L’Unione Europea tra divisione esistenti e rischi d’inflazione futura: una riflessione nel ricordo di Andrea Ginzburg

Paolo Paesani traendo spunto dal pensiero di Andrea Ginzburg riflette sulle differenze tra paesi europei nel rispondere alle medesime sollecitazioni di policy e, più in generale, sulle asimmetrie tra centro e periferia che caratterizzano l’Unione Europea. In questa prospettiva Paesani conclude evidenziano i rischi che le tensioni inflazionistiche attuali possono comportare in termini di riduzione della coesione all’interno dell’Unione Europea.

Lo scorso 5 novembre, presso la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna si è tenuto un incontro in ricordo di Andrea Ginzburg, in collaborazione la Biblioteca “Walter Bigiavi” dell’Università di Bologna, alla quale la famiglia Ginzburg ha donato la biblioteca dello studioso. L’incontro ha offerto l’occasione per riflettere sulle idee di Ginzburg in materia di Unione, tema del quale si occupa il suo ultimo libro, Una Unione divisiva, scritto insieme Giuseppe Celi, Dario Guarascio e Anna Simonazzi.

Il libro, del quale si è occupato anche il Menabò, offre una prospettiva al tempo stesso ampia e profonda sull’evoluzione dell’integrazione europea, combinando molteplici fatti all’interno di un quadro coerente, in una prospettiva attenta alle asimmetrie, alle differenze, ai mutamenti, alla molteplicità dei nessi di causalità. Questo approccio rimanda all’impostazione di A. Hirschman, autore a lungo indagato da Ginzburg, e rifugge da ogni forma di determinismo, interpretando i cambiamenti e le contraddizioni della realtà alla luce di una solida conoscenza delle teorie economiche, delle istituzioni, della politica, della storia. Queste brevi note, nate dalle riflessioni emerse durante l’incontro, cercano di fornire una piccola dimostrazione della natura di “opera aperta” del libro di cui qui parliamo e della molteplicità di suggestioni che da esso si possono trarre.

Nell’analizzare l’economia europea, Ginzburg e i suoi coautori identificano una struttura tripartita, composta da un centro e due periferie. Il centro è composto dalla Germania, che domina la UE, dai paesi che le sono più affini dal punto di vista istituzionale, politico e culturale (Austria, Paesi Bassi, Belgio) e dalla Francia, in posizione eccentrica. La periferia orientale include Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, nazioni entrate a far parte di un nucleo manifatturiero dell’Europa centrale, strettamente integrato con il sistema produttivo tedesco e sempre più dipendente dalle decisioni che lì vengono prese. La periferia meridionale, infine, comprende l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, paesi che dopo aver tratto, nei primi anni, significativi vantaggi dall’integrazione europea, stanno sperimentando da tempo un indebolimento dei legami con la Germania e una situazione economica complessivamente molto difficile.

Il successo economico della Germania, passata nel giro di pochi anni da malato d’Europa a superstar, è dovuto a una molteplicità di fattori – tra cui moderazione salariale e contenimento del costo del lavoro – determinati dall’indebolimento dei sindacati, dalla crescente importanza della contrattazione decentrata, dalle riforme Hartz che hanno spinto molti lavoratori tedeschi, nel terziario e nei settori manifatturieri a basso valore aggiunto, verso mini-job, salari molto bassi e condizioni occupazionali precarie. Le ricadute negative di questo stato di cose sul tenore di vita di ampi strati della popolazione tedesca sono state limitate dal parallelo contenimento dei prezzi dei beni-salario, dagli affitti ai beni di consumo primario. L’aver puntato su mercati in ascesa e l’integrazione crescente della manifattura tedesca con i sistemi produttivi dell’Europa dell’est – ampiamente documentati nel testo – hanno fatto il resto.

Questa penetrazione è il risultato di un progetto più ampio, come ha documentato Ivan T. Berend nella sua recente storia dell’integrazione Europea (Berend, I.T. 2016. The History of European Integration. A New Perspective., Routledge). Secondo Berend, forti interessi imprenditoriali hanno sospinto l’integrazione europea dalla firma dell’atto unico nel 1986 al lancio dell’euro nel 1999. La necessità di competere con le multinazionali statunitensi e giapponesi ha indotto le grandi imprese europee a fare pressione sulle autorità politiche perché venisse finalmente creato un vero mercato unico, di dimensioni continentali, senza barriere, dove sfruttare economie di scala e scopo. Con la caduta della cortina di ferro, gli stessi interessi – uniti a considerazioni geopolitiche – hanno favorito l’allargamento verso Est, con l’obiettivo di fare dei nuovi stati membri una fonte di forza lavoro istruita, produttiva e a buon mercato in grado di assorbire parte dei beni e servizi prodotti nell’Europa occidentale. Anche così, la Germania insieme agli altri paesi del centro, è riuscita a conquistare il podio mondiale come maggior esportatore a livello globale.

Nel raggiungere questi risultati non va sottostimato il ruolo giocato dal contenimento dei prezzi delle materie prime , tra gli anni ottanta e il passato recente con effetti diretti in termini di riduzione dei costi di produzione, dei prezzi dei beni salario e conseguente graduale allentamento delle condizioni monetarie. L’interesse verso quest’ultimo aspetto invita a rileggere un saggio di Andrea Ginzburg e Anna Simonazzi dedicato a questo argomento (“Saggio di interesse e livello dei prezzi: i paradossi della disinflazione”. Rivista Italiana degli economisti, 1997).

Il saggio analizza la relazione diretta tra il tasso di interesse a lungo termine e il livello dei prezzi all’ingrosso, una relazione chiamata da Keynes il “paradosso di Gibson”. Questa correlazione, prima di Keynes, lasciò perplessi altri importanti economisti come Wicksell e Fisher, che tentarono, in modi diversi, di conciliare questa regolarità empirica con la teoria marginalista. Varianti moderne di queste interpretazioni sono state suggerite da M. Friedman, T. Sargent e, nel campo della teoria neo-ricardiana da M. Pivetti. Ginzburg e Simonazzi suggeriscono che per i paesi industrializzati il paradosso di Gibson può essere spiegato facendo riferimento a un altro meccanismo di trasmissione che opera attraverso l’influenza delle variazioni dei tassi di interesse sul prezzo delle materie prime importate dai paesi periferici. Quando questi prezzi cominciano a salire, generando tensioni al rialzo sui prezzi dei beni finali e sui salari nei paesi centrali, i tassi d’interesse cominciano ad aumentare, lentamente nelle fasi iniziali e con più forza da un certo punto in avanti. Ciò avviene a discapito dei paesi periferici che vedono diminuire i proventi del commercio internazionale, con effetti fortemente negativi sui loro tassi di crescita e sui livelli occupazionali. In questo modo, i paesi centrali obbligano i paesi periferici a deflazionare.

Estendendo questa impostazione dai casi analizzati da Ginzburg e Simonazzi nel saggio del 1997 all’Europa tra gli anni novanta e i primi duemila, e dando alla nozione di materie prime un’accezione più ampia, per ricomprendervi tutte le importazioni dalle periferie europee, è possibile enucleare alcuni elementi nella narrazione di Celi, Ginzburg, Guarascio, Simonazzi, da utilizzare come punto di partenza per riflettere sui possibili fattori di crisi che l’Unione Europea dovrà fronteggiare nei mesi e negli anni a venire.

Negli anni Novanta, la forte restrizione monetaria tedesca, volta a spegnere l’inflazione provocata dalla riunificazione, ha inaugurato un periodo di disinflazione strutturale a livello europeo. Dopo la crisi dello SME del 1992, i paesi della periferia meridionale si sono incamminati sulla stessa strada con molte difficoltà, deflazionando a loro volta, con effetti benefici immediati in termini di riduzione del prezzo delle importazioni tedesche. Tassi d’interesse relativamente elevati in questi paesi hanno frenato investimenti e produttività, innescando flussi finanziari compensativi dal centro verso la periferia sud. Molto spesso, questi flussi si sono riversati nei settori immobiliari e nel debito pubblico, innescando circoli viziosi e squilibri strutturali che Celi, Ginzburg, Guarascio, Simonazzi documentano con attenzione. L’entrata in scena dei paesi dell’Europa dell’Est, con prezzi e salari bassissimi e una disponibilità a sperimentare terapie shock pur d’integrarsi rapidamente con l’Europa occidentale hanno aggravato la situazione della periferia sud. I capitali si sono riversati lì dove c’era la possibilità di sfruttare condizioni ottimali in termini di bassi prezzi, bassi salari, tassazione dei profitti ridotta o inesistente e condizioni “ottocentesche” o quasi nel mercato del lavoro. Anche questo ha contributo a fare dell’area dell’euro una zona a bassa inflazione, sommandosi con gli effetti delle misure adottate dalla Germania negli anni duemila richiamati più in alto nel testo. La diminuzione dell’inflazione e dei tassi d’interesse è proseguita durante i primi anni duemila, accelerando in seguito agli shock deflativi provocati dalla crisi finanziaria tra il 2007 e il 2014 e all’introduzione di misure monetarie compensative che hanno spinto i tassi ufficiali ancora più in basso.

In questi ultimi mesi la situazione sta cambiando. I prezzi delle materie prime sono in aumento a livello globale e trainano verso l’alto il prezzo dei beni salario con possibili ripercussioni negative in termini di accelerazione dei salari e dei prezzi. Molti, tra cui il Fondo Monetario internazionale, ritengono che l’attuale fiammata inflazionistica sia un fenomeno transitorio, legato a difficoltà nelle catene di approvvigionamento sui mercati mondiali, al rialzo nel prezzo dei prodotti energetici e ad altri fattori contingenti. Questo si legge in molti rapporti delle banche centrali, compresi quelli della Banca Centrale Europea. Allo stesso tempo, cominciano a serpeggiare dubbi sulla natura realmente transitoria dell’attuale rialzo dell’inflazione. Un recente articolo dell’Economist metteva in guardia contro i possibili rischi che a breve questo rialzo inneschi una spirale globale salari-prezzi, pur in presenza di livelli relativamente elevati di disoccupazione. Qualcuno si spinge fino a preconizzare il ritorno della stagflazione. In ogni caso, anche senza sposare le tesi più pessimistiche, l’età della politica monetaria super-espansiva sembra volgere al termine, almeno negli USA. E’ di pochi giorni fa la notizia che la FED ridurrà il ritmo degli acquisiti di titoli nell’ambito della sua politica di allentamento quantitativo.

Molti dei fenomeni richiamati hanno una portata globale e come tale non specificatamente europea. Ciò non significa che i diversi paesi europei, posti di fronte agli stessi shock, reagiranno alla stessa maniera, anche perché le differenze tra loro sono aumentate molto in questi ultimi anni. Paesi ad elevato debito pubblico come l’Italia potranno sostenere il ritorno a condizioni monetarie meno accomodanti rispetto al passato recente, evitando il ripetersi dei problemi drammatici sperimentati all’inizio degli anni Novanta? E come reagiranno i paesi dell’Europa dell’Est, oggi molto diversi rispetto a quindici anni fa? Quest’ultimo interrogativo si somma con i dubbi legati all’attuale conflitto aperto tra le istituzioni europee e due dei paesi protagonisti del nuovo miracolo economico tedesco, Polonia e Ungheria. Se alla Brexit seguisse la Polexit, il che al momento sembra improbabile ma non impossibile, quali problemi si troverebbe ad affrontare la Germania? Tante domande alle quali sarà necessario fornire risposte nei prossimi mesi. Andrea Ginzburg non potrà più contribuire a rispondere a queste domande, ma il suo pensiero e il suo metodo di ricerca e di analisi resteranno come fonte d’ispirazione per tutti noi.

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