Misurare la povertà: gli insegnamenti della pandemia

Maurizio Franzini e Michele Raitano partendo dai dati sulla povertà nel 2020 resi noti a giugno dall’Istat, riflettono su alcuni limiti degli indicatori di povertà e sulle ragioni dell’andamento contraddittorio della povertà assoluta e di quella relativa. Tale contradditorio andamento, non nuovo, potrebbe scaturire almeno in parte dallo stesso lockdown e, quindi, dalla riduzione dei consumi non dovuta a perdita di potere d’acquisto, con conseguenze di rilievo per una riflessione sulle modalità di misurazione della povertà.

I dati sulla povertà in Italia nel 2020 pubblicati a giugno dall’Istat hanno, giustamente, ricevuto molta attenzione. In particolare ha molto colpito l’aumento della quota sia di famiglie sia dei bambini che vivono in povertà assoluta: tra il 2019 e il 2020 la prima è cresciuta dal 6,4 al 7,7%, la seconda è passata dall’11,4 al 13,5%. In realtà, questi due dati sono tra loro correlati per la semplice ragione che sono considerati poveri (assoluti) i bambini che vivono in famiglie povere (assolute) e il numero dei figli minori accresce il rischio che la famiglia sia povera.

L’Istat ha pubblicato anche i dati riferiti alla povertà relativa che, al contrario, segnalano una diminuzione piuttosto consistente della quota di famiglie che si trovano in questa condizione: dall’11,4 al 10,1%. Questo contraddittorio andamento di due indicatori riferiti allo stesso fenomeno (o, almeno, chiamato praticamente nello stesso modo) non sembra aver attirato altrettanta attenzione; qualora lo avesse fatto potrebbe lasciare quanto meno interdetto chi non conoscesse le modalità di costruzione dei due indicatori. In ogni caso, ed è quanto sosterremo, un simile, non inusuale, andamento contraddittorio associato alle debolezze di questi indicatori messi in evidenza dalla pandemia rende necessaria una rinnovata riflessione sulla misurazione della povertà.

Iniziamo ricordando che la povertà è un concetto largamente indeterminato e ciò, naturalmente, ha implicazioni per i giudizi che si esprimono sul benessere sociale, nonché per il disegno delle politiche dirette a ridurre la povertà (comunque intesa) e – aspetto tutt’altro che secondario – per la valutazione della loro efficacia.

Per avere una rapida idea dei molti problemi che pone la definizione della povertà, già ricordati in dettaglio da FraGRa sul Menabò, si consideri che essa può essere definita con riferimento a una pluralità di dimensioni (monetarie o non) o ad una sola dimensione, tipicamente ricondotta al tenore di vita, espresso in termini monetari. Quest’ultimo, peraltro, può essere catturato da numerose variabili, le più frequentemente utilizzate essendo il reddito e il consumo. Ancora, indicatori puramente monetari potrebbero essere fuorvianti in quanto non considerano che le condizioni familiari possono rendere necessarie spese che ne impediscono altre con conseguenze sull’effettivo tenore di vita: si pensi a chi ha malati cronici o disabili in famiglia. D’altro canto, con buone ragioni, si può considerare povero chi si percepisce soggettivamente come tale, anche eventualmente contro i “dati oggettivi”.

La tendenza è a concepire la povertà come la condizione in cui si trova chi (normalmente una famiglia, il cui tenore di vita viene reso ‘equivalente’, mediante le apposite scale, in funzione del numero dei suoi componenti) non raggiunge una certa soglia di reddito o di spesa per consumi (che differisce dal consumo effettivo, più difficilmente misurabile, in quanto non tiene conto di una serie di attività di consumo che non passano per il mercato, sebbene forniscano utilità agli individui). Nel misurare la povertà l’Istat fa riferimento alla spesa per consumi – diversamente, ad esempio, da Eurostat che definisce il rischio di povertà sulla base dei redditi – e le due misure di cui si è detto scaturiscono dal modo diverso di fissare la soglia.

In dettaglio, la soglia di povertà assoluta è definita in base al costo di un paniere di beni che tutti dovrebbero essere in grado di consumare, e il valore di questo paniere varia per tipologia e dimensione del comune, oltre che per composizione familiare. La soglia di povertà relativa non viene invece definita sulla base di un paniere di consumi prestabilito, ma dipende dai comportamenti – e dunque dal tenore di vita – di tutti gli altri membri di una collettività. In questo caso non si ritiene, dunque, povero chi è impossibilitato a effettuare una spesa minima ma chi spende molto meno degli altri (indipendentemente dal valore assoluto di tale spesa), cogliendo dunque anche aspetti legati alla disuguaglianza del tenore di vita. Nello specifico, l’Istat identifica come povera relativa una famiglia di due componenti che spende, nell’insieme, meno dell’italiano medio e adatta poi la soglia a famiglie di diversa composizione sulla base della scala di equivalenza adottata.

Tenendo conto di queste modalità di fissazione delle soglie è facile spiegare il diverso andamento della povertà assoluta e relativa di cui si è detto in precedenza che, peraltro, è tutt’altro che sorprendente per gli esperti.

In una fase di recessione la spesa media per consumo si abbassa e, quindi, si riduce la soglia della povertà relativa. Di conseguenza, possono uscire dalla povertà anche persone che in realtà perdono potere d’acquisto e il numero dei poveri può ridursi. Si spiega così perché la povertà relativa, in modo apparentemente paradossale, abbia solitamente un andamento anti-ciclico: aumenta quando il reddito nazionale cresce, se l’aumento non è relativamente pro poor, e può non aumentare o addirittura ridursi in fasi di forte recessione. Ciò avviene soprattutto se, come sembra sia accaduto in Italia in questa crisi, il calo forte e generalizzato del potere d’acquisto è stato relativamente minore per i meno abbienti, grazie anche al beneficio relativamente maggiore assicurato loro dalle misure emergenziali messe in campo dal Governo. Un esempio clamoroso di questa ‘perversa’ caratteristica della povertà relativa lo offre la Grecia: dal 2012 al 2019 la sua incidenza – misurata con i criteri europei – è scesa dal 23 al 18%, a causa della caduta del reddito mediano greco, ma sarebbe cresciuta al di sopra del 40% se la soglia della povertà fosse rimasta ferma al valore che aveva prima della crisi del 2009.

Quanto alla povertà assoluta, non vi è il problema della mobilità della soglia. Ciò non basta però a concludere che essa sia priva di problemi. Al di là di quelli relativi alla idoneità della spesa per consumi – che seppur solitamente più stabile dei redditi è sicuramente legata alle eterogenee preferenze individuali – a rappresentare effettivamente il tenore di vita, vi possono essere problemi che la recente pandemia ha reso più evidenti. Possono, infatti, aversi riduzioni dei consumi che non derivano da cali di reddito o di potere d’acquisto ma dalla impossibilità di effettuare alcuni tipologie di spese o dal cambiamento delle preferenze su come allocare il proprio reddito tra consumi e risparmi.

Come hanno illustrato Aprea e Raitano sul Menabò, è fondato il sospetto che la forte crescita della povertà assoluta rilevata dall’Istat non scaturisca soltanto dal peggioramento del tenore di vita. In periodi straordinari, come quello pandemico, una riduzione della spesa può infatti dipendere anche dai divieti imposti a specifiche attività di consumo (si pensi alle spese per mobilità, alberghi o ristoranti), dal timore di effettuare consumi che potrebbero esporre a rischi di contagio o dalla scelta di aumentare il risparmio precauzionale data l’incertezza che permane sulle prospettive economiche personali e generali. Di tutto ciò si dovrebbe tenere conto nell’analisi dei dati relativi al 2020 per cogliere con precisione la dinamica del benessere economico delle famiglie, evitando di attribuire la riduzione delle spese per consumi interamente alla perdita di potere d’acquisto. Sarebbe pertanto utile leggere l’indicatore di povertà assoluta in combinazione con altri dati, riguardanti ad esempio le tipologie di consumi che si sono maggiormente ridotti.

Si può anche osservare che l’andamento contraddittorio di povertà assoluta e relativa, che come si è detto, non è una novità, può in questo caso dipendere, almeno in parte, dalla medesima causa e cioè dalla riduzione dei consumi ‘imposta’ dalla pandemia anche indipendentemente dalla caduta dei redditi. Infatti, se contraggono i propri consumi sia coloro che hanno un tenore di vita più alto sia coloro che lo hanno più basso, ma i primi lo contraggono in misura maggiore abbiamo due effetti: i) il consumo medio si riduce, quindi diminuiscono sia la soglia della povertà relativa sia il numero di poveri relativi; ii) il consumo di chi prima era di poco sopra la soglia della povertà assoluta si contrae e questo provoca un aumento del numero di poveri assoluti.

Sembra, quindi, che lo stesso fenomeno possa spingere i due indicatori di povertà in direzione opposta e ciò rende ancora più difficile riferirsi al fenomeno che essi misurano con lo stesso nome. Indicatori apparentemente di facile comprensione nascondono, dunque, molteplici insidie nell’identificazione di chi è povero e nella valutazione della dinamica dei fenomeni.

Si rifletta su alcune conseguenze, anche paradossali, di questo stato di cose. La prima è che questa sorta di menu di risultati sulla povertà permette a ciascuno di scegliere l’articolo che preferisce e che, naturalmente, sarà quello che conferma i suoi pregiudizi e le sue convinzioni. La seconda è che la gravità di alcuni fenomeni potrebbe essere diversamente valutata in funzione, di nuovo, dell’indicatore utilizzato. Per metterla in modo paradossale: chi guardasse alla povertà relativa potrebbe concludere che la pandemia, in fondo, non è solo male.

Al di là dei paradossi le questioni da approfondire sono numerose e non semplici. Occorre, restando a queste nozioni di povertà, decidere se è povero – e che povero è – chi non accede a un paniere predefinito di beni; se è povero – e che povero è – chi ha consumi significativamente inferiori alla media. Occorre eventualmente decidere se è povero ‘vero’ solo chi lo è in entrambi i sensi e come chiamare chi lo è soltanto in uno dei due

Nell’affrontare queste ed altre questioni sarebbe forse bene partire da alcune consapevolezze: che non è possibile cogliere in modo ragionevolmente compiuto gli aspetti essenziali di ciò che chiamiamo povertà utilizzando un solo indicatore, e ciò vale a maggior ragione in periodi straordinari, come quello in cui viviamo da marzo 2020 e che mettono in crisi la stessa associazione diretta fra consumo e benessere economico; che la fissazione di soglie va comunque incontro al limite di collocare in mondi diversi (quello della povertà e l’altro) persone o famiglie separate da un sottilissimo diaframma, quale che sia la sua natura; che le ragioni per le quali si superano le soglie, in una direzione o nell’altra, contano e non poco. Acquisire queste consapevolezze significa anche avere la possibilità di disegnare meglio le politiche che dovrebbero alleviare il disagio di chi occupa i gradini più bassi della scala economica e sociale.

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