Multinazionali che eludono il fisco: quali strategie di contrasto?

Chiara Carrozza si occupa del tema dell'elusione delle imposte da parte delle grandi imprese multinazionali. Dopo avere illustrato alcuni dati dai quali risulta che si tratta di un fenomeno esteso e in crescita e dopo aver elencato i principali fattori che possono determinarlo, Carrozza ripercorre le principali strategie di contrasto introdotte in sede Ocse e in sede di Unione Europea e offre elementi per una loro valutazione critica.

Con l’intensificarsi della globalizzazione e, in particolare, con la crescente integrazione dei mercati dei capitali,  le società appartenenti ai grandi gruppi multinazionali riescono sempre più ad eludere il fisco. Si tratta di un fenomeno strettamente collegato alla concorrenza fiscale, sia essa nella forma definita dannosa oppure in quella considerata lecita. Pur essendo spesso difficile distinguere in pratica  le due forme, la concorrenza fiscale dannosa si caratterizza per essere specificamente diretta ad attirare attività estere,  mobili a livello internazionale, mentre la concorrenza fiscale lecita si sviluppa fra paesi con schemi diversi di imposizione societaria (in assenza, dunque, di un regime esplicitamente preferenziale per le imprese estere). In quest’ultimo caso, le multinazionali, anche attraverso complessi schemi di pianificazione fiscale, definiti aggressivi dall’ OCSE, sfruttano le differenze presenti nei diversi ordinamenti al fine di minimizzare l’onere tributario.

Al riguardo, appare paradigmatica l’esperienza degli Stati Uniti, sede di alcune tra le più grandi multinazionali, come  Google e Apple. La tabella seguente, relativa al peso dei  profitti dichiarati da imprese multinazionali americane sul PIL di paesi considerati paradisi fiscali e/o  a bassa tassazione societaria,  nel 2004 e nel 2010,  testimonia  la crescente importanza del fenomeno.

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I rischi di elusione da parte delle multinazionali sono, tuttavia, in crescita ovunque e non soltanto negli Stati Uniti.  Ciò ha indotto sia l’OCSE sia l’Unione Europea allo sviluppo di misure di contrasto finalizzate ad evitare lo spostamento fittizio di utili e la più complessiva erosione della base imponibile, tanto con riferimento alle pratiche di concorrenza fiscale dannosa quanto relativamente alle strategie di pianificazione aggressiva. E’, infatti,  necessario che tali azioni si svolgano sotto comuni linee-guida internazionali, poiché azioni non coordinate da parte di ciascuna giurisdizione non avrebbero efficacia.

A tal fine, l’OCSE e l’Unione Europea hanno fatto leva, innanzitutto, sullo strumento delle  raccomandazioni rivolte agli Stati membri con riguardo a provvedimenti da adottare nelle normative nazionali interne, sulle convenzioni fra paesi e sulla più complessiva cooperazione internazionale. Da ultimo, il 19 febbraio 2013, l’ OCSE ha pubblicato un piano d’azione (Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting) che  identifica quindici misure dirette a fornire ai governi gli strumenti necessari per combattere il fenomeno in questione.

In concreto, numerosi paesi hanno introdotto norme volte a garantire l’effettiva tassazione degli utili realizzati dalle società multinazionali e ad impedire lo spostamento dei profitti verso i paesi caratterizzati da un minore livello di imposizione tributaria. Cruciali, al riguardo, si è dimostrata la normativa relativa alle Controlled Foreign Companies e alla sottocapitalizzazione delle imprese. Nel primo caso, si tratta di una disciplina che prevede la tassazione, in capo alla controllante residente, degli utili prodotti da società controllate localizzate in paesi che applicano sistemi fiscali privilegiati. La normativa sulla sottocapitalizzazione, invece, prevede un limite alla deducibilità degli interessi relativi a finanziamenti infra-gruppo finalizzato ad impedire l’”eccessivo” ricorso all’indebitamento tra società appartenenti allo stesso gruppo.

A livello europeo, i provvedimenti di maggiore rilevanza sono costituiti dalla direttiva 200349CE e dalla direttiva risparmio 200348CE. La prima riguarda i pagamenti di interessi e royalties tra società appartenenti allo stesso gruppo e prevede l’eliminazione delle ritenute d’imposta alla fonte, assoggettando ad imposizione tali pagamenti soltanto nel paese  in cui sono localizzate le società che ne beneficiano. La seconda concerne la tassazione dei redditi da risparmio, in considerazione del rischio che, in un contesto di completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, tali redditi sfuggano al fisco. La direttiva intende garantire la tassazione nel paese in cui risiede il beneficiario effettivo attraverso un regime ordinario di trasmissione delle informazioni sui pagamenti.

Inoltre, grande attenzione è stata dedicata al tema della trasparenza e dello scambio di informazioni in ambito fiscale. In materia, si è provveduto alla realizzazione di un comune standard internazionale a cui adeguarsi. Da ultimo, nel febbraio 2014, è stato presentato e approvato dal G20 un nuovo standard che prevede lo scambio di informazioni tra le autorità fiscali di tutto il mondo secondo modalità automatiche, ossia attraverso la trasmissione di dati sistematici su base periodica annuale. Al fine di garantire il rispetto dello standard internazionale sulla trasparenza e sullo scambio di informazioni in materia fiscale, a partire dall’ incontro del G20 tenutosi in Messico nel settembre 2009, è all’opera un’attività di Peer Review, che consiste in un processo di revisione di ciascuna giurisdizione volto alla verifica della concreta attuazione dello standard stesso. Attualmente sono state effettuate  150 review dalle quali emerge che, grazie ad un livello di cooperazione molto alto, si sono verificati  consistenti miglioramenti.

Infine, dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama è venuta, molto di recente, la proposta di applicare  un’aliquota secca del 14% sui profitti esteri delle società multinazionali. Si tratta di un’aliquota non particolarmente alta, che comunque potrebbe portare a risultati significativi. La proposta, ancora in attesa di approvazione da parte del Congresso, offre, come contropartita alla maggioranza repubblicana del Congresso stesso, sia un piano di investimenti in infrastrutture, da realizzare per metà con il gettito realizzato dalla nuova imposta, sia una riduzione dell’aliquota attualmente applicata alle imprese sugli utili realizzati in patria.

Tuttavia, ogni soluzione rischia di rivelarsi inadeguata qualora si rimanga in un contesto di concorrenza fiscale, in cui le azioni dei governi sono volte ad ottenere una posizione di vantaggio rispetto alle altre giurisdizioni.  In questa prospettiva, un’importante strada da prendere in considerazione potrebbe essere quella della tassazione unitaria delle società multinazionali, considerando il gruppo come una singola unità imponibile.

In questo modo, per la determinazione della base imponibile, si farebbe riferimento all’intero reddito consolidato mondiale realizzato dalle società del gruppo, il quale sarebbe tassato unitariamente secondo formule di ripartizione che rispettino l’effettivo peso di ciascun paese nella formazione di quel reddito. In questa direzione, si muove il progetto europeo della Common Consolidated Tax Base, nato nel 2001, in relazione al quale il 16 marzo 2011 è stata presentata una proposta di direttiva alla Commissione Europea. Si tratta di un progetto che prevede l’adozione di una base imponibile calcolata a livello europeo grazie ad un’unica normativa di riferimento. Le proposta, però, per essere approvata, richiede il consenso unanime del Consiglio Europeo.

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