Moonlighting Politicians: la deludente discesa in campo della Società Civile nella Seconda Repubblica

Fabrizio Patriarca esamina un recente articolo di Akcigit, Baslandze e Lotti sulle connessioni tra politici e imprese in Italia. Patriarca, dopo aver messo in luce i pregi del lavoro, che fa uso di molteplici e originali banche dati, e averne illustrato le tesi sugli effetti negativi di tali connessioni, si sofferma sul diffuso fenomeno dei dipendenti-politici e sui vantaggi che questi ultimi portano alle imprese e a se stessi come lavoratori, proponendo anche un’ulteriore spiegazione di questo fenomeno rispetto a quella contenuta nell’articolo.

E’ passato qualche anno da quando Beppe Grillo evocava nelle piazze un Tribunale del popolo che processasse tutti i politici. Qualora il Governo intendesse perseguire i cavalli di battaglia del MoVimento, è bene sapere che la lista c’è già. Si chiama Registro dei Politici Locali, e per tutto il periodo della Seconda Repubblica (dal 1993 al 2014) riporta, i ruoli e i partiti di appartenenza di più di mezzo milione di degli amministratori degli Enti Locali.

Sfruttando anche questi dati, il recente studio di Ufuk Akcigit, Salome Baslandze, e Francesca Lotti, Connecting to Power: Political Connections, Innovation, and Firm Dynamics, affronta il tema della connessioni tra politica e imprese in Italia, analizzando le imprese private che impiegano lavoratori eletti o nominati dalla politica.

Si tratta di un lavoro di analisi magistrale, che mette insieme tramite i codici fiscali informazioni sui lavoratori, le performancee l’attività innovativa delle imprese in cui lavorano i politici, la storia retributiva loro e dell’universo dei lavoratori dipendenti privati e, infine, i risultati elettorali delle coalizioni cui questi politici appartengono. In queste note cercherò di sintetizzare i principali risultati, avanzando anche qualche osservazione critica.

Come gli autori ricordano, il periodo esaminato è quello della cosiddetta Seconda Repubblica, cioè dei profondi cambiamenti successivi a “Mani Pulite” che hanno portato alla fine del vecchio sistema partitocratico. Le novità hanno riguardato l’elezione diretta dei Sindaci o dei Presidenti, il deciso e progressivo processo di decentramento amministrativo, la fiducia nella società civile come presupposto salvifico per ridare una dimensione etica alla politica, il sostanziale declino del sistema di finanziamento pubblico dei partiti e il conseguente ampliamento di quello privato con effetti anche sui metodi di selezione della classe politica.

Lo studio analizza un pezzo di questa storia, considerando i politici eletti e nominati negli Enti Locali, provenienti dal lavoro dipendente del settore privato non agricolo, e le imprese di cui sono dipendenti. Così come i politici dipendenti, anche le imprese con dipendenti politici rappresentano una quota rilevante del totale delle imprese che è anche cresciuta durante il periodo esaminato, come risulta dalla prima delle figure presentate nell’articolo che qui ripropongo.

Quota di grandi imprese con dipendenti politici di alto rango (Sindaci, Presidenti e Vicepresidenti di giunta e di Consiglio, Assessori, Consiglieri Regionali). Da “Connecting to Power: Political Connections, Innovation, and Firm Dynamics”.

 

A mio giudizio il risultato più rilevante – dovuto anche all’analisi di tipo causale sviluppata nell’articolo (per gli amanti del genere si tratta di una strategia di strumentazione basata sulle vittorie con basso margine) – è la prova che il lavoratore politico e la sua impresa estraggono benefici privati. Avere alle dipendenze un lavoratore che viene eletto sindaco, presidente di Municipio o di Regione, Consigliere di Maggioranza o che è nominato Assessore, determina un aumento dell’occupazione, dei profitti e del tasso di sopravvivenza per l’impresa e un aumento medio dei salari futuri di circa il 3% per il lavoratore. In questo modo emerge un canale specifico di estrazione di benefici privati dalla politica, che corrisponde a quello che in letteratura viene chiamato rent seeking. Sia l’impresa che il lavoratore risultano avvantaggiati. Tuttavia la divisione della rendita è piuttosto sbilanciata. Nei calcoli degli autori, al lavoratore eletto spetta solo un quinto del complessivo beneficio dell’impresa.

Sembrerebbe quindi che le speranze di andare oltre la Prima Repubblica grazie alla superiorità morale dei non professionisti della politica siano rimaste deluse. Vi è però almeno una differenza: come si può verificare riandando alle Cronache Giudiziarie dei primi anni ’90, nella Prima Repubblica per ottenere vantaggi le imprese dovevano sostenere costi ben maggiori: i politici lavoratori in fondo costano poco. D’altronde, che il costo della corruzione (per i corruttori, non per la società, naturalmente) fosse diminuito risulta anche da alcune dichiarazioni rese (con soddisfazione) dagli imputati in processi recenti, come quello da poco concluso di Mafia Capitale e quello, ancora in corso, al costruttore Parnasi.

Tornando alla letteratura economica, questi risultati forniscono anche evidenza empirica di come la ricerca di rendite possa guidare le scelte di assunzione di lavoratori indipendentemente dalla produttività attesa, sostenendo disuguaglianze non giustificate dalle diverse abilità produttive (cfr. M.Franzini, F. Patriarca e M. Raitano, 2016)

Per fare luce sul meccanismo di estrazione della rendita dal lavoratore politico è utile ricordare brevemente la legislazione in materia, e più precisamente come sono regolati i rapporti tra imprese e dipendenti politici. La questione non è considerata nell’articolo ma è importante anche per individuare chi paga in realtà questa rendita.

Innanzitutto occorre ricordare che, i lavoratori che sono eletti o nominati, non lavorano o lavorano solo parzialmente presso l’azienda in cui risultano occupati e sono pagati non dall’impresa ma dall’Ente Locale. In particolare, ad eccezione del caso dei comuni sotto i 1000 abitanti, chi è eletto ha diritto in alcuni casi all’aspettativa non retribuita, percependo un indennità di funzione; l’Ente paga i corrispondenti oneri e contributi in luogo dell’impresa, che non sopporta alcun costo. In alternativa, e più comunemente, i lavoratori politici godono di permessi retribuiti, giustificati con la partecipazione a riunioni del Consiglio o delle commissioni. In genere più della metà delle giornate lavorative sono coperte da permessi (almeno un consiglio e tre commissioni a settimana), e (come è emerso dalle indagini recenti della Corte dei Conti), sono molto frequenti i casi in cui, grazie al ricorso continuo ai permessi, le prestazioni lavorative sono interrotte per tutta la durata del mandato.

Chi scrive ha conosciuto un Consigliere Municipale che si vantava di essere andato in pensione (di anzianità) senza aver lavorato neanche un giorno presso l’azienda che lo aveva assunto. In casi come questi l’Ente rimborsa all’azienda tutto il corrispondente costo lordo. Per completare il quadro occorre menzionare anche i permessi non retribuiti ma si tratta di uno strumento poco utilizzato.

Questo sistema è stato oggetto di critiche – e di interventi da parte della Corte dei Conti – a seguito di numerosi casi di frode in cui lavoratori e imprese, in accordo tra loro, dichiaravano retribuzioni maggiori per ottenere e poi dividersi i rimborsi pagati dall’Ente.

Nel loro studio, Akcigit et al. provano l’esistenza di un premio salariale nei 4-5 anni successivi all’elezione del lavoratore; che si tratti o meno di truffa, quel gap, come il resto dello stipendio e dei contributi, lo paga sostanzialmente l’Ente Locale, non l’azienda. Viene da chiedersi come reagirebbero gli elettori di piccoli comuni dissestati se fossero pienamente consapevoli che eleggere un lavoratore che percepisce redditi alti può essere un grave colpo per il bilancio del loro Comune. Si può anche notare, en passant, che il fatto che il lavoratore eletto non lavora regolarmente presso l’azienda e venga retribuito nel modo descritto, può contribuire a spiegare altri risultati dello studio, soprattutto parte dell’analisi causale e descrittiva sulle connessioni e la dinamica dell’occupazione e del valore aggiunto.

Veniamo ora alla parte centrale dello studio che è dedicata ad analizzare le caratteristiche delle imprese che impiegano politici e i settori a cui queste appartengono.

Si tratta soprattutto di grandi imprese[1], poco innovative e con minore produttività, che operano in mercati con meno competitor e con una dinamica più contenuta in termini di entrata e uscita delle imprese. Inoltre, la connessione diretta con politici (vincenti) ha effetti positivi non solo sull’occupazione e sui profitti, ma anche sulle possibilità di sopravvivenza dell’impresa; al contrario, essa non sembra influenzare la produttività del lavoro.

Questi risultati si prestano a due diverse letture. In base alla prima, le connessioni determinano una minore contendibilità del mercato e riducono gli incentivi ad innovare. Ciò è coerente con quanto sostiene la letteratura sul rent-seeking: maggiori barriere all’ingresso in forma di contingentamenti, distribuzione disuguale degli accessi (incluse le turbative d’asta), red tapes, e quant’altro.

La seconda lettura parte da un diverso presupposto che può essere reso in questo modo: i politici non sono “normali lavoratori”. In altri termini, potrebbe esservi un problema di selezione perché chi fa politica può essere in grado, ad esempio, di affrontare meglio le questioni burocratiche che sorgono in una impresa di dimensioni non piccole. Un sostegno a questa interpretazione può venire da un risultato dello studio, e cioè che chi fa politica gode di un premio medio salariale ben più alto di quello attribuibile al fatto di essere stato eletto; la differenza potrebbe dipendere da alcune skill probabilmente possedute dal politico: saper leggere e scrivere una delibera o un bilancio, saper parlare in pubblico, ecc. D’altro canto, però, il fatto che i politici siano meno presenti nelle aziende meno innovative è un evidenza tutt’altro che incoraggiante.

Gli autori dell’articolo fanno propria la prima lettura basata sugli effetti delle connessioni sulla struttura di mercato. Tuttavia nel modello teorico che essi propongono, e che conduce a risultati coerenti con le evidenze empiriche, sono presenti ipotesi che tendono a indebolire questa chiave di lettura. Infatti, la connessione con un politico, contrariamente alle evidenze riportate, è definita in termini di aumento di produttività del lavoro (la connessione genera un effetto proporzionale all’output mentre il pagamento al lavoratore del servizio politico è in somma fissa; invertendo le due ipotesi sulla forma funzionale, tutti i risultati si invertono) e l’effetto negativo sulla struttura di mercato rimane soltanto in termini di minore innovazione; di per sè l’attività di cui il politico e l’imprenditore si dividono i ricavi è, invece, economicamente efficiente.

Ciò implica che l’effetto diretto, cioè la fonte del beneficio privato estratto dall’azienda e/o dal lavoratore, non sia rilevante di per sè e non abbia effetti sull’efficienza. Che gli effetti secondari sulla struttura di mercato siano più o meno rilevanti di quelli diretti, le numerose evidenze riportate nell’articolo individuano un canale ben specifico di distorsione delle scelte pubbliche a favore di interessi di parte.

Le applicazioni del principio dell’astensione, quello per cui gli eletti non debbano partecipare a decisioni che possano coinvolgere i loro interessi specifici, e che dovrebbe tutelare il processo decisionale politico da un caso così evidente di conflitto di interessi, non è evidentemente sufficiente. Nonostante i ripetuti interventi in materia che si sono succeduti (solo dalla Riforma del 2000 la normativa sugli amministratori locali ha subito 25 modifiche sul totale dei suoi 11 articoli), anche casi di abuso di potere così evidenti come il favoreggiamento dell’azienda di cui un politico è dipendente, sono diffusi.

Ci sono poi canali meno diretti e quindi meno evidenziabili, almeno non come il lavoro in oggetto ha il merito di fare, di tutela degli interessi privati specifici tramite la politica locale: il finanziamento privato e le clientele attraverso le preferenze. Su entrambi i fronti la Seconda Repubblica ha scavato profondo, con l’abolizione del finanziamento pubblico, culminata nelle fondazioni che raccolgono soldi per singoli e cordate, e dopo aver tolto le preferenze per il Parlamento dando alle Regioni e dei Comuni poteri sempre più forti e sempre più vicino agli interessi singoli.

In attesa di un lavoro che utilizzi dati poderosi come quelli su cui si basa questo studio per fare luce su questi altri canali, possiamo affermare, sulla base delle conoscenze acquisite finora, che la società civile è scesa in campo, ma non sembra meno eticamente deludente della partitocrazia. La torta da spartire c’è ancora, le dimensioni non sono note, forse sono maggiori, ma la fetta dei politici, dai e dai, è diminuita.

Dedico questo breve articolo a un amico che non c’è più da qualche giorno, Emilio Mancini. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, sa che Emilio è un esempio scolastico, pedagogico, della figura del dirigente-funzionario di Partito grigio e oscuro, da Prima Repubblica. Grigio, come la polvere in una biblioteca, e oscuro, come il dubbio che sostiene l’intelligenza.

[1] Ciò è dovuto anche al fatto che il numero di lavoratori dipendenti politici è una quota molto bassa dei lavoratori, quindi la probabilità di avere almeno una connessione è crescente nella dimensione di impresa e anche il numero di connessioni ha moda uno (la media è 1,7), quindi ha una distribuzione fortemente asimmetrica (questione non affrontata nell’articolo).

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