Modelli di capitalismo e complementarietà istituzionali

Il contributo di Marianna Belloc propone un approfondimento del paradigma delle “varietà di capitalismo”. Dopo aver esaminato alcune giustificazioni della coesistenza di diversi modelli di capitalismo, Belloc mette in evidenza l’importanza delle complementarietà istituzionali (ma non solo istituzionali) per spiegare il funzionamento e la persistenza di questi ultimi, e sostiene che lqueste valutazioni sono di grande importanza, anche e soprattutto per l’Italia, per evitare il rischio di incoerenze nel disegno delle politiche economiche.

Non esiste un solo modello di capitalismo. Ne esistono molteplici. E la globalizzazione, come insegnato da diversi studiosi, non ci sta portando a convergere naturalmente verso un modello unico e superiore, così come una sorta di legge darwiniana applicata ai sistemi economici potrebbe predire.

Un bel libro di P.A. Hall e D. Soskice (Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage, 2001) distingue, ad es., i sistemi economici in due grandi gruppi. Nelle economie di mercato liberali, le imprese coordinano le proprie attività sulla base di strutture gerarchiche tipiche di mercati competitivi e le relazioni di mercato sono ampiamente regolate da contratti formali e completi, che prevedano cioè per ogni possibile eventualità futura i diritti e gli obblighi delle parti, lasciando il meno possibile al “non scritto”. Nelle economie di mercato coordinate, invece, le imprese tendono a gestire le loro relazione sulla base di accordi incompleti e più largamente basati su comportamenti collaborativi che generano relazioni di lungo periodo e specificità degli scambi. Gli autori pensano al modello anglo-americano come esempio tipico di sistema economico liberale e a quello tedesco come esempio di sistema economico coordinato.

Pur nella semplificazione, questo schema ci permette di introdurre l’idea di equilibri multipli basati sulle complementarietà istituzionali. Poiché certi tipi di istituzioni in un dato dominio dell’economia (che regolano il governo d’impresa, per es.) funzionano meglio in presenza di certi tipi di istituzioni prevalenti in un altro dominio (il mercato del lavoro, e viceversa), i sistemi economici dipendono da complementarietà fra diverse istituzioni ed interazioni strategiche fra i suoi attori che rafforzano le specificità di un certo modello e ne garantiscono la durata nel tempo.

Nelle economie liberali, un sistema basato su azionariato diffuso e forte controllo manageriale caratterizzato da frequente ricambio sono complementari ad un mercato del lavoro flessibile e sindacati deboli. Nelle economie coordinate, un modello di governo d’impresa che lascia ampio potere di controllo agli stakeholders è funzionale ad un mercato del lavoro caratterizzato da sindacati forti, maggiore partecipazione del lavoratore alla vita dell’azienda, relazioni lavorative più durature e specifiche all’impresa.

L’importanza delle complementarietà e delle coerenze istituzionali per il funzionamento dei sistemi economici moderni è stata sottolineata da più di un intervento al convegno “Il capitalismo italiano: un ibrido infelice” che si è tenuto presso l’Università di Siena nel marzo 2017 (v. gli articoli di U. Pagano e M. Simoni usciti, rispettivamente, sui numeri di settembre e ottobre del Menabò). L’idea di fondo è, dunque, che le complementarietà fra istituzioni, nonché (come vedremo) fra istituzioni e forze politiche e fra istituzioni e norme sociali, favorisce la coesistenza, a livello mondiale, di modelli di capitalismo diversi, più o meno internamente coerenti, la cui sopravvivenza nel tempo dipende dalle loro stesse specificità. Ma dove affondano le radici della diversità dei modelli di capitalismo?

Esistono diverse spiegazioni. Alcune di queste enfatizzano (prima dell’ultima crisi economica e finanziaria) il successo del modello anglo-americano rispetto agli altri e ne studiano le ragioni. L’approccio basato sulle origini legali, proposto da R. La Porta e coautori (Journal of Finance, 2006), ne attribuisce il merito alla separazione fra proprietà e controllo d’impresa, evidenziando come questa sia stata possibile grazie ad una adeguata protezione dei piccoli azionisti nelle grandi imprese prevista, ancor prima dell’avvento del capitalismo, dai sistemi legali di common law e non da quelli di civil law. L’approccio proposto da M. Pagano e P. Volpin (American Economic Review, 2005) pone, invece, l’accento sui meccanismi elettorali. Un sistema proporzionale spingerebbe le parti politiche ad accaparrarsi voti di gruppi di elettori con preferenze omogenee, quali manager e lavoratori, e tenderebbe a favorire i loro interessi. In un sistema maggioritario, più diffuso nei paesi di stampo anglo-americano, prevarrebbe invece un’accesa competizione per la conquista del gruppo di elettori ideologicamente poco legati a priori all’uno o all’altro schieramento politico, i piccoli azionisti. Nel sistema maggioritario gli interessi di questi ultimi sarebbero, dunque, meglio tutelati.

Un terzo approccio, infine, propone l’idea di co-evoluzione fra forze politiche ed istituzioni economiche (M. Belloc e U. Pagano, International Review of Law and Economics, 2013). Questo approccio prende le mosse da un libro scritto da M. Roe: Political Determinants of Corporate Governance (2003). Roe suggerisce che la separazione fra proprietà e controllo, che caratterizza molte grandi imprese americane, non sarebbe dovuta tanto a migliori leggi d’impresa che proteggono i piccoli azionisti, ma piuttosto all’assenza di una pressione politica, per così dire, social democratica che, in un sistema di azionariato diffuso con proprietari spesso deboli e poco presenti nelle decisioni del governo d’impresa, avrebbe altrimenti indotto i manager a colludere con i lavoratori. Nonostante i ben noti problemi di agenzia che spesso l’accompagnano, dunque, la separazione fra proprietà e controllo avrebbe il merito di garantire la prevalenza di regole di allocazione basate sulle competenze rispetto a consuetudini basate su legami di sangue (o di amicizia) delle famiglie proprietarie.

In effetti, utilizzando un campione di 21 paesi OECD, si verifica (M. Belloc e U. Pagano, International Review of Law and Economics, 2009, 2013) che, in media nel periodo a cavallo fra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, economie caratterizzate da forti diritti di tutela dei lavoratori tendono ad esibire una forte concentrazione della proprietà d’impresa. Ma questa correlazione non ci dice nulla sulla direzione di causalità del legame fra le due variabili. Nei nostri lavori sosteniamo che la causalità possa operare in entrambe le direzioni.

Negli Stati Uniti, regole meritocratiche per la scelta dei manager sono state a lungo protette dall’interferenza dei proprietari del capitale ai quali è stato impedito storicamente di concentrare la propria ricchezza e il proprio potere nelle grandi compagnie americane. Un’esplicita pressione social democratica non ha dovuto, quindi, imporsi grazie all’assenza di forti barriere dinastiche contro cui combattere e far valere i diritti dei meno abbienti: all’individuo capace, pur sprovvisto di patrimonio, non era comunque impedito di avere successo economico. L’assenza di un sentimento social democratico non è stata, in altre parole, dovuta solo alla tradizione ideologica del “populismo americano”, ma anche al fatto che (grazie a tale tradizione) le opportunità economiche sono state (e ancora sono) effettivamente differenti rispetto ad altri paesi.

In molte altre economie, in particolare europee, le cose sono andate diversamente. Qui le dinastie familiari hanno a lungo pesantemente interferito con logiche di allocazione di tipo meritocratico. Si è dunque imposta esplicitamente l’esigenza di un sentimento social democratico che difendesse i meno abbienti e connessi alla gestione del potere dagli abusi dei privilegiati. Non potendo bloccare la concentrazione della proprietà nelle mani di pochi, il sistema ha dovuto creare delle contromisure per limitare l’esercizio del potere da parte di questi (realizzando una più rigida ed esplicita difesa dei diritti dei deboli).

In equilibrio, i due sistemi si reggono sulla complementarietà fra istituzioni economiche e forze politiche. Ma nel processo di raggiungimento dell’equilibrio, la causazione si è mossa in direzioni diverse. Nel primo (equilibrio disperso), l’assenza di una concentrazione degli interessi dei lavoratori e di sindacati forti ha reso possibile l’affermazione di un sistema basato sulla separazione fra proprietà e controllo (come suggeriva Roe). Nel secondo (equilibrio concentrato), una forte concentrazione degli interessi dei lavoratori è stata innescata come reazione alla concentrazione della proprietà nelle mani di potenti proprietari d’azienda che l’aveva storicamente preceduta. Come è possibile che sistemi così diversi coesistano? Gli “economisti” avranno capito qual è il sistema migliore? Perché non convergiamo, dunque, tutti verso quello?

In periodi storici caratterizzati da un limitato contatto fra i diversi paesi (in economia chiusa, leggeremmo sui libri di economia), la coesistenza di apparati istituzionali (e sistemi culturali) molto diversi non è certo sorprendente. Esistono, però, buone ragioni per ritenere che anche in un mondo globalizzato (in economia aperta) la competizione fra capitalismi non debba portare necessariamente alla convergenza verso un modello unico (M. Belloc e S. Bowles, American Economic Journal: Microeconomics, 2017).

La spiegazione che diamo per la persistenza di equilibri multipli in economia aperta si basa sull’idea della complementarietà fra istituzioni (economiche), preferenze sociali e specializzazione. La legge del vantaggio comparato dice che dati due paesi che si aprono agli scambi internazionali, ciascuno di essi tenderà a specializzarsi nel settore nel quale esso è relativamente più efficiente (il cui costo comparato è inferiore) anche nel caso limite in cui l’altro paese dovesse essere superiore in tutti (o quasi) i settori produttivi (vantaggio assoluto). Dunque, ciascun paese tenderà a fare di più ciò che sa fare relativamente meglio (o meno peggio!). Una volta avvenuta la specializzazione, poi, i costi di innovare il sistema economico (i costi di deviazione dall’equilibrio) per ciascuno degli attori coinvolti, i lavoratori da una parte e le imprese dall’altra, saranno maggiori rispetto allo scenario di economia chiusa, perché l’apertura commerciale e la stessa specializzazione hanno consentito un aumento del valore dell’output domestico in equilibrio (i famosi gains from trade). Questo significa che l’apertura commerciale non solo non azzererà le differenze, ma anzi renderà conveniente accentuarle.

Se un sistema economico è caratterizzato da contratti incompleti e norme sociali basate sulla collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro, questo tenderà a specializzarsi nella produzione di beni che sono intensivi di competenze che non possono essere esatte attraverso contratti completi (o magari per coercizione), ma che al contrario scaturiscono proprio da relazioni specifiche e di lungo periodo (anche basate sulla fiducia e sul “non scritto”). Ma è evidente, d’altra parte, che quanto più un sistema produttivo è specializzato in questo tipo di settori, tanto più ad esso converrà sviluppare istituzioni (contratti incompleti basati sulla distribuzione del surplus, per es.) e norme sociali (di reciprocità) che favoriscano l’acquisizione e l’esercizio di tali competenze (l’attitudine allo svolgimento di attività non routinarie). Meccanismo simile vale, mutatis mutandi, per un sistema basato sulla complementarietà fra contratti completi e norme sociali che incoraggiano lo svolgimento di attività routinarie. Certi tipi di istituzioni e norme sociali favoriscono la specializzazione in certi settori, e la specializzazione in quei settori rende più conveniente il rafforzamento di quelle istituzioni e norme sociali.

In questo contesto, un “ibrido infelice” è un sistema economico, istituzionale e produttivo, che inizia a rincorrere altri modelli in modo scomposto: abolisce, per es., molte garanzie dei lavoratori, dimenticando il motivo per il quale quelle garanzie erano state storicamente introdotte e pensando che siano (soprattutto) esse a costituire il freno che gli impedisce di tenere il passo con la concorrenza internazionale. Ma così facendo non si avvicina al suo modello in termini di performance. Al contrario, avendo disinnescato i sottostanti meccanismi di co-determinazione di istituzioni, norme sociali e specializzazione, inizia a funzionare, in termini relativi, forse anche peggio di prima.

Schede e storico autori