Magri e il sarto di Ulm. Perchè il deltaplano voli

Con “Il sarto di Ulm”* – un titolo bene augurante  dato che è vero che il sarto Albert Ludwig  Beblinger  morì sul selciato della cattedrale collaudando un suo primitivo deltaplano, ma è anche vero che l’uomo oggi vola –  Lucio Magri ci ha regalato non solo un bel libro, ma un invito a ripensare in un momento difficile per il nostro Paese  la storia del dopoguerra. Ripensamento necessario non solo per sottrarre la storia alla “critica roditrice dei topi”, ma perché alcuni interrogativi su un’esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato un secolo non hanno ancora trovato risposta o l’hanno trovata” in una forma molto superficiale e dettata dalle convenienze: abiura o rimozione”. Ciò e’ avvenuto in particolare per quanto riguarda il PCI e, dunque, un’impresa collettiva che ha coperto vari decenni e che “va considerata e compresa nel suo insieme” senza frettolose sepolture.

Magri parte da lontano: dalla prima guerra mondiale, senza la quale non ci sarebbe stata la rivoluzione russa, e dal periodo immediatamente successivo ad essa cercando di spiegarsi e spiegare la dinamica del processo rivoluzionario  e della nascita dei partiti comunisti. L’arco di storia sul quale egli riflette giunge ai nostri giorni per tentare di rispondere, alla luce dei successi e delle sconfitte del passato e delle novità intervenute,  alla domanda su quale “forma partito”  sia  necessaria oggi, in una fase in cui due punti fondanti del partito gramsciano – il carattere totalizzante del partito e il suo ruolo pedagogico  – sono messi in discussione. Punto di partenza necessario, a giudizio di Magri, è il riconoscere  la necessità di una dialettica con i movimenti in cui parti della società sono andati organizzandosi. Occorre riconoscere fino in fondo la loro autonomia  (il riconoscimento, ovviamente, deve essere reciproco) ed ambire a confrontarsi con essi e non soltanto a rappresentarli. Ed occorre riformare le due grandi strutture che condizionano la soggettività in una società moderna, scuola e sistema della comunicazione, al fine da affrancarle dal centralismo burocratico e dai possenti poteri che le controllano.

Come forse alcuni sanno, a Lucio Magri mi legano un’antica amicizia, rinnovata ad ogni incontro, e una felice collaborazione di studio e di lavoro, spesso approdata  a  positivi risultati.  In tutto ciò si inserì, tuttavia, un rilevante dissenso politico quando, alla fine degli anni sessanta, Lucio decise, con Luciana Castellina, Valentino Parlato, Luigi Pintor  e Rossana Rossanda, di dare vita a Il Manifesto. Il PCI aveva da poco eletto come suo vicesegretario, e di fatto come segretario vicario (Longo non stava bene), Enrico Berlinguer nel quale io riponevo piena fiducia. Scegliere quel momento per dare vita a quello che si profilava, e poi di fatto divenne, un gruppo politico in polemica con il PCI, invece di accogliere con favore lo sforzo unitario, le correzioni subito introdotte e apprezzarne la tolleranza verso la stessa iniziativa assunta da alcuni compagni, mi sembrò fatto inopportuno. Da qui il nostro dissenso, anche se puramente di linea politica e non certo aspro come fu invece quello che mi separava dai detrattori di Lucio e dei suoi compagni.

Quel dissenso torna ora a manifestarsi su un punto dell’esame che Magri fa degli anni settanta. Magri ripropone  infatti pressoché immutato il giudizio di allora. La tesi di Magri è che gli anni settanta furono per il PCI quasi del tutto negativi: mancarono, a partire dal XII Congresso (1969), scelte innovative che tenessero conto e del sessantotto e di ciò che il movimento studentesco rappresentò e, di contro, della crisi profonda e strutturale dell’intero assetto capitalistico.  Ora, a mio avviso,  il XII° congresso è proprio il congresso che elesse Enrico Berlinguer vice segretario e che, per merito di Luigi Longo, tentò di sanare le ferite inferte a molti di noi (Berlinguer compreso) dall’ XI° Congresso, le cui tesi, cui Magri collaborò, erano tuttavia sopravvissute allo scontro e rappresentavano ancora  un punto avanzato dell’elaborazione della sinistra. Far apparire il XII° Congresso e l’elezione di Berlinguer a vice come un’operazione di Giorgio Amendola è fare un’operazione errata, quali che siano i limiti che quel Congresso indubbiamente  ebbe. L’elezione di Enrico fu una operazione innovativa di Luigi Longo, che l’aveva preannunciata quando, in una riunione di direzione del febbraio del 1968, con un colpo di scena, aveva forzato un riluttante Enrico ad accettare la candidatura a deputato, divenuta “necessaria”. Fu tanto innovativa che, non molto tempo dopo la sua elezione a vice, fu Berlinguer, l’11 giugno del 1969,  ad annunciare formalmente alla Conferenza dei partiti comunisti di Mosca che “noi respingiamo il concetto che possa esservi un modello di società socialista, unico e valido in tutte le situazioni” e fu Berlinguer che, dopo  aver manifestato “seri dubbi sulla scientificità  dell’analisi posta a base dei documenti”,  rifiutò di firmare il documento finale della Conferenza.  Ricordo ancora la gioia di Ugo La Malfa per la possibilità che si apriva di avviare con noi un confronto non ideologico.

Il punto centrale che porta Magri a dare il suo giudizio critico è la riflessione di Berlinguer sui fatti del Cile da cui scaturì la politica del compromesso storico.  Magri fa alcune considerazioni sulle quali vale la pena di discutere e riflettere (sì, anche oggi), ma ripropone  al dunque la “critica netta” che ne fece allora: la proposta del compromesso storico fu una proposta di matrimonio con la DC in un momento in cui si poteva invece azzardare molto. “Assumere l’esperienza cilena come un esempio non solo era una forzatura ma era deviante”.  Non ho alcuna intenzione di riproporre le mie posizioni di allora: il PCI non c’è più e neppure la DC. Vorrei solo ricordare  non solo la situazione economica di quegli anni  – come Magri correttamente fa – caratterizzata da una profonda crisi economica, da una inflazione al 20 per cento,  ma la gravità della minaccia del terrorismo;  non a caso gli anni settanta sono passati alla storia come gli anni di piombo: 1969, strage di Piazza Fontana; 1970, strage di Gioia Tauro; 1972, strage di Plateano; 1973, strage della questura di Milano; maggio 74,  strage di Piazza della Loggia a Brescia; agosto 1974, strage del treno Italicus… Era sbagliato pensare che dietro tutto ciò ci fossero gli stessi personaggi e gli stessi servizi che avevano operato in Cile?

Anche come testimone degli incontri tra Berlinguer e Moro, nego che il dialogo sul compromesso storico vertesse su un connubio tra PCI e DC. Riconosco che ci fu una parte della stampa e alcuni politici (Franco Rodano e Giovanni Galloni, tra gli altri) che intesero e cercarono di fare intendere che il compromesso storico mirasse all’incontro anche ideologico tra i due grandi partiti di massa. Ma per Berlinguer e Moro fu altra cosa: fu il tentativo di rimuovere il veto americano, divenuto operativo nel 1947 e presidiato con tutti mezzi disponibili da Kissinger – in Europa, come in Indonesia e Cile  – a qualsiasi ipotesi di porre laicamente il partito comunista sullo stesso piano degli altri partiti per quanto riguardava il suo diritto ad accedere un giorno al governo,  diventando maggioranza  o membro di una maggioranza. Fu insomma, prima di tutto, una operazione che tendeva a ripristinare una normalità costituzionale violata per interferenza straniera. Che da ciò potessero derivare situazioni politiche nuove e nuove responsabilità per il PCI è indubbio. Ma il compromesso storico non è un accordo di governo, che arriverà solo dopo una trattativa con tutti i partiti dell’arco  costituzionale ; è un accordo – che sarà fatto pagare ad Aldo Moro con la vita  – per il rispetto della Costituzione Italiana e l’avvio di una democrazia priva di veti, aperta ad accordi, alternative, alternanze tra tutte le forze in campo. Gli anni settanta, iniziati con l’approvazione della legge sul divorzio, saranno anche gli anni dello Statuto dei diritti del lavoratore, della riforma del diritto di famiglia (con la parificazione dei coniugi nel governo della famiglia e nella potestà dei figli e dunque con un grande passo avanti a favore delle donne), delle prime elezioni regionali  e della istituzione del Sevizio sanitario nazionale.

A mio avviso, il declino del PCI non comincia con il compromesso storico, ma con le scelte del 1980 che Magri individua come foriere di una svolta strategica, culturale e politica, finalmente positiva operata da un “secondo Berlinguer”.  Io ho votato  quelle scelte e ne porto la responsabilità, ma volgendomi indietro ne vedo l’erroneità. Quelle scelte presupponevano infatti un rapporto con il PSI che non esisteva, data le profonde diversità tra Berlinguer e Craxi e la difficoltà di Enrico (che gli fu rimproverata) a parlare con l’erede di Pietro Nenni. In assenza di questo rapporto o, se si vuole, a causa dei troppi e discordanti rapporti che dirigenti del PCI tenevano con questo o quell’esponente minore del PSI, quelle scelte ci condannavano all’isolamento  – come di fatto avvenne – o, di contro,  ad un’alleanza, certo non di governo, con gruppi della sinistra privi di ogni confine con forze estremiste o mercenarie. A me sembra che allo sbocco negativo del governo di solidarietà nazionale, cui Berlinguer tentò di far fronte con la svolta del 1980, contribuì in modo decisivo non solo la gestione che Andreotti fece del governo, ma anche la crescente divaricazione che era andata determinandosi tra PCI e sindacato. Non si tratta solo delle interviste di Lama, dato che all’origine  di tale divaricazione dette un possente contributo la cosiddetta “sinistra sindacale.”  Si tratta di qualcosa di più profondo. Negli anni settanta il sindacato mutò di fatto struttura e ruolo.  Morì il sindacato di Di Vittorio e nacque il “sindacato dei consigli” che tenne indubbiamente conto del nuovo che c’era nelle fabbriche ma che, su richiesta della Cisl, fu pagato con lo scioglimento delle Camere del Lavoro. Fu così liquidata una struttura che non solo creava a livello di territorio un rapporto tra i sindacati, correggendo l’inevitabile corporativismo di ogni struttura verticale, ma che funzionava da punto di riferimento per tutti i cittadini e da strumento importante della socializzazione della politica, di un controllo democratico dal basso che impedisse la separazione tra ceto politico e opinione pubblica. Con lo scioglimento delle Camere del Lavoro venne meno uno strumento importante  di quella “autoeducazione collettiva “  di cui Magri, guardando all’oggi, sottolinea l’importanza . Allo smantellamento delle Camere del Lavoro si unì, in nome dell’unità sindacale, la riduzione della corrente comunista a piccola minoranza in tutti gli organismi sindacali. La norma che attribuiva ad ogni confederazione il trenta per cento dei consiglieri portò i lavoratori che votavano PCI ad avere al vertice di ogni sindacato meno del 20 per cento e i lavoratori che votavano PSI ad avere (per la somma tra quota Uil e quota Cgil) il 40 per cento. L’asse CISL- Uil non nasce oggi. Nacque negli anni settanta certamente con la firma di Lama, ma anche con quella di Vittorio Foa , Bruno Trentin, Pierre Carniti.  Ha perfettamente ragione Magri quando rileva che nel corso degli anni settanta sarebbe stato necessario definire un nuovo assetto del potere e un nuovo modello di sviluppo. Ma con chi?

E’ grande merito di Magri, il quale, come ho detto, spinge la sua analisi critica fino all’oggi,  rompere l’inerzia anche intellettuale in cui l’Italia sembra adagiata, accendere interesse per una rilettura di Marx e consentire ai lettori di tornare a respirare un’atmosfera culturale e politica diversa. Non ho annotato prima che la sua lettura  della figura e della strategia di Togliatti è originale e imperdibile. Mi perdonino i lettori e Magri se io ho cercato di rendere chiaro – quasi isolandolo dal contesto   il punto politico che  ci divide. L’ho fatto non solo e non tanto per dare a Berlinguer – una delle più illustri vittime dei puntuti dentini dei topi – quello che è suo,  ma anche per spingere le forze cui sono vicino a ben riflettere oggi sulla strutture necessarie ad una democrazia partecipata e, dunque, al “superamento della separazione tra ceto politico e opinione pubblica.”  E’ indubbio che Berlinguer riuscì a dare il massimo contributo ad un rapporto con tutta l’opinione pubblica  – condizione  necessaria  perché il deltaplano voli – ma è altrettanto indubbio  che questo rapporto fondò le  basi più sul prestigio della sua persona che su strumenti autonomi e diversi della socializzazione della politica.

 

*Lucio Magri, Il sarto di Ulm, pag. 454, ed. Il Saggiatore, Milano, 2009.

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