Nadiya, Ucraina

Cristina Duranti attraverso il racconto del suo incontro e della sua amicizia con una donna ucraina dal sorriso inscalfibile ci fa riflettere su come la guerra abbia investito all’improvviso anche la quotidianità e gli affetti di tante famiglie italiane con le quali migliaia di donne ucraine hanno creato legami profondi di vita e di cultura.

Per passione e per lavoro, mi trovo spesso a raccontare delle crisi umanitarie, dei conflitti e delle guerre lontane, cercando di far capire l’impatto sulla vita di tutti i giorni delle persone più fragili. Tentando di suscitare un pizzico di empatia e sicuramente, il più delle volte, risultando estremamente noiosa.

Ricordare le crisi terribili che stanno vivendo proprio adesso i popoli del Myanmar, dell’Etiopia, dello Yemen, del Libano, solo per citare alcuni dei peggiori, è davvero difficile, se non si riesce a tessere un filo, per quanto sottile, tra la nostra quotidianità, tra quello che ci tocca come individui nelle emozioni profonde, e quello che succede lontanissimo da noi a persone in tutto simili a noi.

Per questo oggi voglio raccontare di una di queste crisi che tocca anche me, davvero da vicino.

Dodici, quasi tredici, anni fa, senza ancora averlo capito, la nostra micro-famiglia si era già allargata ancor prima che arrivassero Tilda&Tea. Nadiya si era presentata ai primi di settembre col suo sorriso inscalfibile e aveva preso servizio e controllo del caos pre-natale che regnava in casa nostra.

All’epoca ci facemmo poco caso, ma la sua storia sembrava già uscita da un romanzo. Ricostruendo tutti i pezzi, e sommandoli agli aggiornamenti odierni, dovremmo davvero farglielo scrivere.

Nadiya non aveva bisogno di lasciare l’Ucraina, era felicissima di continuare a gestire la sua piccola fattoria, guidare il camion e sfornare manicaretti a base di verza e crepes a tutti i matrimoni del paese.

Non che nella sua vita fossero mancate esperienze in terra straniera. A Leopoli, la sua famiglia aveva subito arresti e deportazioni dai nazisti prima e dai sovietici poi. Un nonno di qua in Polonia, una nonna di là in Siberia. In casa si mescolavano, come è comune in questa regione di confine, Russo, Ucraino e Polacco, le preghiere cattoliche e ortodosse. Per non sbagliarsi e non far torto a nessuno, si festeggiavano le ricorrenze di entrambe le confessioni.

La vita post-sovietica non doveva essere stata rose e fiori, ma da lei non ho mai sentito grandi lamentele, solo un pizzico di nostalgia. Al contrario, quando raccontava del periodo sovietico, in cui sua nonna doveva lasciare “ai russi” metà del raccolto e il vitellino appena nato, provava ancora una certa rabbia.

Comunque l’Italia a fine anni Novanta non era nel suo orizzonte, come lo era invece per tante sue connazionali. Ma il piccolo di casa ad un certo punto comincia ad ammalarsi e nel suo paese nessuno riesce a capire come curarlo.

Nadya entra nella modalità iper-intraprendente in cui l’abbiamo conosciuta noi e decide di trovare un modo per farlo venire in Italia, dove le hanno detto che potranno curarlo. Riesce a farlo partire un’estate insieme ai “ragazzi di Chernobyl”. Ovviamente lo accompagna e grazie alla sua creatività e infinita parlantina, convince i medici del Bambin Gesù a curarlo e tenerlo a Roma il tempo necessario a guarire. Nel frattempo, si trova un lavoro, per mantenere se stessa e il bambino.

Roma le piace. Mi racconta che nei fine settimana liberi, prendeva l’autobus che fa il giro più lungo, per godersi la città. Il bambino guarisce (oggi è un gigante) e torna in Ucraina. Nadiya però decide di rimanere. Le famiglie per cui lavora le vogliono molto bene e lei riesce a mandare soldi a casa. Intravede possibilità migliori per tutti restando in Italia.

Dieci anno dopo incontra noi e nel giro di pochi mesi, in quello stesso reparto di quello stesso ospedale in cui era cominciata la sua vita romana, passerà di nuovo lunghi giorni e lunghe notti, ad assistere la mia di bambina, che è anche un po’ la sua.

In questi 12 anni abbiamo vissuto insieme molte gioie, ma anche piccole e grandi tragedie della sua e della mia famiglia, che avrebbero spezzato chiunque.

Lei ha affrontato le sue sempre con un sorriso disarmante, colorato dal blu dei suoi occhi e dai capelli d’oro. Non c’è stato un giorno che non sia entrata in casa nostra senza quel sorriso. Abbiamo festeggiato matrimoni, battesimi, comunioni. Abbiamo riso dei suoi rimedi a base di vodka che guariscono qualsiasi malattia. Abbiamo mangiato quintali di verza in tutte le salse e torte di mele di sua invenzione, soprannominate “svuotafrigo”.

Con lei accanto a me, sono riuscita a portare avanti una famiglia complicatissima e un lavoro altrettanto impegnativo. E’ la mamma “di pancia” che io a volte non riesco ad essere per le mie figlie, che sa piangere e ridere con loro, senza starci a ragionare troppo su. Le sue nipotine lontane, di nonna giovanissima, sono cresciute insieme alle mie figlie. Abbiamo riso fino alle lacrime quando a tre anni alla sua nipote più piccola già non entravano più i vestiti e le scarpine delle mie figlie di 5 anni più grandi, perché dal gigante non poteva che nascere una piccola gigantessa dagli occhi blu.

Ecco, la piccola gigantessa, mercoledì notte invece di dormire serena insieme all’altra sua nonna, si è dovuta alzare in fretta, fare una borsa per partire e tornare chissà quando. Ha dovuto aspettare sei-sette ore in fila per scappare dalle bombe, uscendo dal confine che dista solo 30 km. E poi altri due giorni di viaggio per arrivare finalmente dalla sua mamma a Praga. Non sono riuscite a prendere nulla, ma la piccola non ha rinunciato al suo borsone pieno di peluche. Ha viaggiato senza mangiare e senza dormire. Ma alla nonna Nadiya ha gridato tutta la sua felicità di non dover sentire più le sirene e i botti e di aver portato in salvo i suoi peluche.

Sicuramente lo ha raccontato con un sorriso inscalfibile come quello di Nadiya.

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