgimento, oltre che dei competenti enti previdenziali, dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) e del Comando Carabinieri per la tutela del lavoro. Il comunicato stampa del 24 febbraio 2021 del Procuratore della Repubblica di Milano chiarisce bene l’importanza delle implicazioni di questa indagine, senz’altro innovativa sul piano delle modalità investigative e ispettive attivate con il proficuo raccordo dell’INL e dell’Arma dei Carabinieri, oltre che per l’ampiezza dei controlli effettuati (essendo «state esaminate le posizioni di oltre 60 mila rider che hanno operato dal 1° gennaio 2017 al 31 ottobre 2020)». A conclusione degli accertamenti, le amministrazioni pubbliche coinvolte, ciascuna per la parte di rispettiva competenza, hanno provveduto a notificare verbali di riqualificazione della posizione lavorativa dei rider, basati sull’assunto – invero difficilmente confutabile – che essi non svolgano una prestazione autonoma di tipo occasionale ma intrattengano quantomeno rapporti di collaborazione di tipo coordinato e continuativo organizzati dalla piattaforma e dunque disciplinati dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015.

Questa indagine ripropone con forza anche la questione della idoneità del contratto collettivo nazionale di lavoro concluso tra AssoDelivery e UGL il 15 settembre 2020 ad attivare la deroga consentita, sia pure a condizioni non perfettamente sovrapponibili, dal secondo comma dell’art. 2 e dall’art. 47-quater del d.lgs. n. 81/2015. Nella sua circolare n. 17/2020 il Ministero del lavoro ha contestato – sulla base di argomenti stringenti – una tale capacità derogatoria del discusso accordo collettivo, e per questo AssoDelivery ha impugnato l’atto dinanzi al TAR del Lazio. Sotto tale profilo, il punto cruciale della controversia sta evidentemente in ciò, che solo nel caso in cui si ritenesse che il contratto collettivo abbia legittimamente esercitato il potere di deroga previsto dalla legge potrebbe considerarsi superato il divieto di retribuzione a cottimo dei rider da quest’ultima stabilito. L’indagine della Procura di Milano e la conseguente attività di accertamento ispettivo dell’INL, ancorché come detto riferite a periodi pregressi, sembrano basarsi, infatti, anche sulla scorta della citata circolare dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro, sull’assunto esattamente contrario. Onde diviene in prospettiva decisivo accertare a quali condizioni spetti il potere di deroga, visto che l’accordo AssoDelivery/UGL è stato costruito appositamente (e opportunisticamente) per sfruttare una tale possibilità (è un contratto, come è stato ben detto, che sottrae diritti e tutele, altrimenti spettanti per legge ai lavoratori interessati, che per questo lo hanno contestato anche con recenti azioni di lotta).

È probabilmente anche in considerazione di queste incertezze, oltre che ovviamente per ragioni legate al modello di business prescelto, che un’impresa leader del settore come Just Eat ha da ultimo optato per la sottoscrizione di un accordo con FILT CGIL, FIT CISL e UIL Trasporti che prevede l’assunzione dei rider in forza in azienda come lavoratori subordinati, con l’applicazione di tutte le tutele previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro della logistica, che offre peraltro notevoli margini di flessibilità nell’impiego di questa specifica figura professionale.

2. Occorre peraltro rammentare che non tutte le tutele previste dalla legge in favore dei rider dipendono allo stesso modo dalla questione della corretta qualificazione del rapporto. Le tutele in materia di sicurezza sul lavoro – come ha rammentato il comunicato stampa della Procura di Milano – spettano ai rider in quanto lavoratori già ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 81/2008, prescindendo tale previsione legislativa dalla tipologia contrattuale utilizzata. Del resto lo stesso art. 47-septies, comma 3, ribadisce che il committente che utilizza la piattaforma, anche digitale, è tenuto dei confronti dei rider autonomi al rispetto (integrale) del d.lgs. n. 81/2008. Ciò vale anche per le tutele antidiscriminatorie: anche in tal caso a ribadirlo specificamente per i rider che svolgono attività di lavoro autonomo «puro» (ovvero non etero-organizzato) è il d.lgs. n. 81/2015, con l’art. 47-quinquies.

Una prima, importante applicazione del principio si riviene ora nell’ordinanza pronunciata dal Tribunale di Bologna il 31 dicembre 2020 nei confronti di Deliveroo Italia s.r.l., con la quale il giudice del lavoro bolognese – accogliendo il ricorso per discriminazione collettiva (indiretta) proposto da FILCAMS, FILT e NIDIL CGIL ex art. 5, comma 2, d.lgs. n. 203/2016 – ha accertato la discriminatorietà della condotta posta in essere dal gestore della nota piattaforma di food delivery attraverso l’utilizzo di un algoritmo che di fatto penalizzava i rider che avessero rifiutato di svolgere il servizio per motivi legittimi (come la malattia o, segnatamente, la partecipazione ad uno sciopero), condannando la convenuta anche a risarcire il danno non patrimoniale in tal modo cagionato ai sindacati ricorrenti. Come si legge nella bella ordinanza felsinea, quantomeno ai fini dell’applicazione della tutela contro le discriminazioni, «ogni ulteriore approfondimento sul punto e sulla vexata quaestio della qualificazione del rapporto di lavoro tra riders e piattaforma, in termini di subordinazione o autonomia, appare del tutto superfluo ove si consideri poi che, per quanto qui interessa, esiste una specifica norma di legge, e cioè l’art. 47-quinquies d.lgs. n. 81/2015, introdotto dal d.l. 3 settembre 2019, n. 101, convertito con modificazioni dalla l. 2 novembre 2019, n. 128 …».

Già oggi, quindi, nel nostro ordinamento la tutela di taluni diritti fondamentali (a sane condizioni di lavoro o a non essere discriminati per motivi sindacali) prescinde dalla natura del rapporto di lavoro, valendo – in conformità ai principi del diritto dell’Unione europea – per qualsivoglia tipologia contrattuale, anche di natura autonoma.

3. Ha una chiara impronta «universalistica» anche l’iniziativa più di recente assunta dalla Commissione europea, che, ai sensi dell’art. 154, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione, il 24 febbraio 2021 ha lanciato una prima fase di consultazione delle parti sociali al fine di esplorare possibili linee di azione per il miglioramento delle condizioni di lavoro nel settore delle piattaforme digitali. In questa fase la Commissione si limita ad acquisire le opinioni delle parti sociali su uno spettro volutamente aperto e ampio di possibili opzioni regolative, nell’auspicio che queste mostrino un interesse a concorrere fattivamente a delinearne i concreti contenuti (che, in caso affermativo, sarebbero rimessi ad una successiva fase di consultazione e confronto).

È nondimeno possibile rintracciare già ora nell’iniziativa della Commissione i tratti essenziali di un approccio di segno inclusivo generale, richiamandosi essa alla impostazione tendenzialmente universalistica recepita dal Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017 ed ancor più esplicitamente dalla raccomandazione del Consiglio sull’accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi del 2018. Nel documento di lavoro della Commissione viene assunta una nozione decisamente ampia di lavoratore della piattaforma digitale, non condizionata dalla specifica tipologia di inquadramento contrattuale. E del resto la stessa nozione di piattaforma è altrettanto ampia, pur avendosi cura di precisare che l’eventuale intervento regolativo non potrebbe non tener conto di una distinzione di base, qual è quella che – in quest’ambito – va fatta tra «on-location labour platforms (like passenger transport, deliveries, domestic work) and online labour platforms (where the tasks are not location-dependent and can be carried out from home, e.g. encoding data, translation work, tagging pictures, IT or design projects)».

Ciò che sembra tuttavia sufficientemente chiaro, già in questa fase, è che alcuni diritti fondamentali debbono essere riconosciuti su base universale e, per così dire, trasversale, oltre che sovranazionale. Questo già vale, in parte, anche al livello sovranazionale, per alcune garanzie fondamentali (ad esempio in materia di protezione dei dati personali, alla stregua del regolamento generale dell’Unione n. 679/2016). È tuttavia necessario che questo nucleo di tutele minime universali venga rafforzato ed esteso, anche in direzioni tradizionalmente trascurate, quando non addirittura guardate con un certo sfavore, dall’ordinamento euro-unitario (si pesi al nodo, tuttora irrisolto, dei diritti di azione e contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi, sul quale pesa la tradizionale interpretazione di marca liberale del diritto antitrust europeo fatta propria dalla Corte di giustizia).

La Commissione sembra avere piena consapevolezza di questa esigenza, e nell’avviare la prima fase di consultazione delle parti sociali europee sollecita per questo un confronto a largo spettro su tutte le principali questioni poste dalla nuova sfida della rivoluzione digitale in corso. È opportunamente menzionato anche l’importante aspetto dell’auto-regolazione collettiva di queste nuove forme di lavoro, nella consapevolezza che il ruolo negoziale delle organizzazioni sindacali non potrebbe svilupparsi in modo adeguato senza superare le incongrue strozzature derivanti dal diritto della concorrenza.

Ma il compito decisivo spetta, come sempre, alla legge: è a questa – e quindi, a livello dell’Unione, ad una auspicata direttiva quadro – che toccherà fissare le regole fondamentali del gioco, nella prospettiva universalistica che sta ormai prendendo corpo nello stesso contesto internazionale (dove offre un esempio particolarmente avanzato il nuovo codice della sicurezza sociale approvato dall’India nel settembre 2020, che contiene una nozione innovativa e inclusiva di lavoro tramite piattaforma).

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