Mercati digitali, concorrenza e self-preferencing: le insidie e i paradossi del caso Amazon

Giuseppe Colangelo riflette sulle preoccupazioni che suscita, nei mercati digitali, la possibilità che le piattaforme gatekeeper sfruttino il loro ruolo per avvantaggiare i propri prodotti e servizi (self-preferencing). Colangelo ritiene che i contorni di tale pratica siano poco chiari e che, in assenza di una definizione dei suoi limiti ed ambiti applicativi, il self-preferencing si riduca a una scorciatoia comoda per le autorità antitrust, non necessariamente rispondente agli interessi del mercato e dei consumatori.

Per quanto attiene al dibattito sulle politiche concorrenziali nei mercati digitali, tutto ha avuto inizio con Amazon. Nel gennaio 2017 lo Yale Law Journal pubblicava un lungo saggio dal titolo “Amazon’s Antitrust Paradox” nel quale Lina Khan, facendo il verso al noto contributo di Robert Bork, denunciava i limiti di un antitrust esclusivamente focalizzato sulla massimizzazione del benessere del consumatore perseguita attraverso la promozione dell’efficienza economica. Ne è scaturita una vivace contesa sugli obiettivi del diritto della concorrenza e, in particolare, sull’attenzione per le piccole imprese, la fairness e le finalità distributive, che in realtà ha origini profonde e ha attraversato l’intera storia dell’antitrust. Non a caso, l’emergente corrente di pensiero che vede nella Khan una delle sue figure di maggior successo (tanto da essere attualmente a capo della Federal Trade Commission statunitense) si ispira esplicitamente al giudice Brandeis (da cui la classificazione come neobrandesiani, denigratoriamente etichettati anche come hipster), il quale nel lontano 1897 individuava nella tutela degli “small dealers and worthy men” la stella polare dell’antitrust.

Al netto delle provocazioni e delle semplificazioni che vorrebbero banalizzarlo ad uno scontro tra liberisti e populisti, si tratta di un dibattito serio e che merita il giusto rispetto perché riguarda la ragion d’essere del diritto della concorrenza, riproducendo quello che, in molti contesti scientifici, è la nobile riflessione che vede storicamente contrapposti ortodossi ed eterodossi.

I presunti limiti dell’antitrust denunciati dai neobrandesiani, anziché favorire una riforma di quest’ultimo, hanno prodotto una sfiducia nelle sue potenzialità alimentando una ondata regolatoria con la quale in numerosi Paesi (in Europa specificatamente con il Digital Markets Act) si è deciso di intervenire per disciplinare le piattaforme digitali. Queste ultime, infatti, agendo come gatekeepers dei mercati digitali, non solo hanno la possibilità di fissare le regole di accesso (a monte) nei suddetti mercati, ma altresì competono (a valle) nei mercati dei prodotti e servizi offerti ai consumatori con gli altri operatori che ospitano sulle proprie piattaforme o nei propri ecosistemi. Ne conseguono preoccupazioni in termini sia di fairness nei rapporti commerciali sia di conflitto d’interessi.

In questo contesto, una apparentemente nuova condotta anticompetitiva ha guadagnato la scena. Si tratta del self-preferencing (o favouring), termine con il quale si descrive il trattamento preferenziale che una piattaforma assicura ai propri prodotti/servizi a scapito dei rivali. Tutti gli interventi legislativi finalizzati a regolare le piattaforme digitali hanno incluso, nella lista delle pratiche vietate, un esplicito anatema per alcune forme di self-preferencing. Quest’ultimo, del resto, rispecchia la premessa e l’obiettivo principali di tali iniziative regolatorie, ossia considerare le piattaforme come public utility soggette ad un regime di neutralità finalizzato ad assicurare un level playing field con gli altri operatori.

Tuttavia, dal momento che spesso la suddetta lista di proscrizione è stata alimentata da precedenti indagini delle autorità antitrust, anche nel caso del self-preferencing la primogenitura si deve ad una decisione antitrust, ossia alla condanna inflitta nel 2017 dalla Commissione europea a Google per aver trattato il proprio servizio di acquisti comparativi più favorevolmente in termini di posizionamento e di visualizzazione nell’ambito del proprio motore di ricerca.

Questa premessa è necessaria per fornire la cornice nella quale si colloca la decisione della nostrana Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nei confronti di Amazon. Pochi mesi fa, l’AGCM ha infatti comminato a quest’ultima una sanzione senza precedenti per aver legato all’utilizzo del proprio servizio di logistica (FBA, ossia Fulfillment by Amazon) l’accesso a un insieme di vantaggi (in particolare, l’etichetta Prime) che consentono ai venditori di ottenere maggiore visibilità e, quindi, prospettive di vendite sul proprio marketplace aumentando la probabilità che le loro offerte siano visualizzate nella Buy Box. Il trattamento preferenziale assicurato a FBA, secondo l’Autorità, avrebbe danneggiato gli operatori concorrenti nel servizio di logistica per e-commerce, impedendo loro di proporsi ai venditori online come fornitori di servizi di qualità paragonabile a quella della logistica di Amazon. Per sanare questo squilibrio ripristinando un level playing field e favorire lo sviluppo di un’offerta di logistica alternativa a FBA, alla sanzione di oltre un 1 miliardo di euro sono state aggiunte misure comportamentali consistenti fondamentalmente nell’obbligo per Amazon di concedere i benefici Prime a tutti i venditori che rispettino determinati standard (equi e non discriminatori) di evasione dei propri ordini, indipendentemente dalla loro adesione alla rete logistica di Amazon.

La rilevanza della decisione italiana non si esaurisce qui. Essa, infatti, è intervenuta poche settimane dopo che il Tribunale europeo ha confermato la condanna della Commissione nei confronti di Google Shopping, ponendosi quindi come prima, importante applicazione nazionale di tale sentenza e della potenziale futura casistica giurisprudenziale in tema di self-preferencing. Peccato, tuttavia, che il Tribunale europeo, anziché dipanare i dubbi emersi in letteratura su tale fattispecie, ne abbia ampliato le zone d’ombra generando una significativa incertezza interpretativa.

Le maggiori perplessità nei confronti del self-preferencing riguardano i confini ed i requisiti della fattispecie, ossia la sua stessa esistenza. Premesso che le regole antitrust non prevedono, in capo ad un’impresa dominante, l’obbligo di condividere con i rivali i propri vantaggi competitivi, il self-preferencing appare una etichetta tanto seducente quanto fuorviante perché finisce per catturare sotto il medesimo ombrello una serie di condotte diverse, già note e disciplinate dalle previsioni antitrust, quali il rifiuto di contrarre, le vendite gemellate (tying), la compressione dei margini (margin squeeze) e la discriminazione. Per ciascuna di esse, il diritto della concorrenza fornisce un quadro analitico comprensivo di requisiti e standard probatori che consentono di attivare un intervento e la relativa sanzione. Rispetto a tale cornice, non emergono gli elementi caratterizzanti la fattispecie del self-preferencing, la quale invece appare una mera categoria che descrive pratiche diverse e, per di più, tradizionalmente ricondotte ad un’altra categoria generale rappresentata dal leveraging (offensivo e difensivo).

Dinanzi alla fascinazione di una novella sirena, l’interprete è chiamato ad interrogarsi su quali siano i requisiti ed i limiti di applicazione di tale teoria del danno e a sollevare il dubbio che, in assenza di limiti applicativi, essa possa finire per rappresentare semplicemente una comoda scorciatoia per sanzionare condotte eludendo gli oneri probatori viceversa imposti dal loro più corretto inquadramento.

Come si anticipava, a queste perplessità purtroppo il Tribunale europeo in Google Shopping non ha dato una risposta chiarificatrice. Anzi, pur condividendo l’idea di estendere alle piattaforme dominanti i principi di parità di trattamento delle imprese pubbliche, i giudici europei hanno ridotto l’ambito di applicazione della fattispecie mettendo in risalto una serie di profili che appaiono ritagliati specificatamente al caso sotto indagine. Il Tribunale, infatti, non solo non adopera esplicitamente il termine self-preferencing (preferendogli favouring), ma soprattutto giustifica la sanzione facendo riferimento alla rilevanza di un motore di ricerca nell’ambito di Internet, al modello di business di quest’ultimo che per definizione si presenta aperto, alla posizione super-dominante detenuta da Google.

Quanto tale caratterizzazione del self-preferencing sopravviverà al vaglio della Corte di giustizia non è dato ancora sapere, ma certo la decisione del Tribunale non favorisce a prima vista una applicazione estensiva. L’AGCM, invece, nel caso Amazon si è fatta portatrice di una interpretazione molto ampia della fattispecie, visto che nel caso di specie non sono in alcun modo rinvenibili gli elementi caratterizzanti il caso Google Shopping. A ciò si aggiunga che mal si comprendono le ragioni che hanno spinto a caratterizzare come self-preferencing una pratica che la stessa Autorità ha definito come legante e che più propriamente rientra nell’alveo del bundling.

Alle rilevanti incertezze interpretative riguardo al self-preferencing si accompagnano altrettanto significative implicazioni economiche in termini di concorrenza ed innovazione. Nell’imporre un regime di neutralità per le piattaforme in nome della fairness e della salvaguardia dei piccoli operatori, il divieto di trattamento preferenziale si poggia su un pregiudizio nei confronti di qualunque forma di integrazione (verticale e orizzontale) in ambito digitale e, dunque, di fatto nei confronti degli ecosistemi. Ne scaturiscono interventi rimediali che, incidendo sul design, sull’organizzazione e sul modello di business di un ecosistema, possono pregiudicarne la capacità competitiva e frustrare gli incentivi ad innovare. E’ doveroso, inoltre, ricordare che gli ecosistemi non preesistono in natura ma sono frutto delle continue evoluzioni dei mercati digitali, ai quali le imprese fanno fronte con ingenti investimenti. In ambito digitale la concorrenza si sviluppa principalmente tra ecosistemi e tale tendenza è destinata ad accentuarsi per via delle enormi potenzialità dell’Internet of Things.

Le insidie ed i paradossi di un antitrust non adeguatamente ancorato a limiting principles sono dietro l’angolo. Nel caso di specie, ad esempio, dalla lettura della decisione si evince che il piccolo operatore maggiormente danneggiato dalla strategia di Amazon ha le improbabili sembianze di eBay, laddove invece i presunti danni subiti dai consumatori non emergono con chiarezza. E’ lecito interrogarsi sui benefici che i consumatori non avrebbero conseguito se Amazon non avesse sostenuto ingenti investimenti per dotarsi di un proprio sistema di logistica, nonché su quelli che perderebbero qualora Amazon rispondesse all’accusa di self-preferencing cancellando il servizio Prime: tutti i venditori online sarebbero trattati in modo uguale, gli operatori di logistica vedrebbero meno minacciata la loro posizione sul mercato, ma il prezzo lo pagherebbero gli utenti finali.

E’ per queste ragioni che, nel diritto della concorrenza, i limiti sono essenziali. Essi non rappresentano un difetto, bensì una virtù dell’antitrust. L’antitrust, infatti, non è chiamato a modellare i mercati, intervenendo sulla loro struttura e scegliendo vincitori e sconfitti, o ad assecondare obiettivi di policy adeguando all’occorrenza requisiti e teorie del danno. Anche a costo di essere impopolare e non allineato allo zeitgeist.

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