Luoghi comuni e Università

FraGRa muovono dall’osservazione che finalmente l’Università sembra ricevere, nel dibattito pubblico, un’attenzione adeguata al suo ruolo e alla sua importanza. A loro avviso, tuttavia, in tale dibattito ricorrono affermazioni che rischiano di trasformarsi in veri e propri luoghi comuni. FraGRa prendono in esame cinque di questi luoghi comuni, sostengono che le basi su cui poggiano sono molto fragili e invitano a liberarsene per permettere al dibattito sull’Università di dare i migliori frutti.

L’Università sembra essere tornata al centro della discussione pubblica e per più di un motivo. E’ un bene che sia così. L’Università è indispensabile per acquisire le conoscenze avanzate richieste dall’economia dell’informazione e, d’altro canto, l’accesso all’Università è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per realizzare l’uguaglianza di opportunità. Ma il nostro paese, ormai da molti anni, sembra aver dimenticato tutto ciò. A questo riguardo possono essere sufficienti pochi dati che traiamo dal Rapporto per l’Osservatorio su Ricerca e Innovazione (RIO) della Commissione-JRC (Nascia, Pianta, Isella, RIO country report: Italy 2016, JRC European Commission). La spesa pubblica per le università statali si è ridotta, tra il 2008 e il 2014, del 14%; quella per Ricerca e Sviluppo(R&S) tra il 2008 e il 2016 è diminuita, in termini reali, del 21%; il divario tra l’Italia e gli altri maggiori paesi europei rispetto a spesa privata per R&S, personale impiegato in R&S, studenti universitari e laureati dopo la crisi si è allargato. Infine, tra il 2009 e il 2015, il numero dei docenti è diminuito di 10.528 unità (da 60.822 a 50.354).

Per questo è una buona notizia che si riprenda a dibattere di Università. E’, però, importante che questo dibattito si svolga nel modo più informato possibile e con le menti sgombre da pregiudizi e luoghi comuni. A noi pare che, invece, affiorino di frequente diversi luoghi comuni che mostrano la loro fragilità a un esame appena un po’ più attento. In questo Contrappunto esamineremo brevemente 5 affermazioni ricorrenti che a noi sembrano altrettanti fragili luoghi comuni.

Il primo luogo comune può essere enunciato così: “compito primario dell’Università è premiare l’eccellenza”. Sarebbe davvero paradossale se qualcuno, dotato di un minimo di ragionevolezza, affermasse che l’Università deve premiare l’ignoranza, la nullaggine o l’incompetenza. Il punto è che, se intesa in modo adeguato alla sua complessità, l’eccellenza ha una pluralità di dimensioni e non può essere facilmente ridotta a un semplice numero, contrariamente a quanto induce a credere la sbornia di graduatorie e classifiche di cui rischiamo di essere vittime. Ma vi è di più: sapere ex ante cosa sia l’eccellenza è quasi sempre difficilissimo, se non proprio impossibile. In una recente intervista, Nick Bollettieri, il grande allenatore di talenti tennistici come Agassi, Courier, Seles e le sorelle Williams alla domanda “Come fa a scovare i numeri 1”? ha risposto: “Mai partire con l’idea di creare campioni. Se riesci a ottenere il meglio dai tuoi giocatori, i risultati arriveranno”. In altri termini, ciò che conta è stimolare ciascuno a dare il meglio di sé e ciò vale non soltanto per il tennis ma anche per l’università. Inoltre, stimolare a dare il meglio ha anche altri vantaggi; uno di essi è che si evita il rischio di sollecitare comportamenti opportunistici o sleali e, invece, si favorisce una modalità di competizione che non va a detrimento della cooperazione.

“L’istruzione universitaria è un bisogno esattamente come lo è l’assistenza sanitaria”. E’ questo il secondo luogo comune sul quale ci vogliamo soffermare che sembra diffuso soprattutto tra i giovani. Questo luogo comune ha un importante corollario: l’accesso all’università deve essere gratuito come lo è quello all’assistenza sanitaria. La questione cruciale, in questo caso, è se l’Università soddisfi un bisogno o, invece, non costituisca un’opportunità. I confini tra bisogno e opportunità sono tenui, certamente meno netti di quanto normalmente si assuma. Ad esempio, se si vuole rispettare la libertà di scelta individuale, per i maggiorenni e chi è ritenuto in grado di intendere e volere, la soddisfazione stessa dei bisogni dovrebbe essere garantita come opportunità e non essere imposta, come ben ci insegna Sen. Al contempo, sia per soddisfare un bisogno sia per cogliere un’opportunità è necessario possedere appropriate capacità o trovarsi in specifiche condizioni: non ha senso, ad esempio, erogare l’insulina a chi non è diabetico. Ma pur riconoscendo queste similarità non si può mancare di osservare che le opportunità, diversamente dai bisogni, riguardano beni o servizi il cui godimento richiede anche competenza e sforzo. L’istruzione universitaria ricade in questa nozione allargata di opportunità. Dunque, non è esattamente un bisogno.

Tutto ciò naturalmente non vuol dire che debba essere ignorata l’influenza che il contesto esercita sulla capacità di acquisire competenze e di sforzarsi: come argomenta Scanlon, attribuire a qualcuno un dato comportamento non è la stessa cosa che considerarlo interamente responsabile (punibile o premiabile) per quel comportamento. Per neutralizzare o, meno ambiziosamente, contrastare il ruolo del contesto sulle capacità di apprendere appare, tuttavia, desiderabile intervenire nelle prime fasi dell’istruzione piuttosto che all’ultimo stadio, quello dell’Università, quando ormai contano le competenze acquisite e lo sforzo.

In ogni caso, anche se non si condividesse questo ragionamento e si ritenesse che l’istruzione universitaria soddisfa un bisogno, non per questo l’accesso all’Università dovrebbe essere gratuito. In sanità, la gratuità si giustifica poiché il bisogno ha la natura di rischio: non si sa ex ante se ci si ammalerà e quando. Data questa realtà, l’efficienza giustifica il trasferimento del rischio dal soggetto avverso a quello neutrale attraverso l’assicurazione che permette di ripartire il rischio fra tutti gli altri assicurati, pagando solo un premio pari al rischio medio (più i costi amministrativi) anziché l’intero costo dell’assistenza nel caso in cui si incorra nella malattia. L’istruzione universitaria presenta caratteri ben diversi. Il rischio non gioca alcun ruolo nel senso che la decisione di istruirsi è una scelta individuale consapevole. Per sostenere la gratuità occorrono altri argomenti, ad esempio quella della difficoltà ad applicare la selettività che si desidera nell’accesso.

Il terzo luogo comune, per certi versi, opposto al precedente, è questo: “Abbassare le tasse universitarie favorisce i più ricchi, che sono i maggiori ‘utilizzatori’ dell’Università”. Il corollario, in questo caso, sarebbe che occorre alzare le tasse universitarie per ragioni di equità. Il difetto principale di questo luogo comune è che non ci si può pronunciare sugli effetti redistributivi di un abbassamento delle tasse se non si precisa la modalità con la quale verrà colmata la perdita di entrate che esso determina. Tale modalità può penalizzare i ricchi – in caso di forte progressività delle imposte – più di quanto li avvantaggi la riduzione delle tasse universitarie oppure può avere l’effetto opposto.

D’altro canto, alzare le tasse renderebbe necessario per alcuni ricorrere a prestiti che potrebbero essere anche molto elevati, considerando non soltanto le tasse ma il costo complessivo dell’istruzione universitaria. E incominciare la vita adulta oberati da debiti non sembra coerente con il principio dell’uguaglianza di opportunità.

L’istruzione ha forti elementi di beneficio privato e ciò implica che in presenza di basse tasse universitarie il beneficio maggiore sarà per chi guadagnerà di più. Il rimedio a questa apparente iniquità consiste nel far pagare più imposte a chi più guadagna, e questo costituisce un ulteriore argomento a favore della progressività delle imposte.

Il quarto luogo comune è collegato al precedente e può essere enunciato in questo modo: “per non aumentare le tasse, le università devono fare sempre più ricorso al finanziamento da parte di imprese e organizzazioni private”. Anche a prescindere dal rischio d’incastri viziosi, per cui di fatto il sussidio va in una direzione ben diversa da quella auspicata (rischio da non sottovalutare, in particolare nel nostro paese) aprire ai finanziamenti privati significa semplicemente ri-orientare le finalità della ricerca. Non c’è nulla di male a tenere conto degli interessi commerciali, ma l’elemento distintivo dell’università pubblica deve , a nostro parere, la ricerca autonoma e con finalità pubbliche. Se nessuna impresa ha interesse a finanziare la ricerca di cure contro le malattie rare o di cure che possono essere sviluppate solo su orizzonti temporali molto lunghi (come nel caso recente dell’Alzheimer) non sorgerebbe un serio problema? D’altro canto, in innumerevoli casi la ricerca pubblica ha svolto una funzione di volano per la crescita dell’economia privata. Dunque, non mancano le ragioni perché alle Università sia assicurato un finanziamento pubblico di base adeguato ad assicurarne il corretto funzionamento.

Infine, l’ultimo luogo comune sul quale ci soffermiamo è quello secondo cui “il corpo docente oggi sarebbe di qualità migliore rispetto al passato”. Il primo problema che sorge è quello di individuare con qualche precisione il passato (quanti anni indietro occorre risalire? Vale per ogni epoca precedente?). Il secondo riguarda gli indicatori utilizzati per formulare un simile giudizio. Si è già detto che l’eccellenza ha molteplici dimensioni e ciò pone notevoli difficoltà anche nei confronti intertemporali. Ma il problema principale deriva dal fatto che non è corretto, in generale, confrontare le performance di generazioni diverse di ricercatori senza tenere nel giusto conto le differenze nei sistemi di incentivo, nelle norme sociali e nei criteri per valutare il merito. E non è corretto mancare di riconoscere le difficoltà che – indipendentemente dal merito – possono sorgere a modificare comportamenti radicati, ad iniziare da quelle che sorgono a ridefinire i network di appartenenza. Ciò naturalmente non vuol dire che nulla si possa dire sul passato e non si possano, ad esempio, giudicare molto negativamente gli esiti ben poco meritocratici di diversi concorsi universitari locali. Ma quel che non va bene è la generalizzazione basata su criteri di valutazione introdotti di recente e efficaci, per ovvie ragioni, soprattutto nei confronti dei più giovani.

In conclusione, il nostro auspicio è che il dibattito sull’Università si sviluppi con il più ampio respiro e non resti condizionato da luoghi comuni che limitano, senza valide ragioni, la ricerca delle soluzioni migliori. Sarebbe un passo avanti se invece di parlare di eccellenza si parlasse di contributo al miglioramento; se il problema delle tasse universitarie venisse affrontato tenendo conto della natura dell’istruzione universitaria e della necessità del concorso di altri strumenti per perseguire obiettivi di equità; se non si dimenticasse l’importanza della ricerca pubblica e autonoma e se, infine, non si cadesse nell’errore di confrontare con metri inidonei il presente con il passato.

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