Miracoli in Germania. Flessibilità interna e mercato del lavoro

Giuseppe Croce esamina le cause della straordinaria tenuta dell’occupazione in Germania durante la Grande Recessione. Dopo aver evidenziato che la discussione al riguardo è ancora aperta tra gli economisti, Croce sostiene che l’economia tedesca ha esibito una notevole capacità di adattamento e grande flessibilità, ma una flessibilità “interna”, diversa da quella tipica dei sistemi di flexicurity. La sua conclusione è che l’esperienza tedesca, benché non priva di effetti avversi e radicata in uno specifico contesto di relazioni industriali, rappresenta una lezione di grande interesse.

Tra le macerie lasciate dalla Grande Recessione in Europa, la tenuta dell’occupazione in Germania ha rappresentato una delle poche buone notizie, un caso di successo per più aspetti clamoroso. Il mercato del lavoro tedesco ha mostrato una grande capacità di adattamento e le imprese hanno potuto avvalersi di un’ampia flessibilità. Ma di una flessibilità di tipo diverso da quella dei sistemi di flexicurity. In questo articolo, prendendo spunto dalla discussione ancora aperta tra gli economisti, proviamo a guardare “dentro” il “miracolo” tedesco.

Nella fase più acuta della recessione, tra 2008 e 2009, la Germania ha perso appena mezzo punto percentuale di occupazione, con un leggero aumento del tasso di disoccupazione, pari a un +0,5%, mentre il Pil calava di 6,6 punti. Negli stessi anni negli Stati Uniti, a fronte di una caduta del Pil del 4,1%, l’occupazione calava del 5,6% e la disoccupazione aumentava di 5,5 punti. Più o meno lo stesso succedeva in gran parte delle economie avanzate. Si capisce come si sia cominciato a parlare di “miracolo”. Eppure, solo pochi anni prima, con una disoccupazione che era arrivata a superare l’11%, la Germania era per molti il “malato” d’Europa.

Numerosi sono ormai gli studi che provano a decifrare quale sia la ricetta sottostante questo successo e quali i suoi ingredienti decisivi. E la risposta è: flessibilità degli orari, più flessibilità dei salari, più riforme delle politiche del lavoro.

Ancor più che in passato, durante l’ultima recessione il modello tedesco ha puntato tutto sulla flessibilità interna, che si è giovata di due leve, la riduzione degli orari e quella dei salari. A queste si sono aggiunti gli effetti delle riforme Hartz del 2003-05, più una serie di altre condizioni favorevoli. Su questa lista di ingredienti c’è ampio consenso tra gli studiosi, mentre sul loro peso relativo nel determinare i successi del mercato del lavoro le opinioni rimangono distanti.

Se si prende a riferimento la classificazione dei regimi di mercato del lavoro utilizzata anche da Blanchard e altri (Labor market policies and IMF advice in advanced economies during the Great Recession, IMF, 2013) si fa fatica a trovare una collocazione al caso tedesco. Tradizionalmente estraneo al modello Anglosassone, risulta poco affine anche al regime Nordico della flexicurity, decisamente orientato a proteggere i lavoratori più che i posti di lavoro, ma sempre più lontano anche da quello Continentale che convive con un’alta disoccupazione.

Così il caso tedesco si può prestare a letture anche molto diverse. Per alcuni è la conferma della validità del programma di riforme del 2003-05, che hanno ridotto e ridisegnato i sussidi di disoccupazione. Per altro verso, sembra rappresentare la rivincita di un modello che mantiene una forte impronta protettiva grazie a un’alta protezione dell’occupazione imposta per legge (EPL), in contrapposizione alla flessibilizzazione invocata dai sostenitori della flexicurity. In realtà, secondo diversi autori, né le riforme Hartz né l’alto indice di EPL sono stati veramente decisivi. La flessibilità interna, piuttosto, sembra essere l’ingrediente forte della ricetta tedesca.

La principale reazione delle imprese tedesche a fronte dello shock negativo di domanda è stata la riduzione degli orari. A questo scopo esse hanno potuto avvalersi di una serie di strumenti già disponibili che hanno consentito di trattenere i volumi di lavoro in eccesso ed evitare i licenziamenti: riduzione degli straordinari, working-time accounts, short-time work, part-time.

Con i working time accounts le imprese possono aumentare liberamente e senza costi aggiuntivi gli orari di lavoro oltre l’orario standard, a condizione di ridurli successivamente, entro un periodo prestabilito e senza tagli delle paghe. All’arrivo della recessione i lavoratori, mediamente in surplus di straordinari, sono stati compensati con un taglio delle ore di lavoro. Mediante gli short-time works le imprese in difficoltà, con l’accordo dei works council, possono ridurre l’orario di lavoro. A fronte di ciò i lavoratori ricevono circa 2/3 della paga delle ore perse, grazie all’intervento del fondo per l’assicurazione contro la disoccupazione. Nell’ultima recessione questo strumento è stato potenziato portando la sua durata massima da 6 a 24 mesi. Inoltre, in caso di difficoltà straordinarie le imprese possono negoziare riduzioni di orario relativamente limitate per le quali però i lavoratori non ricevono compensazione dal governo.

Nel 2008-09 l’aggiustamento dei volumi di lavoro è avvenuto per intero o quasi tramite riduzione delle ore procapite (Burda e Hunt, What explains the german labor market miracle in the great recession?, NBER, 2011). Una motivazione non secondaria per la preferenza per questa modalità di aggiustamento sta nel fatto che essa permette alle imprese di non perdere capitale umano specifico. Una motivazione resa ancor più urgente dal fatto che all’arrivo della recessione la Germania si trovava in una condizione di diffusa carenza di lavoro qualificato.

Il secondo elemento di flessibilità ha riguardato la riduzione del costo del lavoro, in larga misura ottenuta mediante deroghe a livello di impresa dai contratti collettivi di settore. Per Dustmann e altri (From sick man of Europe to economic superstar: Germany’s resurgent economy, JEP, 2014) è la flessibilità salariale il fattore decisivo della resilienza dell’occupazione. Una flessibilità ottenuta col decentramento della contrattazione, realizzato sfruttando i margini di flessibilità connaturati al sistema di relazioni industriali, che non sono soggette a vincoli esterni, ma che ha comportato una caduta dei salari reali e l’aumento della disuguaglianza. Le imprese, in particolare, possono derogare dai contratti di settore facendo accordi con i works council. Questo ha prodotto il decentramento senza con ciò smantellare il livello centralizzato di contrattazione. Tale processo si è inserito nella più lunga tendenza al declino della copertura sindacale in atto già da metà degli anni Novanta ed è stato rafforzato dall’apertura delle economie dell’Europa orientale che ha offerto alle imprese tedesche una facile possibilità di delocalizzazione della produzione. Queste condizioni hanno indotto i sindacati ad accettare un aggiustamento dei salari, con il conseguente miglioramento della competitività osservabile già dal 1995 (e quindi molto prima delle riforme). Questa, secondo Dustmann e altri, la chiave del “miracolo” tedesco che, pertanto, non sarebbe frutto delle riforme Hartz né di azioni del governo bensì delle strategie adottate dalle parti sociali nell’ambito di un sistema di relazioni che assicura loro ampia autonomia.

Gli esiti di questo processo hanno infine indotto gli stessi sindacati ad accettare l’introduzione dal 2015 di un salario minimo legale fino ad allora estraneo al contesto istituzionale tedesco (Bosch, The bumpy road to a National Minimum Wage in Germany, 2015). Va detto, peraltro, che dal 2011 i salari orari reali in Germania hanno ripreso a crescere a un ritmo decisamente più alto del resto dei paesi OCSE.

Secondo altri, invece, sarebbero state le riforme Hartz del 2003-05 il fattore di svolta nel mercato del lavoro in Germania (Rinne e Zimmermann, Is germany the north star of labor market policy? IZA, 2013). Come noto, esse hanno ridotto i sussidi di disoccupazione, rafforzato la loro condizionalità e potenziato i servizi per l’impiego. Inoltre hanno deregolamentato il lavoro di agenzia e introdotto i mini-jobs, lavori a orario ridotto e con paga non superiore a 400€ esenti da gran parte degli oneri sociali. In realtà, come visto, è dubbio che tutto ciò abbia avuto un ruolo importante nella tenuta dell’occupazione. È però ragionevole ritenere che esse abbiano contribuito al ribasso dei salari nella coda bassa della distribuzione, all’occupazione dei gruppi marginali e, soprattutto, alla riduzione della disoccupazione di lunga durata.

Secondario sembra essere stato anche il ruolo della protezione legale dell’occupazione (EPL). La flessibilità interna si è affermata come strategia preferita dagli attori in base alle convenienze dettate dal contesto economico e istituzionale, piuttosto che imposta dal vincolo di legge (Moller, The German labor market response in the world recession – de-mystifying a miracle, ZAF, 2010).

Inoltre, alcune non secondarie condizioni favorevoli hanno alleggerito l’impatto della recessione. Primo, il ciclo dell’economia tedesca, legato alla domanda estera, si è giovato della più rapida ripresa della domanda globale. Secondo, le imprese venivano da una fase espansiva nella quale non avevano dato corso a un aumento degli organici. Anche questo ha contribuito in misura sostanziale a rendere non necessario il ricorso a licenziamenti su ampia scala.

Ma se la dinamica di occupazione e disoccupazione decretano il successo del modello tedesco, non mancano altri effetti “collaterali” che ne mostrano alcune gravi falle. La più evidente, come già detto, è la caduta dei salari più bassi e il conseguente aumento delle disuguaglianze (Giannelli e altri, The evolution of job stability and wages after the implementation of the Hartz reforms, JLMR, 2016). La successiva introduzione di un salario minimo stabilito per legge ha sancito la gravità di questi sviluppi. In prospettiva potrebbe destare preoccupazione anche il fatto che, in un sistema orientato a perseguire la pressoché totale stabilizzazione dell’occupazione, viene rallentata la fisiologica riallocazione delle risorse tra imprese e settori con possibili implicazioni di rallentamento della dinamica aggregata della produttività.

Infine, la flessibilità dei salari ha verosimilmente accentuato le asimmetrie tra paesi dell’Eurozona favorendo la competitività e l’export tedeschi e, al tempo stesso, comprimendo la domanda interna e, quindi, le importazioni.

Se si guarda da vicino al sistema di flessibilità interna tedesca nella Grande Recessione, risulta evidente che il suo successo è stato reso possibile dallo specifico contesto istituzionale e da particolari condizioni economiche. Né si può dire che esso sia immune da effetti collaterali di segno negativo. Difficile, quindi, farne un paradigma prontamente replicabile.

A conclusioni analoghe, d’altro canto, si giunge se ci si volge a guardare ai paesi della flexicurity (Danimarca e Svezia in particolare). Anch’essi hanno gestito con discreto successo l’impatto della recessione nel mercato del lavoro. Ma anch’essi hanno potuto trarre vantaggio da condizioni istituzionali ed economiche particolari: una buona situazione dei conti pubblici per finanziare le politiche attive e passive e per varare ulteriori manovre espansive dal lato della domanda, oltre alla possibilità di svalutare il cambio. E, ad ogni modo, non sono stati del tutto capaci di evitare che la recessione lasciasse in eredità un aumento della disoccupazione di lunga durata.

Anche i migliori modelli al momento disponibili non ci offrono ricette replicabili col “copia e incolla”. Sottoposti a un test particolarmente severo, quale la recessione degli scorsi anni, hanno mostrato le loro criticità. Eppure, è a quelle esperienze di (parziale) successo che dobbiamo guardare per continuare ad aggiustare anche le nostre istituzioni di mercato del lavoro.

L’esperienza tedesca insegna che la flessibilità interna, gestita in buona parte attraverso accordi collettivi decentrati, induce le imprese ad “avere pazienza” e a non disperdere il capitale umano accumulato. D’altro canto, la flexicurity consente di gestire i processi di distruzione di posti di lavoro quando non più rinviabili, favorendo la riallocazione del lavoro tra imprese e settori, che è una delle strade da seguire per rianimare la dinamica aggregata della produttività.

Si tratta di due logiche non necessariamente incompatibili. Il problema è creare le condizioni anche in Italia affinché possano diventare opzioni coordinate e praticabili in modo efficace.

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