Nel quadro dei convegni sulla crisi. L’incontro con Giorgio Ruffolo

Il tema lo aveva indicato lo stesso Ruffolo: “La crisi: tornare a Keynes?” E da questo interrogativo Giorgio Ruffolo è partito nell’aprire l’incontro svoltosi il 23 marzo nella bella sala del Palazzo Baldassini a Roma per iniziativa di “Etica ed Economia”. Erano presenti vecchi e giovani soci, universitari, professori d’economia, managers, lavoratori.

Ruffolo ha immediatamente chiarito che sbaglierebbe chi intendesse il ritorno a Keynes come un ritorno alla “Teoria Generale”: troppe cose sono cambiate da allora nel modo di produzione. Ma se tornare a Keynes significa tornare allo spirito con cui Keynes elaborò le sue proposte per Bretton Woods – dove invece prevalsero le idee di White, il dominio del dollaro su ogni altra valuta e regole troppo lasche – e alla necessità da lui affermata di porre i fini avanti ai mezzi, allora sì.

Tra le cose che sono cambiate c’è la globalizzazione con la quale si chiude un’epoca, l’epoca dell’economia della polis e degli Stati, l’epoca in cui mercati e Stati si sono integrati reciprocamente,  l’epoca della moneta ancora non trasformata in merce. La mercificazione della moneta ha generato domanda di liquidità e sistematico indebitamento cioè una mercatizzazione del tempo futuro, con una domanda di liquidità fronteggiata creando nuova liquidità. La crisi nasce da qui, ma da qui nasce anche l’impossibilità di risolverla con le ricette di Keynes anche se rimane valida la sua indicazione di una moneta mondiale unica con una disciplina fissata da un accordo politico.

Per questo occorre cercare strade nuove il che non può essere compito dei soli economisti. L’economia non è scoperta di norme implicite nella realtà ma è scienza più complessa. Concepire le regole dell’economia come frutto di un moto naturale porta inevitabilmente a posizioni di lasciar fare. Non a caso Adam Smith fu, come Aristotele, filosofo ed economista ed affermò la necessità di garantire la libera concorrenza con la mano visibile dello Stato.

Oggi occorre andare oltre anche per porre rimedio alla totale mancanza di realismo del modello neoclassico dell’equilibrio generale nel quale scompaiono tutti i fattori che interessano la persona umana e dove l’unico valore affermato è la crescita del prodotto lordo.

Dopo essersi soffermato a ricordare che la crescita è solo un mezzo per conseguire i fini cui si mira e che la crescita è a sua volta condizionata dalla finitezza delle risorse del pianeta, Ruffolo ha sostenuto che oggi, a fronte della crisi c’è un grave ritardo nel dar risposta ai problemi. Si continua così ad insistere sulla necessità di tornare ad una forte crescita del PIL senza chiarire in funzione di quali fini si cerca la crescita. E in nome della crescita si continua a mercatizzare le regole aprendo larghi spazi a vera e propria criminalità economica.

Sulla relazione di Ruffolo si è aperto il dibattito nel quale sono intervenuti Roberto Vacca, Marcello Colitti, Carla Ravaioli, Gilberto Seravalli, Fabrizio Barca, Maurizio Franzini, Marco Magnani, Francesco Zollino. Tutti gli interventi si sono mossi nella stessa direzione di Ruffolo portando nuove argomentazioni e sottolineando questo o quell’aspetto del tema di fondo: come dare priorità all’essere rispetto all’avere. Sono stati ricordati i primi passi compiuti nella definizione e ricerca di una “crescita accettabile” (Franzini), fasi in cui lo stesso capitalismo ha prodotto “l’essere” fronteggiando la fame, abbattendo malattie terribili, allungando la durata della vita e la necessità di una maggiore eguaglianza: “qualcuno deve andare indietro perché altro possa andare avanti” (F. Barca), i mutamenti in atto nel rapporto tra i vari settori economici (Vacca), finitezza delle risorse naturali e necessità di salvaguardarle, necessità di operare anche per questo in direzione di una globalizzazione politica (Ravaioli), il fatto che si deve aver consapevolezza che ogni limite all’attività economica è anche, direttamente o indirettamente, un limite alle libertà dell’uomo (Colitti), Keynes e la sua intuizione dell’ampiezza della svolta da fare (Magnani, Zollino).

Nelle sue conclusioni Ruffolo ha ripreso vari temi. In primo luogo i temi relativi al ruolo dell’economia. La scuola classica a partire da Smith ha fondato il valore delle merci non solo sulla quantità ma anche sulla qualità del lavoro necessario: la contraddizione è nel fatto che la qualità non può essere definita dall’economia.

L’economia può definire tutto ciò che a che fare con l’avere, ma nel giudizio di qualità interviene la definizione dei fini e dunque l’essere. La definizione delle finalità non può che avvenire sul terreno di una morale, religiosa o civica. E’ la morale, è l’etica che deve dettarci quali sono le cose che vanno limitate e quelle che non possono essere limitate. Scienza e conoscenza sono tra le cose che non possono essere limitate e che possono aiutarci a fissare dei punti di riferimento. La limitatezza delle risorse e la necessità di porre limiti ecologici è certamente uno dei punti di riferimento da assumere in funzione di un equilibrio dinamico.

Ruffolo ha ricordato che la crisi è nata con la Thatcher e con la liberalizzazione del movimento dei capitali in una fase in cui nuovi mezzi di comunicazione non potevano che moltiplicare tali movimenti. E’ a causa di ciò che finanza e moneta hanno preso il sopravvento sull’economia reale cui oggi va restituito con adeguate regole il ruolo primario.

E’ importante acquisire tuttavia che la crescita non significa di per sè progresso. La crescita è un puro mezzo quantitativo e il progresso non è certamente misurabile con il PIL. Per misurare il progresso occorre definire indicatori capaci di tener conto della qualità, della salute sociale, del cammino compiuto verso fini condivisi dalla società.

Ha colto nel dibattito la spinta verso una maggiore ugualianza. Personalmente preferisce parlare non di uguaglianza ma di equità, di proporzionalità nella distribuzione delle risorse. La crisi ha distrutto enormi risorse e dobbiamo fare i conti con ciò ricordando tuttavia che i miglioramenti per cui dobbiamo operare vanno definiti in termini di qualità e di priorità e che pertanto vanno definiti dalla politica. E qui in un mondo globalizzato si pone l’assoluta esigenza dell’accordo politico di cui parlava Keynes.

Purtroppo c’ è un ritardo generale nell’affrontare tali problemi. Non mancano solo le risposte. Mancano anche le domande cui va data risposta.

Luciano Barca a nome di Etica ed Economia ha ringraziato Giorgio Ruffolo per il contributo dato da lui e da tutti gli intervenuti alla ricerca che l’Associazione va conducendo sulla crisi e sulle vie per uscirne.

Condivide la linea emersa dall’incontro ma non il pessimismo del giudizio di Ruffolo. A parere di Barca non solo alcune domande sono già state poste ma in varie parti del mondo cominciano a venire alcune risposte. La Cina ha dovuto affrontare giganteschi problemi quantitativi ma oggi avanza anche sul terreno della qualità. E gli Stati Uniti hanno proprio in questi giorni, con la riforma sanitaria voluta da Obama, affrontato anch’essi un grande problema etico e qualitativo.

Condizione perché domande e risposte vengano anche dall’Italia è che la politica riassuma il ruolo che deve avere. Chi deve definire gli obiettivi? Li deve definire la politica. Ma perché questo avvenga è necessario, così come la Costituzione prevede, che si ricostituisca un tessuto che consenta a livello del territorio e di organizzazioni quella socializzazione della politica che per decenni, pur tra errori, i partiti di massa e le loro sezioni, i sindacati, i Comuni, il volontariato hanno garantito. E qui può essere importante anche l’azione che comunità e gruppi possono svolgere. Non si dimentichi che conquiste di qualità sono sì state realizzate dai grandi partiti ma che la scintilla, poi raccolta, è sempre partita da gruppi e comunità: dalla questione femminile al diritto di famiglia, dal servizio sanitario alla abolizione della mezzadria, dallo Statuto dei diritti dei lavoratori ai piani regolatori delle città. 

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