Modelli di regolazione sociale: prevenire è meglio che curare

Francesco Ferrante e Fabio D’Orlando, richiamandosi a alcuni recenti contributi di economia sperimentale, sostengono che le recessioni generano anche costi non pecuniari (principalmente di natura psicologica). Tali costi non possono essere trascurati nel calcolo del benessere sociale e la loro considerazione porta alla conclusione che le politiche di regolazione dei mercati finalizzate a prevenire e contrastare episodi massicci di disoccupazione sono di gran lunga più efficaci e necessarie per il benessere sociale di quanto normalmente si ritenga

1. Negli ultimi trent’anni le politiche di intervento pubblico nell’economia in generale e quelle di contrasto alle recessioni, in particolare, si sono fatte sempre meno frequenti e incisive. Ciò anche sulla base della diffusa convinzione che porre limiti all’intervento pubblico equivalga a garantire una maggiore crescita economica futura che potrebbe più che compensare le perdite di benessere, in termini di maggiore disoccupazione o più basse retribuzioni, determinate nell’immediato da quelle scelte politiche.
In generale, però, così non è. Sia l’evidenza empirica, sia alcuni recenti contributi di teoria economica, mostrano come la perdita di benessere associata ad una crescente precarietà occupazionale abbia una rilevante componente psicologica, ignorata da gran parte delle teorie tradizionali, che ricade soprattutto sui soggetti più deboli. Ciò rende le politiche di regolazione dei mercati, finalizzate a prevenire e contrastare episodi massicci di disoccupazione, più efficaci e necessarie di quanto comunemente ritenuto.
2. I costi dell’assenza di adeguati strumenti di protezione dell’impiego, che prevengano il licenziamento, possono essere definiti come costi della flessibilità (del mercato del lavoro) ed essere per semplicità suddivisi in pecuniari (o comunque misurabili in termini monetari) e non pecuniari. Tra i costi pecuniari troviamo la perdita di reddito connessa alla disoccupazione, la possibile perdita di reddito derivante dal trovare un’occupazione meno remunerativa, il costo della mobilità geografica, ecc.. Tra i costi non pecuniari troviamo invece i costi psichici, che non sono correlati con le perdite in termini di consumo e dipendono principalmente dai cambiamenti di status, abitudini e stili di vita, nonché dallo stigma sociale, dalla perdita di autostima e di contatti sociali; la rilevanza di questi costi appare confermata tanto dall’evidenza empirica quanto dagli studi sulla felicità (happiness).
Sia i costi pecuniari sia quelli non pecuniari hanno un impatto diverso sui lavoratori a seconda che il mercato del lavoro abbia un assetto istituzionale fondato sulla protezione on the market o su quella on the job. Nel caso di protezione on the market i costi di licenziamento sono bassi, nel senso che le imprese possono variare con estrema facilità la consistenza della loro forza lavoro, ma i lavoratori disoccupati ricevono un sussidio di disoccupazione relativamente generoso; viceversa, nel caso di protezione on the job i costi di licenziamento per le imprese sono elevati e possono giungere sino al divieto di licenziamento, mentre i lavoratori disoccupati non ricevono sussidi o ne ricevono di modesti.
L’evidenza empirica mostra come nei due contesti i flussi in entrata e uscita dalla disoccupazione, così come la durata di quest’ultima, siano diversi: nel caso di protezione on the market la facilità di licenziamento porta le imprese anche ad assumere con facilità (potendosi liberare in qualsiasi momento della forza lavoro indesiderata), ragion per cui i flussi in entrata e uscita dalla disoccupazione sono rilevanti e il lavoratore dovrà aspettarsi numerosi episodi di disoccupazione nella sua vita lavorativa, ma questi episodi saranno di breve durata; viceversa nel caso di protezione on the job la difficoltà (il costo elevato) di licenziamento porta le imprese anche ad assumere con riluttanza (non potendosi liberare in qualsiasi momento della forza lavoro indesiderata), ragion per cui i flussi in entrata e uscita dalla disoccupazione sono più limitati e il lavoratore dovrà aspettarsi pochi episodi di disoccupazione, ma di lunga durata. Tutto ciò implica inoltre che la scelta tra un regime e l’altro non è neutrale rispetto agli interessi delle diverse categorie di lavoratori: la protezione on the job riduce la probabilità dei lavoratori meno qualificati di essere licenziati ma incrementa la durata della disoccupazione per tutti i lavoratori, soprattutto i più qualificati, che generalmente fronteggiano una probabilità minore di perdere il lavoro; al contrario la protezione on the market incrementa la probabilità dei lavoratori meno qualificati di essere licenziati ma riduce la durata della disoccupazione per tutti i lavoratori, soprattutto i più qualificati. Quindi la protezione on the job migliora la posizione relativa dei lavoratori meno qualificati e peggiora quella dei lavoratori più qualificati, mentre la protezione on the market ottiene l’effetto opposto.
I due diversi assetti istituzionali del mercato del lavoro non implicano solo differenze nella frequenza e durata della disoccupazione, e quindi nelle categorie di lavoratori che vedono migliorare la propria posizione relativa, ma anche differenze nelle componenti del costo della disoccupazione che vengono alleviate. Infatti i trasferimenti sociali quali il sussidio di disoccupazione, utilizzati nella protezione on the market, compensano (almeno in parte) le perdite pecuniarie derivanti dal licenziamento, ma non sono progettati per compensare le perdite non pecuniarie; mentre la protezione del posto di lavoro dai licenziamenti, utilizzata nella protezione on the job, così come gli interventi anticiclici attuati dai Governi per prevenire e/o contrastare gli shock e quindi il loro impatto sul mercato del lavoro e sull’occupazione, possono prevenire anche i costi non pecuniari riducendo il numero degli episodi di licenziamento durante la vita lavorativa di ciascuno.
Per studiare il costo complessivo della precarietà e della disoccupazione appaiono di particolare utilità alcuni modelli dell’economia comportamentale, nati per spiegare analiticamente fenomeni specifici studiati dalla psicologia economica: l’adattamento edonico, l’effetto dotazione, la preferenza per lo status quo, l’avversione alla perdita.
La figura 1 descrive l’evoluzione del benessere di un lavoratore in presenza di adattamento edonico, considerando costante il reddito da salario nei periodi di occupazione. Dopo il primo episodio di disoccupazione, il benessere soggettivo crolla drammaticamente; poi lentamente cresce grazie al processo di adattamento, ma non torna mai al livello originario, neppure se il lavoratore ottiene un nuovo impiego. Con perdite irreversibili che tendono a cumularsi episodio di disoccupazione dopo episodio.

ferrante

Il punto di partenza generale dell’analisi dell’adattamento edonico è la constatazione, supportata da ampia evidenza empirica e sperimentale, che il benessere individuale misurato in termini di gradi di felicità o soddisfazione sia influenzato dagli accadimenti positivi e negativi della vita, ma poi nel tempo tenda a tornare al suo livello iniziale o “a regime”, senza però mai riuscirci del tutto. Questo fenomeno può essere proficuamente utilizzato anche per dar conto dell’effetto che gli episodi di disoccupazione hanno sul benessere degli individui: l’impatto negativo sul benessere individuale di numerosi, brevi episodi di disoccupazione sarebbe infatti maggiore (peggiore) rispetto all’impatto sul benessere di pochi, lunghi episodi di disoccupazione. Inoltre, il costo che sarebbe necessario sostenere per compensare i lavoratori della perdita occupazionale sarebbe molto elevato, poiché un sussidio adeguato, teoricamente, potrebbe essere molto superiore all’ultimo salario; e anche l’ottenimento di un nuovo posto di lavoro dopo un periodo di licenziamento potrebbe compensare il lavoratore dell’esperienza del licenziamento solo se il salario fosse sensibilmente più alto rispetto a quello perso.
Numerosi studi si sono anche focalizzati sulla preferenza per lo status quo e sull’effetto dotazione, due concetti legati all’idea che i soggetti siano molto più sensibili a una perdita rispetto a quanto lo siano a un guadagno della stessa entità, il che rende il licenziamento un evento che ha un costo molto alto e difficilmente compensabile: le stesse conclusioni raggiunte con riferimento all’adattamento edonico.
L’avversione alla perdita può spiegare perché politiche basate sul “rigore” come prezzo da pagare oggi in cambio di una maggior crescita e di un maggior reddito in futuro possano essere rifiutate. In presenza di avversione alla perdita infatti le aspettative positive di guadagni derivanti dalla futura (eventuale) crescita e dal futuro (eventuale) maggior reddito possono essere più che compensate dalle aspettative negative assegnate anche a piccole probabilità di riduzione del reddito o ulteriore disoccupazione.
L’avversione alla perdita e l’adattamento edonico sono concetti importanti e generali, ma la loro specifica rilevanza varia da Paese a Paese, perché essi dipendono da elementi come il livello di qualificazione della forza lavoro, il livello di istruzione, la cultura, la religione, ecc. A parità di altre condizioni, un ruolo cruciale nella domanda di protezione è svolto dal livello di formazione e istruzione dei lavoratori: lavoratori più istruiti e formati avranno infatti meno bisogno di, e domanderanno meno, protezione sul posto di lavoro e politiche anticicliche rispetto a lavoratori meno istruiti e formati. Non è così sorprendente che i Paesi con forza lavoro meno formata e istruita, tipicamente quelli del Sud Europa, abbiano problemi molto maggiori nel ridurre le tutele sul mercato del lavoro o nell’abbracciare politiche “rigoriste” rispetto ai Paesi con una forza lavoro più formata e istruita.
3. I cambiamenti nei modelli di regolazione sociale intervenuti negli ultimi trent’anni hanno prodotto un maggiore grado di precarietà per i soggetti più deboli, soprattutto i lavoratori meno qualificati, redistribuendo su questi ultimi il rischio dell’attività economica e migliorando, nel contempo, la posizione relativa e assoluta delle fasce più agiate della popolazione.
L’economia comportamentale offre indicazioni utili a decifrare i termini delle questioni in gioco. Se sono valide le conclusioni qui proposte, in alcune circostanze e in alcuni Paesi il costo della rinuncia a politiche di regolazione dei mercati è particolarmente elevato; inoltre, l’incidenza dei costi non pecuniari della disoccupazione cresce al ridursi del reddito e del livello di istruzione degli individui interessati. Ciò apre la strada, da un lato, a strumenti di tutela dell’occupazione di tipo on the job, dall’altro a politiche di intervento che contrastino le recessioni e, comunque, riducano il loro impatto sul mercato del lavoro. In particolare, poiché la perdita di benessere derivante dal licenziamento può essere compensata solo con un salario maggiore del precedente, o con un sussidio maggiore del salario precedente, si può ritenere che prevenire gli episodi di disoccupazione, impedendo agli shock economici di avere conseguenze sull’occupazione, generi esiti aggregati migliori (e/o sia meno costoso) rispetto a curare la disoccupazione, dopo che si è verificata, con sussidi o anche successive riassunzioni. Ciò vale, evidentemente, soprattutto per i Paesi con forza lavoro meno qualificata e/o meno formata. Un approccio di questo tipo richiederebbe un adeguato grado di coordinamento delle politiche fiscali su scala europea ed un diverso statuto della BCE che ne legittimi l’intervento, come accade negli USA, anche per combattere la disoccupazione.
Non si vuole qui sostenere che la rigidità nei rapporti di lavoro sia un bene. Un eccesso di protezione genera comportamenti opportunistici e lo spostamento del lavoro dai settori tradizionali in contrazione a quelli innovativi in crescita è un fenomeno fisiologico e positivo. Occorre però immaginare meccanismi per governare questi processi minimizzando i disagi che ne derivano soprattutto per i soggetti più deboli, che sono anche quelli che meno godono dei vantaggi potenziali della flessibilità.

* Una versione più estesa di questo saggio si trova in, Rischi, paure e ricerca di certezza nella società contemporanea, a cura di A. Oliverio, Rubbettino, 2015.

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