Mettiamo all’asta gli incentivi

Civil Servant sostiene che per non sprecare i fondi del Next Generation EU occorre distribuirli in modo selettivo. Poiché non è possibile osservare la capacità e le vere intenzioni di chi li richiede, Civil Servant, anche richiamando esperienze simili, suggerisce di ricorrere ad un sistema di aste in cui queste qualità vengono “rivelate” attraverso le offerte. Infatti è presumibile che farà un uso migliore dei fondi pubblici chi “offre” un co-finanziamento più elevato e assicura i risultati migliori per ciascun euro richiesto.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) promette una pioggia di fondi su imprese e famiglie, senza precedenti e che probabilmente non si ripeterà per decenni. Purtroppo l’esperienza passata sull’uso dei fondi europei non è incoraggiante. Secondo uno studio dell’Agenzia della coesione sull’ultimo ciclo del bilancio europeo, a fine 2019 la percentuale di fondi utilizzati era inferiore al 30% del totale (su 45 miliardi da spendere entro il 2023). Rispetto al passato si tratta già di un notevole progresso, che però non ha evitato all’Italia di collocarsi ancora tra i peggiori in Europa per la capacità di utilizzare i fondi.

Sembra che circa la metà dei fondi del PNRR sarà distribuito tramite incentivi ad imprese e famiglie, in linea con la tendenza delle politiche economiche degli ultimi anni, che hanno ridotto lo stimolo diretto alla domanda aggregata, privilegiando i sussidi al settore privato sotto forma di crediti di imposta, ammortamenti accelerati, fiscalità di favore e bonus più o meno pittoreschi. Purtroppo la teoria economica e l’esperienza storica mostrano che gran parte di questi provvedimenti non ha alcun effetto sull’economia, perché i fondi finiscono quasi tutti a soggetti che avrebbero intrapreso le stesse azioni (acquisti, investimenti, assunzioni, ecc.) anche senza le agevolazioni. In effetti, in un mondo ideale, con concorrenza perfetta, informazione completa e senza vincoli di liquidità, imprese e famiglie prendono già le loro decisioni in modo “ottimale”, quindi gli incentivi si trasformano in semplici trasferimenti di reddito dai contribuenti ai beneficiari.

Nel mondo reale le cose non vanno troppo diversamente, perché generalmente gli incentivi fanno solo anticipare e concentrare nel tempo consumi, investimenti e nuova occupazione, senza aumentare troppo il loro ammontare complessivo. Lo dimostra anche una recente ricerca di Brunetti e Ricci sulle imprese italiane pubblicata sul Menabò, secondo la quale il 60% dei fondi finisce a chi anche senza incentivi aveva già deciso di investire o assumere e quindi incassa i fondi pubblici senza alcuno sforzo e senza vantaggi per la collettività. Il restante 40% determina solo un anticipo di spese programmate negli anni successivi. Il tutto con un carico burocratico e costi di intermediazione elevatissimi.

Ci sono molte spiegazioni per questi pessimi risultati. La prima è che spesso gli incentivi sono offerti senza chiedersi perché un’impresa non investe e non assume oppure una famiglia non consuma. Se questa inerzia è dovuta alla mancanza di infrastrutture è evidente che nessun incentivo può sostituire vie di comunicazione efficienti su cui trasportare le merci; una rete a cui connettere macchinari, pc, e tv di ultima generazione; un territorio sicuro sia dal punto di vista geologico che della legalità; una amministrazione ed un mercato finanziario decenti; ecc. In casi come questi sarebbe molto meglio se lo stato provvedesse direttamente a rimuovere gli ostacoli all’iniziativa privata, invece di distribuire qualche mancetta. Ad esempio potrebbe investire di più in ferrovie, tutela ambientale, controllo del territorio, servizi sociali, formazione, ecc. Se invece le imprese e le famiglie non fanno il loro dovere a causa dell’incertezza sul futuro, allora gli incentivi, proprio per la loro natura necessariamente temporanea, possono essere addirittura controproducenti, perché spingono a comportamenti che non sono convenienti e sostenibili sul lungo periodo. Ad esempio, nessuno continuerà a comprare auto per usufruire di bonus e sconti se non è sicuro di avere un reddito adeguato negli anni successivi e se lo standard della mobilità non sarà stabilito una volta per tutte (motori a scoppio di ultima generazione, idrogeno, elettrico?). Da parte sua, nessuna impresa investirà senza la prospettiva di una crescita dell’economia stabile e sostenibile nel medio e lungo periodo. Anche in questi casi una manciata di incentivi può fare poco, mentre sarebbero molto più produttivi programmi di spesa pluriennali e riforme strutturali che non siano stravolte da ogni governo (su pensioni, ammortizzatori sociali, formazione, mercato del lavoro, fisco, ecc.).

Esiste poi un’altra categoria di beni e servizi che nessun privato ha interesse a pagare di tasca propria perché è difficile escludere tutti gli altri dal loro godimento. Si tratta dei classici beni pubblici “puri”, come la manutenzione delle strade, la sicurezza, il decoro urbano, ecc. Anche gli economisti più ortodossi riconoscono a malincuore che in questi casi la soluzione migliore è la gestione pubblica. Tuttavia non sono mancati tentativi di incentivare anche spese di questo tipo, come il bonus facciate, quello per i giardini, per gli antifurto e le inferriate (ma solo quelle fisse, secondo la surreale interpretazione dell’Agenzia delle Entrate (par. 5.1). Ovviamente simili iniziative finiscono per rappresentare essenzialmente un regalo ad alcune categorie a spese di tutti gli altri contribuenti, proprio come previsto dalla teoria più tradizionale.

Alla fine, il campo di applicazione ideale per gli incentivi è dunque abbastanza ristretto. Di fatto, queste agevolazioni funzionano davvero solo quando qualcuno è proprio sul punto di prendere autonomamente una decisione, ma esita per i motivi più diversi: ad esempio, perché l’investimento non garantisce un rendimento sufficiente, oppure deve affrontare dei costi fissi non recuperabili (deadweight loss) ogni volta che prende una decisione, a prescindere dall’ammontare dell’impegno. Esempi classici di quest’ultimo tipo di costi sono quelli per la ricerca e selezione del personale; le spese di istruttoria e amministrative per l’acquisto di immobili; il tempo e il denaro perso dai consumatori per scegliere il prodotto ed il fornitore migliori prima di procedere ad un acquisto importante (shoe leather cost). Più in generale, gli operatori economici devono spesso mediare, da un lato, tra l’attesa di nuove informazioni o condizioni migliori e, dall’altro, le opportunità perse in questo lasso di tempo.

Se è davvero essenziale che certi investimenti e consumi vengano effettuati, allora lo stato può decidere di “dare una mano” ai privati. Tuttavia, sarebbe opportuno utilizzare i fondi pubblici in modo che abbiano il massimo impatto positivo sull’economia, senza disperderli tra coloro che avrebbero comunque effettuato certe spese anche senza incentivi. Sarebbe bello poter dare a ciascuno esattamente ciò di cui ha bisogno per decidersi a spendere, ma è praticamente impossibile scrutare nell’animo di ciascun operatore per valutare la sua capacità e volontà di spendere. In casi come questi la teoria economica suggerisce di bandire un’asta tra gli aspiranti, lasciando che le loro offerte “rivelino” quelle informazioni che non è possibile acquisire altrimenti. Per esempio, si può richiedere a ciascun partecipante alla gara di formulare una offerta in busta chiusa in cui dichiara l’ammontare degli incentivi richiesti, quello del finanziamento con mezzi propri ed una serie di risultati attesi in termini di occupazione, aumento della capacità produttiva, ecc., adeguatamente garantiti da fidejussioni e penali. Chi ha bisogno di risorse minori per effettuare l’investimento sarà disposto a impegnare più risorse proprie ed a garantire risultati più ambiziosi. Lo stesso farà anche chi propone i progetti più redditizi.

Ad esempio, se un imprenditore sta rimandando un investimento per il costo della burocrazia, sarà disposto ad “offrire” l’intero ammontare della spesa programmata in cambio di un contributo che copre solo la spesa per le autorizzazioni, con un moltiplicatore elevatissimo per ogni euro ricevuto dallo stato. In base a questo moltiplicatore, basterebbe un notaio (o addirittura un semplice programma di intelligenza artificiale, neanche troppo sofisticato) per assegnare i fondi senza troppa burocrazia, rapidamente e senza troppe contestazioni. Resterebbe il rischio di collusione tra i partecipanti e di turbative, ma sarebbe inferiore a quello insito in lunghe e complesse valutazioni amministrative. Non sarebbe male se i partecipanti alla gara indicassero la destinazione dei fondi pubblici richiesti, per capire se serviranno a coprire davvero una deadweight loss, oppure per rendere l’investimento remunerativo, o se rappresenteranno una specie di indennizzo per superare le carenze strutturali del territorio e del mercato. In questo modo lo stato potrebbe distribuire meglio i fondi tra incentivi veri e propri e interventi di altra natura.

L’asta garantisce indubbiamente che i fondi pubblici a disposizione abbiano il massimo impatto positivo sull’economia, ma è un metodo piuttosto drastico, quasi malthusiano, per la loro assegnazione. Una competizione di questo tipo rischia infatti di dare un ulteriore vantaggio a chi è già abbastanza forte per consumare, investire e assumere. Accanto alle aste, è dunque opportuno prevedere anche altre forme di aiuti, distribuiti con criteri meno severi ed eventualmente soggetti alle tradizionali valutazioni amministrative. Invece è una pessima idea mescolare sussidi e incentivi in uno stesso strumento, perché ciò favorisce la richiesta degli aiuti tradizionali, più generosi e facili da ottenere, piuttosto che di quelli più efficienti per la collettività, che invece comportano una competizione.

In Italia un’asta implicita tra le imprese era stata introdotta timidamente dalla legge 488/1992 che riformava gli interventi nel Mezzogiorno e nelle aree depresse, ma all’interno di un complicato sistema di graduatorie e valutazioni amministrative. Tuttavia questo strumento è stato progressivamente svuotato per essere sostituito da sistemi di incentivi più o meno automatici. Eppure un sondaggio condotto dal Ministero dello sviluppo economico mostra che la 488, pur con tutti i suoi difetti, era riuscita a limitare la deadweight loss dichiarata dalle imprese al 25% dei casi, contro quasi il doppio dei crediti di imposta previsti dai provvedimenti successivi.

In tutto il mondo si svolgono aste più o meno trasparenti per assegnare siti ed agevolazioni agli investitori esteri. A volte sono le imprese che concorrono tra loro per un determinato insediamento, più spesso sono i diversi stati o regioni che si contendono gli investimenti delle imprese. In vari paesi, ma non in Italia, si assegnano tramite aste anche i sussidi per la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Molti di quelli che vengono comunemente definiti incentivi andrebbero considerati, più correttamente, come premi alla carriera per i beneficiari. Forse è per questo che i fondi per l’acquisto di monopattini, biciclette e TV sono denominati bonus, come quello famoso di 80 euro, che ha avuto così pochi effetti sui consumi ed ha peggiorato la distribuzione dei redditi (Di Nicola sul Menabò). D’altra parte, è semplicemente offensivo pensare che il bonus bebè spinga davvero le coppie ad avere più figli, anche se rappresenta un riconoscimento per i neo-genitori.

In alcuni casi, l’ammontare degli aiuti tradizionali è talmente generoso da non discriminare tra chi ne ha davvero bisogno per superare le proprie esitazioni e chi no, come nel caso del bonus del 110% sulle ristrutturazioni edilizie. All’opposto, il credito di imposta sugli interessi previsto dalla “nuova Sabatini” ed il super e iper-ammortamento potrebbero rivelarsi incentivi troppo deboli e poco selettivi per chi dovesse assumere impegni pluriennali e quindi è più sensibile all’incertezza sul futuro, su cui incidono poco gli incentivi temporanei. Ci auguriamo che nella distribuzione dei fondi del PNRR si sappia distinguere nettamente tra sussidi tradizionali, interventi diretti e incentivi. Solo per questi ultimi una gara tra i richiedenti consentirebbe indiscutibili vantaggi.

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