Non solo Grecia. Riflessioni sulle implicazioni del vincolo valutario europeo

Massimiliano Tancioni riflette sulla sostenibilità del vincolo valutario europeo e sottolinea che la vocazione deflazionistica e mercantile della Germania, in un'area valutaria subottimale, deprime economicamente i paesi periferici e sostiene che la revisione in senso federale dell'Europa richiede un approccio di tipo solidaristico, attualmente assente nelle istituzioni e nei governi europei, mentre la ridefinizione del ruolo della BCE non rimuoverebbe le cause profonde degli squilibri.

Umiliare la Grecia per educare la Grecia? Solo analisti amatoriali possono pensare che le condizioni imposte al governo ellenico dalla coalizione Geropea [1. Il termine Geropae viene utilizzato in un articolo di Iustinianus apparso su Limes (n. 4, 2011), per definire una Europa ad egemonia tedesca.] tra il 12 ed il 13 luglio abbiano un obiettivo specifico e strettamente economico-contabile.
Chi pensa che le richieste di intervento fiscale e strutturale aumentino le probabilità di solvibilità del debito “sovrano” deve dimostrare, con dati e teoria alla mano, come ciò sia tecnicamente possibile. Su questo si sono espressi in molti (tra i quali le stesse istituzioni della Troika) e non è il caso di tornarci su.
Il messaggio viene speso sul terreno greco, ma sembra in realtà rivolgersi a tutta la periferia dell’eurozona e ha anche un destinatario specifico: la Francia. L’ipotesi, non originale, è che l’economia più forte dell’area abbia deciso di utilizzare questa fase di squilibrio per spingere il processo di costruzione economica europea in una direzione funzionale al mantenimento del suo modello di sviluppo mercantile.
I tratti essenziali di un tale progetto sono già stati enunciati dalla Germania in due precedenti storici: nel 1914 con il Septemberprogramm, che prevedeva la costituzione di una unione economica mitteleuropea, finalizzata alla stabilizzazione del dominio economico sull’Europa centrale e soprattutto all’annessione economica del mercato francese; nel 1942, quando il progetto fu declinato – per certi versi ironicamente – nell’idea della Europäischen Wirtschaftsgemeinschaft (Comunità economica europea). Gli ideatori del progetto, economisti, ministri, banchiere centrale e industriali del terzo Reich, miravano alla costruzione di un’ampia area di cooperazione economica (Grossraumwirtschaft), che avrebbe incluso i territori allora annessi (tra cui quelli francesi della valle del Reno), i territori assoggettati (il resto della Francia) e quelli alleati. Secondo il progetto, le economie avrebbero anche condiviso una moneta unica (R. Atkinson (2012) – The European Union’s Evil Pedigree: Berlin 1942).
Richiamando questi precedenti non si vuole stabilire un parallelo tra progettazione europea nazista e costruzione europea attuale. Sarebbe sbagliato, oltre che semplicistico, quanto meno perché non considera che le basi ideali erano presenti nella classe politica germanica anche prima della costituzione in stato nazionale nel 1871, e riguardavano la costruzione di un mercato comune e una unione doganale (Zollverein) che, nelle aspirazioni, non si limitasse ai territori germanici, ma includesse tutta l’Europa centrale e i Balcani.
Ma il parallelismo economico è indubbio. I progetti di unificazione passati e presenti, nella declinazione Geropea, sono solo parzialmente ordo-liberali, essendo codificati in una schema marcatamente mercantilista, ossia centrato sull’allargamento dello spazio economico di competenza e non rivolti all’approfondimento della costruzione sociale europea creando un livello ordinamentale non specificamente economico. Non a caso la declinazione sociale dello stesso sistema economico tedesco è stata molto ridimensionata a seguito dell’unificazione e con le riforme dei primi anni duemila.
L’ampliamento dello spazio economico è visto dalla Germania come fattore vitale non per un disegno egemonico in sé, ma perché necessario per il successo e la sopravvivenza stessa della sua struttura produttiva, fortemente centrata sulla compressione della dinamica del costo del lavoro e sulla realizzazione di cospicui surplus di esportazione.
La Germania riunificata è troppo piccola per il mondo e troppo grande per l’equilibrio degli interessi europei.
La politica dell’asse Parigi-Berlino nasconde due interessi e due debolezze: quella tedesca, che deve promuovere il suo progetto vitale con il peso delle responsabilità dell’ultima guerra, e quella francese, che deve assolvere alla sua missione (e necessità) storica del contenimento della potenza economica tedesca simulando di essere un player globale, legittimato dalla finzione della vittoria bellica.
Il tentativo di ingabbiare la Germania riunificata in un trattato che intendeva diluirne il potere, anche e soprattutto attraverso la costruzione di un’area valutaria con una banca centrale europea, sembra fallito.
E’ in questo che l’umiliazione della Grecia, e del suo piano economico di negoziazione non segretamente francese, guarda in realtà all’immediato occidente della Germania. L’appendice balcanica è, sotto questo punto di vista, solo un utile terreno di scontro, in cui si gioca il duplice obiettivo della supremazia in chiave “renana” e del monito agli altri paesi della periferia dell’eurozona.

Euro, BCE e contenimento dell’egemonia economica tedesca. L’ipotesi della diluizione del potere economico-finanziario tedesco nella moneta unica e nella politica monetaria centralizzata si è dimostrata errata, sul piano teorico e alla prova dei fatti.
Come ampiamente previsto, il tasso di inflazione delle economie appartenenti alla periferia dell’eurozona, in cui (tecnicamente) può essere inclusa la Francia, è stato mediamente superiore a quello del centro, a causa della loro struttura produttiva, della fase storica del loro processo di sviluppo (molti paesi erano impegnati nel catching-up dei modelli di consumo e della dotazione infrastrutturale), dei ritardi di adattamento dei sistemi di welfare, nonché della dinamica della domanda innescata dai flussi finanziari che si attivano dal “centro” verso la “periferia”, essendo i primi in surplus commerciale e quindi in cerca di destinazioni remunerative per il loro eccesso di risparmio.
In un situazione in cui la grande maggioranza degli scambi avvengono all’interno dell’area valutaria, il risultato immediato è che il tasso di cambio reale effettivo dei paesi periferici si apprezza (e la competitività si riduce) in misura pressoché pari alla dimensione del gap inflazionistico rispetto al “centro”. Simmetricamente, aumenta la competitività di quest’ultimo.
Nel caso tedesco, il processo di svalutazione reale è stato spinto anche dai processi di deflazione interna innescati, da un lato, dall’annessione economica della DDR e della proiezione produttiva verso est che questa le ha consentito, dall’altro, dalle riforme deflazionistiche del mercato del lavoro dei primi anni duemila.
La figura 1 mostra la dimensione del disallineamento di competitività dei PIIGS, della Francia e della Germania, confrontando l’evoluzione dei prezzi relativi del lavoro (costi unitari relativi, grafico a sinistra) e del consumo (grafico a destra), dall’introduzione della moneta unica ad oggi. Rispetto al 1999, il gap di competitività nel costo relativo del lavoro accumulato prima della crisi rispetto alla Germania si colloca tra il 20% (Francia) e il 40% (Portogallo).
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Le variazioni di competitività sperimentate definiscono per necessità l’evoluzione del saldo commerciale dei paesi dell’area. La figura 2 mostra il saldo commerciale rispetto al PIL nei diversi paesi, dalla quale emerge che la dinamica francese non si discosta da quella italiana, se non a partire dal 2011, quando iniziò la “distruzione di domanda interna” italiana (cit. Monti) con le ben note misure di austerità. La stessa evoluzione, e le stesse politiche, caratterizzano l’andamento del saldo commerciale delle altre economie periferiche.
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E’ bene notare che l’inversione di tendenza realizzata nei paesi periferici corrisponde con l’inizio della deflazione interna, conseguente soprattutto alla contrazione del costo del lavoro. E’ altresì utile sottolineare che non si ha un’evoluzione simmetrica in Germania; tutto l’aggiustamento ricade sulla periferia e consiste pressoché interamente nella contrazione delle importazioni, quindi della domanda interna.  In assenza di flessibilità del cambio, l’equilibrio nelle posizioni nette sull’estero (la cumulata dei saldi commerciali) deve ristabilirsi attraverso la deflazione interna nella periferia. In presenza di rigidità nominali, questa si realizzerà attraverso variazioni nelle grandezze macroeconomiche di parte reale e del mercato del lavoro (figura 3).
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Le misure di austerità e le riforme deflazionistiche del mercato del lavoro sono quindi necessarie al mantenimento dell’area valutaria, poiché esse rappresentano lo strumento più immediato ed efficace per ristabilire un equilibrio nelle posizioni nette sull’estero della periferia.  Con lo shock finanziario del 2008, i mercati valutano queste ultime non più sostenibili, e si chiarisce che il vincolo esterno non era stato eliminato dalla moneta unica, perché l’eliminazione del rischio di cambio non implica l’eliminazione di quello di insolvenza. In realtà, le unioni monetarie, annullano un prezzo-segnale (il tasso di cambio) del rischio di insolvenza (o, in chiave macroeconomica, del vincolo esterno), che tende quindi a manifestarsi nel più lungo periodo. Esse possono funzionare solo con una forte flessibilità salariale e un’alta mobilità del lavoro che, diversamente dal periodo del gold standard, oggi sono assenti per effetto delle rigidità connesse all’intervento pubblico in economia, ai sistemi di welfare e alla regolamentazione delle relazioni lavorative. Se nell’area valutaria opera una grande economia a vocazione deflazionistica, le economie che strutturalmente non hanno questa vocazione sono destinate a soccombere per il semplice fatto che la dinamica delle loro esportazioni non rende possibili tassi di crescita e di occupazione di lungo periodo compatibili con il vincolo esterno. Dunque, la diluizione della Germania nell’attuale assetto istituzionale dell’area valutaria europea potrà realizzarsi solo riconvertendo in senso deflazionistico le economie periferiche, cioè rivedendo al ribasso le necessità presenti e le aspirazioni future di qualche centinaio di milioni di europei.

Più Europa. Come?  In effetti ci sono almeno due modi per evitare questi esiti: la costruzione di una transfer union, o la monetizzazione dei debiti da parte della banca centrale. La prima opzione, date le differenze strutturali tra i paesi dell’eurozona, implica trasferimenti persistenti nord-sud, diretti all’ampliamento della capacità produttiva delle aree di destinazione. Anche ammettendo che i trasferimenti si realizzino sotto forma di investimenti produttivi, è difficile pensare che in tempi ragionevoli essi possano rendere le aree più arretrate dell’Europa simili alla Lombardia o alla Baviera. Sarebbe, dunque, necessario finanziare gli squilibri connessi ai gap di competitività per periodi sufficientemente lunghi. Per gli stessi motivi, un eventuale assetto federale dovrà necessariamente assumere caratteri solidaristici, poiché la certezza della direzione dei trasferimenti impedisce una soluzione di tipo assicurativo-mutualistica. Il set-up istituzionale europeo e gli eventi di questi ultimi anni, ribaditi con forza in questi giorni, non fanno di certo sperare in una soluzione solidaristica. La seconda opzione, che in sostanza richiede l’acquisto discrezionale di titoli del debito dei paesi della periferia da parte della banca centrale, è una soluzione che, pur essendo in linea di principio percorribile attraverso la revisione dei trattati, non può essere risolutiva. Essa non rimuove le ragioni fondamentali degli squilibri e della divergenza economica tra aree, il che significa che la banca centrale sarebbe costretta a intervenire ogni qualvolta che gli squilibri rendano necessario il loro finanziamento monetario, facendo decadere le ragioni di eccezionalità. Una tale fattispecie incontrerebbe, e di fatto incontra, l’opposizione dei paesi del centro, che hanno un interesse in evidente contrasto con la necessità di inflazionare la periferia, e cioè mantenere inalterato il valore reale dei loro crediti. Un chiaro segnale dell’attuale impossibilità di operare in tal senso si è palesato in fase di definizione del QE della BCE, quando è passata la proposta della coalizione Geropea  di condividere solo il 20% dei rischi del finanziamento e di porre il resto in capo alle banche centrali nazionali. Questa soluzione, introduce un’ulteriore frammentazione finanziaria dell’eurozona ed elementi di rischio accessorio per le economie periferiche. Le banche centrali nazionali rispondono dell’80% profitti e delle perdite connesse alle operazioni di QE, il che limita la quantità di assets che possono creare. In assenza di titoli di qualità, esse rischiamo di non ottenere dal sistema la liquidità di cui hanno bisogno. Willem Buiter, in una recente intervista al Financial Times, ha sostenuto che in queste condizioni l’unione monetaria assume i caratteri del currency board, e di fatto aumenta la probabilità che un paese sia costretto a cambiare regime monetario. Le decisioni prese per far fronte alle difficoltà della Grecia forse un merito lo hanno, quello di rompere l’ultimo tabù delle burocrazie europee e dei governi nazionali. La Grecia (e gli altri paesi a cui è rivolto il messaggio) è stata messa di fronte alla scelta tra due “pene esemplari”: prendersi un’altra dose della medicina che l’ha messa in ginocchio, o uscire dall’eurozona. Nel primo caso, tradotto in italiano, si tratterebbe di oltre cento miliardi di manovra fiscale restrittiva, che si aggiungono ad un ulteriore sfoltimento delle garanzie del lavoro e all’imposizione di un fondo di garanzia – di fatto di liquidazione dei beni pubblici – del tutto identico (sembrerebbe anche nel nome) a quello che ha gestito la cessione ai privati dell’ovest tedesco delle aziende e del patrimonio dell’est dopo l’unificazione. Nessuno è in grado di valutare nei margini di errore convenzionalmente accettati i costi associati al secondo caso, ma tentativi effettuati in analisi circostanziate esistono, e nessuna di esse sembrerebbe fornire una base razionale per la scelta della prima alternativa, i cui alti costi associati hanno invece margini di incertezza molto contenuti. Forse è il caso di impostare un confronto serio sulle implicazioni e le possibilità di abbandono del vincolo valutario.

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