Nascita del secondo gruppo bancario d’Europa
Con una operazione tutta cattolica, ma non sgradita al centro sinistra, anche perché ideata da banchieri di grande prestigio, si sono fuse Unicredit e Capitalia, dando vita ad una banca che diviene la seconda in Europa.
E’ indubbio che, con l’operazione, il controllo e il peso delle banche sull’economia italiana si accresce, tanto più che il nuovo gruppo ha di fatto il controllo di Mediobanca ed è presente nelle Generali di Trieste che a loro volta sono presenti in RCS (Corriere della Sera e Rizzoli) e nel gruppo Intesa, concorrente di Unicredito. Se la democrazia italiana fosse più forte e la socializzazione della politica non fosse in piena crisi, se il Parlamento fosse ancora il detentore vero del potere legislativo, l’evento, tuttavia, potrebbe non preoccupare. Se l’operazione, che ha portato alla nascita di “una concentrazione di dimensioni senza precedenti in Italia”, preoccupa è perché questi fondamenti della democrazia sono più che corrosi; prima a causa del populismo berlusconiano, poi, a causa della navigazione a vista del governo di centro sinistra. Ma di ciò non si può dar carico alle banche che fanno il loro mestiere; si deve piuttosto dar carico a chi ha presieduto e presiede il governo e a chi invece di ascoltare la voce organizzata dei cittadini bada ai propri interessi e ascolta i salotti e questo o quel cardinale. E’ in primo luogo dal quadro politico che nasce una situazione in cui, come annota Marco Chiti nel libro scritto con il padre Vannino (Nostalgia del domani) “la vita è costellata di molti punti interrogativi e pochi, pochissimi punti fermi.”
Detto ciò, affinché qualcuno – ma chi? – raccolga la sfida, non si può non riconoscere che la costruzione di una grande banca capace di essere insieme una banca italiana ed una banca europea, presenta anche aspetti indubbiamente positivi. In primo luogo ha chiuso la strada all’acquisizione di Capitalia da parte della Abn Ambro e anche all’acquisizione da parte della Banca Intesa, molto prossima al Vaticano, anche se diretta anch’essa da un uomo di grande prestigio come Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di sorveglianza, la cui voce critica è risuonata più volte, negli anni scorsi, nella grande sala della Banca d’Italia. In secondo luogo, essa colloca il sistema bancario italiano, senza timore di subalternità e scosse, sul mercato mondiale, conquistando all’Italia una faccia certamente diversa da quella di Telecom o Alitalia. Non si tratta di poco come conclusione di un processo che ha visto in campo bancario performances che nessuno avrebbe potuto immaginare.
Prevalgono gli aspetti positivi o quelli negativi? Molto dipenderà da come la banca sarà gestita e dal mantenimento di alcuni impegni che i banchieri Profumo e Geronzi hanno assunto, anche su pressing della Banca Intesa.
L’interesse maggiore è per la strategia che la nuova megabanca adotterà e per la capacità di Unicredit Group di realizzare tutte le sinergie necessarie al fine non tanto e non solo di creare maggior valore per i propri azionisti, ma di ridurre il costo del denaro per i cittadini e per le imprese e offrire loro una qualità di sevizi di livello veramente europeo. L’Italia e’ ancora un paese a bassa efficienza generale e sarebbe importante che quanti hanno acquisito più potere reale di un ministro della Repubblica diano un esempio e perseguano l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di esso. Ci sono state altre fusioni bancarie che non hanno dato positivi risultati e che sono servite solo ad arricchire qualche speculatore oltre che i promotori delle fusioni stesse. L’augurio è che il secondo gruppo bancario d’Europa sappia dare un esempio e uno stimolo.Ma altri punti interessano: tra essi in primo luogo l’eliminazione dei conflitti d’interesse che caratterizzano la tela di ragno su cui l’operazione ha richiamato l’attenzione degli italiani. Si tratta in primo luogo di Mediobanca e delle Generali e delle “partecipazioni significative” che il nuovo gruppo ha o che acquisisce con l’operazione di fusione.
Il nodo di Mediobanca è il più grave: come garantire che la storica merchant bank del capitalismo italiano possa operare in autonomia e indipendenza nel momento in cui si sommano la quota azionaria delle vecchio Unicredit (8,828 per cento) e la quota di Capitalia (9,6°3)? Non sarà facile trovare una soluzione anche se Unicredit Group si è già impegnato a ridurre la partecipazione complessiva al 9 per cento. Bazoli ha sfidato UniCredit a ridurre in modo più significativo la quota, affermando che “altrimenti sarebbe meglio che Mediobanca diventi, a tutti gli effetti la merchant bank del gruppo Unicredit”. Si tratta di una affermazione evidentemente paradossale, ma che pone in chiara luce l’entità dei problemi da risolvere, tanto più nel momento in cui Geronzi, uno dei due autori della fusione, andrà a presiedere la merchant bank di piazzetta Cuccia..Tra tali problemi c’è, come ricordavo, anche quello di Generali che non è solo una storica società assicurativa, ma uno snodo importante del capitale finanziario italiano. Il gruppo UniCredit detiene ora il il 6% delle Generali che a loro volta detengono oltre il 5 per cento delle azioni di Banca Intesa. Ciò, dice giustamente Bazoli, crea una contraddizione clamorosa: UniCredit entra in qualche modo in casa del gruppo concorrente di Banca Intesa che ha le Generali non solo come azionista, ma anche come socio con un accordo strategico di collaborazione. Su questo punto, tuttavia, UniCredit ha già dato garanzie annunciando l’uscita dal capitale delle Generali entro l’anno.
Per il problema di RCS e cioè del “Corriere della Sera”, il più importante giornale italiano, il gruppo dirigente di UniCredit.ha invece dichiarato che intende conservare il 2 per cento di Rcs.
Come si vede i nodi sono molti. E, a fronte di essi, c’è una politica in crisi. Mentre i grandi gruppi finanziari e bancari si rafforzano a fronte di una industria manifatturiera rachitica e di cui sono spesso proprietarie effettive le stesse banche i partiti della seconda repubblica si disgregano. E ciò indebolisce sia quella capacità di intervento che, senza ledere l’autonomia della sfera economica, serve a creare sia un clima di chiarezza e trasparenza, sia quei controlli senza i quali il mercato non esiste.
Luciano Barca