Non è così semplice. I dati sull’occupazione e le riforme del governo

Fabrizio Patriarca e Michele Raitano commentano i dati apparentemente molto favorevoli sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato recentemente forniti dall'INPS e dal Ministero del Lavoro e sottolineano che l'interpretazione delle tendenze in atto e del ruolo giocato dalle riforme è in realtà molto complessa. Un'attenta lettura dei dati porta Patriarca e Raitano a ridimensionare notevolmente il numero di contratti che corrisponderebbero effettivamente a nuova occupazione e a sostenere che se i dati fossero confermati il costo della creazione di nuovi posti di lavoro attraverso gli sgravi contributivi sarebbe esorbitante

Dall’inizio del 2015 i dati sui flussi occupazionali, man mano che vengono resi noti, finiscono sulle prime pagine dei giornali nazionali. La ragione è semplice: da quei dati si cerca di ricavare una prima valutazione sull’efficacia del Jobs Act e dell’introduzione degli sgravi contributivi per chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato.

A una prima lettura, i dati sembrano segnalare una dinamica positiva dell’occupazione a tempo indeterminato. Quelli provenienti dagli archivi del Sistema Informativo delle Comunicazioni Obbligatorie, relativi ad attivazioni, cessazioni e trasformazioni di contratti di lavoro dipendente o parasubordinato (con eccezione del lavoro domestico e del settore pubblico) registrate a marzo 2015 – e pubblicati il 23 aprile dal Ministero del Lavoro  – mostrano che, rispetto a marzo 2014 le attivazioni di contratti a tempo indeterminato e le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato sono aumentate, rispettivamente, di circa 54.000 unità e 18.000 unità. Le elaborazioni sul numero di nuovi contratti di lavoro stipulati nel primo trimestre del 2015 – pubblicate dall’INPS l’11 maggio l’INPS   e che non includono i flussi relativi al settore pubblico, ai lavoratori domestici e agricoli e ai parasubordinati – riportano una crescita delle attivazioni di contratti a tempo indeterminato di circa 91.000 unità rispetto al primo trimestre 2014.

La crescita delle assunzioni a tempo indeterminato segnalata da questi dati è stata immediatamente interpretata dalla quasi totalità della stampa nazionale e da importanti esponenti del Governo come un inequivocabile segnale del successo della riforma del mercato del lavoro. Fra i tanti titoli dei quotidiani del giorno successivo alla diffusione dei dati INPS basta ricordarne due, “Boom dei contratti stabili: più 24% nei primi 3 mesi grazie agli sgravi fiscali” (la Repubblica), “Aumentano i posti fissi: Italia fuori dalla recessione” (Corriere della Sera). Poco prima il Presidente del Consiglio Matteo Renzi in un post dell’11 maggio su Facebook annunciava: “L’Italia riparte grazie al Jobs Act”.

In realtà, i dati finora diffusi andrebbero letti con maggiore cautela, sia perché le basi informative appaiono ancora incomplete – come avvertono nei loro documenti l’INPS e il Ministero del Lavoro – sia, soprattutto, perché l’interpretazione delle tendenze in atto e del ruolo giocato dalle riforme è molto complessa e non può essere desunta dalla semplice differenza tra i dati di due periodi diversi. Vediamo perché.

In primo luogo, i dati dell’ INPS e del Ministero del Lavoro si riferiscono ai contratti e non agli occupati: se, ad esempio, in 3 mesi su uno stesso posto di lavoro si alternasse un lavoratore diverso ogni settimana si registrerebbero 12 attivazioni e 11 cessazioni contrattuali. Al contrario, le statistiche ufficiali sull’occupazione, rilevate dall’ISTAT, osservano l’andamento degli stati occupazionali individuali. Data la diversa natura dell’unità di osservazione, è quindi possibile che, come accaduto ad esempio con i dati di marzo 2015, le Comunicazioni Obbligatorie segnalino una crescita delle attivazioni e, al contempo, l’Istat registri, su base annua, una caduta dell’occupazione.

Inoltre, l’INPS e il Ministero del Lavoro si limitano a confrontare i dati attuali con quelli del corrispondente mese (o trimestre) dell’anno precedente e perciò non è possibile analizzare la serie storica. Va anche detto che, da qualche tempo, sul sito del Ministero del Lavoro non risultano più disponibili i dati delle Comunicazioni Obbligatorie dei mesi precedenti.

La stessa lettura dei giornali non aiuta a costruire un quadro preciso dell’andamento dei flussi occupazionali, dal momento che, ponendo l’attenzione su diverse componenti di tali flussi e confondendo a volte i totali con le variazioni, spesso si forniscono dati contraddittori. Ecco, ad esempio, alcuni titoli del 12 maggio scorso: “In tre mesi oltre 600.000 assunti a tempo indeterminato” (La Stampa); “Oltre 203 mila contratti a tempo indeterminato, incluse le conversioni da precariato e apprendistato” (la Repubblica); “Le assunzioni a tempo indeterminato sono state 470.785” (Il Sole 24 Ore)”.

Ma quanti sono effettivamente i nuovi contratti a tempo indeterminato? Quanti fra questi sarebbero stati presumibilmente stipulati anche in assenza degli sgravi e quanti, invece, sono dovuti ad essi? E fra questi ultimi quanti consistono in conversioni di contratti atipici in contratti tempo indeterminato (sebbene nella versione light delle tutele crescenti a partire dal 7 marzo 2015) e quanti invece corrispondono a effettiva nuova occupazione?

La risposta a questi quesiti è cruciale, sia per fare ordine nel profluvio di numeri forniti dalla stampa, sia per valutare l’efficacia dell’introduzione degli sgravi in termini di effettiva nuova occupazione.

Come abbiamo ricordato sul Menabò di Etica e Economia, per descrivere le caratteristiche dei flussi contrattuali e valutare l’efficacia degli sgravi bisogna distinguere l’origine dei nuovi contratti a tempo indeterminato. Se si trattasse di contratti a tempo indeterminato che sarebbero stati comunque attivati, il bilancio pubblico subirebbe una perdita netta non compensata da alcun beneficio. Nel caso di trasformazione di contratti atipici, vi sarebbero, come benefici, la possibile maggiore stabilità della relazione contrattuale e le maggiori tutele di welfare in caso di trasformazione di collaborazioni. Tuttavia, la maggiore stabilità sarebbe da dimostrare, sia perché, come segnalato da Franzini e Raitano, i contratti a tempo indeterminato in Italia, già prima della riforma, non erano affatto stabili e sicuri, sia perché il combinato disposto di sgravi e costi di licenziamento previsti dal Jobs Act rende conveniente per un’impresa, come si è già mostrato,  assumere a tempo indeterminato e poi licenziare. I benefici per i lavoratori e, via effetti macroeconomici, per il bilancio pubblico sarebbero invece indubbi se la concessione degli sgravi contribuisse a realizzare nuova occupazione.

I dati forniti dall’INPS segnalano che nel primo trimestre 2015 sono stati attivati 470.000 nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato a cui vanno aggiunte 149.000 trasformazioni da contratti a termine o apprendistato. Come detto, per stimare il numero di contratti al netto di quelli che sarebbero stati comunque attivati, bisogna guardare la variazione rispetto al primo trimestre del 2014: dai dati INPS risulta una crescita di 98.000 contratti a tempo indeterminato (91.000 attivazioni e 7.000 trasformazioni in più). Tale crescita, anche al netto delle 7.000 trasformazioni, non può però essere interamente imputata a nuova occupazione dal momento che gli stessi dati INPS segnalano che, rispetto al primo trimestre 2014, le assunzioni a tempo determinato e in apprendistato si sono ridotte, rispettivamente, di 32.000 e 9.000 unità. Dai dati forniti dal Ministero del Lavoro si ricava, inoltre, che nello stesso periodo i contratti di collaborazione parasubordinata (non registrati nelle statistiche fornite dall’INPS) si sono ridotti di 19.000 unità.

Dei 91.000 contratti aggiuntivi, 60.000 sembrano quindi imputabili alla scelta delle imprese – presumibilmente in virtù della presenza degli sgravi – di assumere a tempo indeterminato anziché a termine lavoratori che, osservando i trend passati, sarebbero stati comunque assunti, ma attraverso contratti atipici.

Ma, allora, possiamo affermare con certezza che i 31.000 contratti residui costituiscono occupazione aggiuntiva da attribuire agli effetti benefici di sgravi e Jobs Act?

In realtà, per ricostruire (anche se in modo semplificato) una distribuzione “controfattuale” dei contratti che si sarebbero stipulati in assenza di interventi normativi, bisogna considerare che la misura di sgravio si applica per il solo 2015 ed era stata annunciata ben prima che entrasse in vigore. E’ quindi presumibile che il numero di contratti stipulati nei primi mesi del 2015 risenta di un effetto “trascinamento”, dovuto ai contratti a tempo indeterminato che sarebbero stati stipulati negli ultimi mesi del 2014, ma che sono stati posticipati a gennaio per usufruire degli sgravi o, nel caso delle grandi imprese, a marzo per avvantaggiarsi delle nuove forme contrattuali istituite dal Jobs Act.

Effettivamente, dall’osservazione dei flussi occupazionali nel corso del 2013 e del 2014, risulta che nell’ultimo trimestre del 2014 si è avuta una riduzione del numero di attivazioni di contratti a tempo indeterminato non imputabile a semplici fluttuazioni stagionali. Una stima prudenziale condotta sui trend trimestrali del periodo 2013-2014 ci porta a ritenere che l’attivazione di almeno 15.000 contratti a tempo indeterminato sarebbe stata posticipata da fine 2014 a inizio 2015.

Al netto di quest’effetto “trascinamento”, i contratti a tempo indeterminato veramente aggiuntivi scenderebbero, dunque, a circa 16.000 unità (Figura 1). Attribuirli tutti alle misure adottate dal governo sarebbe, peraltro, un po’ arbitrario in considerazione del miglioramento che si è verificato nelle condizioni congiunturali (il lieve miglioramento ciclico è confermato dalla riduzione del numero delle cessazioni dei contratti a tempo indeterminato, che non può discendere dalle modifiche normative perché queste ultime dovrebbero comportare una maggiore dinamicità del mercato del lavoro e, dunque, perlomeno nel lungo periodo, una crescita delle cessazioni).

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Possiamo anche chiederci quali implicazioni abbiano i flussi occupazionali segnalati dai dati dell’ INPS e del Ministero del Lavoro, per la valutazione dell’efficacia degli sgravi contributivi in rapporto ai loro costi.

Al momento l’INPS segnala che 268.000 nuovi contratti a tempo indeterminato hanno usufruito degli sgravi (di cui 61.000 in seguito a trasformazioni di precedenti contratti a termine). La discrepanza fra il numero di attivazioni e trasformazioni e di contratti “con sgravio” dipende dai limiti previsti dalla normativa (gli sgravi non si applicano alle trasformazioni dall’apprendistato e ai nuovi contratti stipulati all’interno dello stesso gruppo industriale, ad esempio in caso di fusioni aziendali) e, presumibilmente, dalla provvisorietà dei dati sui contratti che hanno diritto allo sgravio.

Con una certa dose di ottimismo possiamo assumere che la riduzione di 60.000 contratti da dipendente a termine, da apprendista e da parasubordinato si sia concretata in contratti che hanno usufruito di sgravi; sommando questi contratti ai 61.000 derivanti da trasformazioni, possiamo ipotizzare che sui 268.000 contratti che hanno usufruito di sgravi, 121.000 presentino caratteristiche di maggiore stabilità. Ad essi possono aggiungersi i 16.000 corrispondenti a effettiva nuova occupazione.

Ciò implica che 131.000 contratti a tempo indeterminato sarebbero comunque stati stipulati: in questi casi l’esonero contributivo consisterebbe in un puro trasferimento redistributivo a vantaggio delle imprese, che, applicando le stesse ipotesi di stima utilizzate in un nostro precedente contributo relativamente al costo medio per ogni contratto incentivato (al netto della riduzione delle deduzioni IRES), comporterebbe un costo netto annuo sul bilancio pubblico (in termini di minori entrate) pari a 570 milioni di Euro.

In totale, il costo annuo per il bilancio pubblico di 268.000 contratti incentivati sarebbe di 1,17 miliardi di Euro. Di conseguenza, ognuno dei 137.000 contratti nuovi o stabili costerebbe al contribuente italiano 8.500 Euro per un triennio. Ma, come sottolineato, la maggiore stabilità dei nuovi contratti è tutta da verificare. Se ci limitiamo a considerare la nuova occupazione effettiva qui stimata, il costo della manovra per ognuno dei 16.000 nuovi contratti (ovvero il 6% dei contratti che usufruiscono degli sgravi) sarebbe addirittura pari a 73.000 Euro l’anno per un triennio. E, in base a questo scenario, se le misure di sgravio non modificassero i comportamenti delle imprese relativi alla stabilità dei lavoratori e alle loro scelte future di investimento, il 94% della spesa per i contratti che finora hanno usufruito di sgravi – 1,1 miliardi di Euro su base annua – rappresenterebbe un puro trasferimento redistributivo a vantaggio delle imprese.

In conclusione, la complessa articolazione del nostro mercato del lavoro e la pluralità (e incompletezza) delle fonti statistiche rendono estremamente difficile pronunciarsi con precisione sull’influenza che le misure del governo possono avere avuto sull’occupazione. E’, comunque, certo che quasi tutti i molto incoraggianti numeri che hanno circolato nelle scorse settimane sono errati per (un non moderato) eccesso. Ed è, allo stesso modo, quasi certo che con le misure adottate il costo della creazione di veri nuovi posti di lavoro rischia di essere esorbitante.

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