L’uscita dall’euro: perché non è centrata l’analisi di Rodano

Salvatore Biasco, in un articolo di cui qui pubblichiamo la prima parte, esamina l’analisi di Giorgio Rodano (Menabò n. 26) sulle conseguenze dell’uscita dall’euro e sostiene che essa non tiene conto dei mercati finanziari e dei danni patrimoniali che si avrebbero, dai quali potrebbe derivare anche il crollo del sistema bancario. Inoltre, Biasco ritiene poco appropriata un’analisi statica perché non può esaminare sequenzialmente e in modo dinamico gli eventi innescati dall’uscita dall’euro che potrebbero investire anche l’economia mondiale.

Non posso negare di essermi simpaticamente coinvolto seguendo il modellino costruito da Giorgio Rodano per esaminare le variabili in gioco in una eventuale uscita dell’Italia dall’euro e da lui sintetizzato di recente sul Menabò. Rodano, da economista sofisticato qual è, ci offre un’analisi molto nitida e sintetica, ma il suo è pur sempre un esercizio, col quale si può familiarizzare prendendolo per quello che è, un divertissement. Ha comunque il merito di dimostrare che, pur semplificando al massimo, la questione dell’uscita dall’euro è più complessa di come viene posta dai suoi fautori. Il modello rimane, tuttavia, un giocattolo analitico con una tangenziale attinenza alle questioni centrali, metodologiche e di impostazione, implicate dalla questione in oggetto. Rodano sbaglia a presentarlo in altro modo, come una trasposizione in chiave scientifica (alias matematica) di temi dibattuti non so bene in quale altra chiave

Le mie considerazioni critiche riguardano solo il modello nella versione a cambi fissi (nell’euro) e a cambi variabili (abbandono della parità) e le sue principali conclusioni. Come tali esse certamente non rendono giustizia a molte interessanti considerazioni anche di carattere analitico.

A mio parere, l’impostazione di Rodano è fuorviante per tre motivi. Primo, perché la questione si gioca da un punto di vista patrimoniale, ed ha quindi bisogno di un’analisi degli stock prima che dei flussi. Di conseguenza, il centro dell’analisi è nel comportamento dei mercati finanziari e nelle ripercussioni che si generano sui patrimoni nei vari settori dell’economia. In secondo luogo, perché l’analisi necessaria è dinamica e sequenziale; quell’analisi, cioè, che partendo dall’evento, ne segua in successione temporale tutte le attivazioni che produce. Un’analisi di statica comparata svolta nell’alveo si una semplificata IS-­LM in mercato aperto (per intenderci, dell’equilibrio generale dell’economia, a­temporale) non serve. Nella statica compara­ta, il mutamento di una variabile esogena (ad esempio il tasso di cambio) consente di confrontare l’equilibrio antecedente e quello conseguente al mutamento. Si scomoda il concetto di causalità, ma in realtà lo schema è privo del tempo, è pa­rametrico, tiene fermi “gli stati del mondo” (siano essi aspettative, contesti sociali, tutte le altre eso­gene, i comportamenti, ecc.) e non può dirci come si passa da un equilibrio all’al­tro. Gli economisti non sono più abituati a ragionare in termini di­namici e sequenziali, tenendo conto che un movimento produce ulteriori mo­vimenti, che cambiano aspettative, comportamenti e scala dei fenomeni: i sentieri sono spesso irreversibili (path dependent, in termini tecnici) e le traietto­rie procedono spesso a spirale espansiva o regressiva per cui le nuove posizioni statiche e virtuali di equilibrio potrebbero non signi­ficare nulla, né essere un attratto­re tendenziale.

In terzo luogo, le relazioni stesse del modello finiscono per essere opinabili perché influenzate dalle due omissioni precedenti. Alcune lo sono per ragioni intrinseche del modello medesimo che espunge le aspettative e richiede un “a parità di condizioni esterne”. Di conseguenza, ad esempio, l’uscita dall’euro non influenza in alcun modo l’economia mondiale e le conseguenze di una svalutazione possono essere esaminate con le impostazioni standard.

Rodano è ben cosciente che i mercati finanziari sono un punto sensibile, ma poi ragiona soltanto in termini reali, come se le misure che egli giustamente elenca come necessarie di fronte a un’uscita dall’euro assicurassero la neutralità di quei mercati necessaria per dare via libera alla sua analisi. Presume, senza analizzarle, che quelle misure funzionerebbero. D’altra parte il suo interesse è rivolto al momento in cui la situazione è stabilizzata (mio Dio! quando? Potrebbero passare decenni, per via delle conseguenze dinamiche, prima che le condizioni di instabilità siano riassorbite).

Esiste un debito pubblico italiano pari a 2300 miliardi di euro di cui 1700 sul mercato privato, che costituisce ricchezza per i creditori. Esistono debiti e crediti tra privati e possessi azionari significativi anche fuori dal settore societario o finanziario. Del debito pubblico sul mercato, un terzo è posseduto da banche italiane (l’altro, oltre che dall’estero, da assicurazioni, privati e fondi pensioni italiani). Che entità di perdita di ricchezza si verificherebbe per i creditori nell’eventualità di un’uscita dell’euro (o di una rottura) o di un default? o anche di un salto dell’inflazione? Mi è impossibile capire perché sia così difficile partire da qui (non solo per Rodano, il cui modello ha pulsioni neutre e scientiste sull’uscita dall’euro, ma per tutti coloro che ne auspicano l’evento); forse perché la IS-LM (o la Mundell-Fleming, che è la sua estensione ai rapporti con l’estero) non include i patrimoni? O per quella presunta neutralità assicurata da misure di economia di guerra che Rodano cita in partenza? La Bri (nella Relazione annuale di luglio 2013) ci avverte che gli strumenti analitici con i quali vanno analizzate le deflazioni patrimoniali sono diversi da quelli riferibili alle deflazioni tradizionali. E qui si tratta senza ombra di dubbio di una deflazione patrimoniale, potenziale o reale che sia.

Una questione preliminare domina su tutte: l’uscita dall’euro avviene con o senza ristrutturazione del debito? Logica vuole che, fatto il passo del ritorno alla lira, non ci si porti appresso tutto il debito. Va almeno conquistato un po’ di respiro, allungando le scadenze a parità di interessi e prevedendo un periodo di grazia di almeno due-­tre anni. Questa è una sorta di haircut (il più blando immaginabile) che può valere una caduta del corso dei ti­toli di Stato dal 15 al 20% (sempre che il mercato creda che con que­sta ristrutturazione l’Italia possa farcela e non ritenga, invece, che essa non escluda nuove decurtazioni in futuro e perciò lo sconti ulteriormente il prezzo dei titoli). Quelli offerti per il rinnovo del debito in scadenza dovrebbero (dopo il periodo di grazia) incorpo­rare tassi di interessi notevolmen­te elevati, che tengano conto, oltre che del default possibile, anche dell’inflazione corrente e attesa che segue la svalutazione. Le ripercussioni sul mercato secondario non avrebbero, però, un periodo di grazia e sarebbero immediate. Ed è sul mercato secondario – dove agiscono le aspettative – che si misurano tutte le conseguenze degli effetti patrimoniali. Forse un esempio non guasta. Poniamo che l’inflazione da 0 salti al 6% e la cedola di un titolo decennale salti dal 2% all’8%. E’ di scarsa consolazione per chi detiene le vecchie obbligazioni (emesse al 2%) che i tassi reali siano rimasti invariati. Le vecchie si allineano alle nuove per produrre lo stesso rendimento nominale: se la vita residua è di 8 anni il valore sul mercato è all’incirca il 55% del valore di rimborso (e se è di 5 anni è di circa il 70%). In più, se monetizzate, avranno un potere di acquisto decurtato dall’inflazione. Se i tassi di interesse incorporano anche una probabilità che il credito sia decurtato di un quarto del suo valore nominale nel giro di 5 anni a causa di un default ritenuto probabile al 30%, i tassi del nostro esempio non saranno pari all’8% ma nei due casi circa il 10,5% e 11,5% e le obbligazioni varranno intorno al 30 e al 50% del valore nominale (molto meno se la probabilità o la decurtazione sono maggiori).

Potrebbe non esserci la ristrutturazione del debito e l’uscita dall’euro avvenire con solenne dichiarazione che tutto il nostro debito sarà ono­rato. Ma chi ci crederebbe? Chi non si tutelerebbe contro il doppio even­to (inflazione e possibile haircut) chiedendo tassi di interesse eleva­ti? L’Italia dovrebbe dimostrare di poter crescere nelle nuove condizio­ni almeno il 3%-­4% l’anno per rendere sostenibile il debito. A parte che questo si decide ex post, vedre­mo poi quanto sia irrealistico. Rodano per la verità considera inevitabile il default, ma lo introduce solo per tenere gestibile analiticamente la sua equazione rappresentativa del pareggio di conto corrente. La tratta come se non avesse altra ripercussione né interna né esterna in un mondo pieno di fragilità – dalla crescita mondiale alla Cina, dal petrolio all’indebitamento mondiale, dalla situazione geo politica al bilico in cui si trova la costruzione europea ecc., ecc. Né potrebbe averla in un modello che non include saggi di interesse nelle determinanti dell’equilibrio statico (se non implicitamente per l’eguaglianza ipotizzata di domanda e offerta di moneta) e che altrettanto, essendo privo del tempo, non può dirci quando l’evento si verificherebbe, se contestualmente o strada facendo.

O, forse, si crede che chiuden­do il mercato dei cambi, proiben­do rigorosamente i movimenti di capitale, e affidando alla Banca Centrale – tornata indipendente – il compito di sostenere i corsi delle obbligazioni attraverso l’acquisto di titoli di Stato sia assicurata quell’ “a parità di condizioni” (tanto cara alla statica comparata) che consente a ogni variabile di fare il lavoro a essa attribuito dai libri di testo e di escludere conseguenze sui patrimoni? Chi comprerebbe dopo l’evento un titolo di Stato decennale (o socie­tario) con un rendimento lordo im­plicito inferiore al 2%? Piuttosto chi lo avesse in portafoglio lo venderebbe prima che sia troppo tardi e le vendite sarebbero una valanga.

Con frontiere chiuse o aperte che siano, se la banca centrale pro­vasse a sostenere i corsi sul mer­cato secondario, in una sorta di quantitative easing nostrano, e of­frisse tassi irrealistici, si trovereb­be invasa da titoli del debito pub­blico, di cui rapidamente si sba­razzerebbero i privati a cui viene offerta l’occasione di uscire al valore nominale (o qua­si). La banca centrale nazionale si troverebbe costretta a tornare ra­pidamente indietro o per lo meno ad adeguare i tassi a ciò che è gestibi­le, a meno che non sia disposta ad assorbire un ammontare di titoli di molto superiore a quanto Draghi programma per tutta l’area dei 19 paesi dell’euro con tempistica di un anno e mezzo. Chiunque volesse portare a paragone il quantitative easing giapponese, inglese o statu­nitense, dimostrerebbe di non capi­re che: a) la dimensione dell’inter­vento per tenere i tassi bassi sareb­be in Italia enorme rispetto alla dimensione del Paese, quindi non gestibile (al­trove è stata dopo tutto comparati­vamente contenuta ed è avvenuta in tutt’altre condizioni del merca­to); b) che si tratterebbe di un quan­titative easing in presenza di possibilità di default – ulteriore o primario che sia – del tutto assenti nelle esperienze degli altri paesi; c) infine, vi sarebbero aspettative di inflazio­ne (anch’esse assenti nel caso degli altri paesi). Lì il gioco è stato con­dotto dalle banche centrali, qui sa­rebbe condotto dai privati e sareb­be insostenibile.

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