L’Unione europea dopo il trattato di Lisbona: la necessità di un europeismo critico

Con cadenza piuttosto regolare chi osserva le vicende dell’integrazione europea si trova a scrivere un contributo su l’Unione europea all’indomani di un nuovo trattato che questa ha sottoscritto. Nel 1986 è stato siglato l’Atto unico europeo, poi nel 1992 il trattato sull’Unione europea (quello di Maastricht), poi il trattato di Amsterdam nel 1997, poi quello di Nizza nel 2001 e buon ultimo il trattato di Lisbona l’anno passato. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta i governi dei Paesi che compongono quella che dopo Maastricht si chiama Unione europea hanno sfornato in media un trattato ogni 5-6 anni.

In termini di produzione legislativa potrebbe dunque sembrare che negli ultimi tempi vi sia stata un’imponente accelerazione dell’intensità di integrazione fra cittadini europei e passi sostanziali verso la creazione di una comunità politica e culturale, così come auspicato nel nostro Paese da pensatori federalisti come Altiero Spinelli a partire dal 1941.

La verità è che il processo che si è sempre più rafforzato a partire dal 1986 è in verità quello della creazione di un mercato unico organizzato intorno ad una valuta comune, adottata a partire dalla sua entrata in vigore solo da alcune nazioni cardine del sistema dell’Unione europea. L’esponenziale crescita della produzione normativa a livello europeo, nonchè del ruolo di agenzie regolatrici come la Commissione europea, la Banca centrale europea e la Corte di giustizia di Lussemburgo è stata indispensabile a tenere in piedi il mercato unico e a consentirne l’epocale allargamento a dieci Paesi dell’Europa dell’Est.

L’impianto istituzionale creato nel 1951 con la Comunità del carbone e dell’acciaio e fondato su un esecutivo sovranazionale, la Commissione europea, e un potere legislativo intergovernativo, il Consiglio dei ministri, ha retto con qualche evoluzione – consistente principalmente nel rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo eletto a suffragio universale – fino ad oggi. Ma sono mutate le finalità del progetto europeo, con la scomparsa delle pur episodiche ambizioni politiche e federaliste, e si sono totalmente eclissati i tentativi di armonizzazione in campo sociale e culturale. Ciò è avvenuto mentre cambiavano radicalmente anche lo scenario politico e sociale dei Paesi membri di quella che oggi è l’Unione europea.

Le nazioni dell’Europa occidentale erano fino agli anni Settanta nazioni ad “economia mista”, imperniate su imprese pubbliche, sindacati autorevoli e partiti radicati nel tessuto sociale. Quelle dell’Europa di Maastricht sono nazioni che hanno oramai privatizzato quasi tutti i settori economici industriali e le infrastrutture (l’Italia sembra avviarsi anche alla privatizzazione della rete gas che è stata una delle principali protagoniste della sua crescita industriale), ridotto il ruolo del pubblico nell’erogazione dei servizi a scuola e sanità, e modificato il Dna delle organizzazioni dei lavoratori fino a farne i principali collaboratori del mondo imprenditoriale. Per i governi dell’Europa di Maastricht, Bruxelles è la sede di un potere sovranazionale spesso platealmente vituperato, ma in realtà indispensabile in quanto fornisce strumenti per giustificare una riduzione dell’intervento pubblico e garantire una maggiore intrusione del mercato nella vita quotidiana dei cittadini.

Questo spostamento di senso dell’integrazione europea in meccanismo che favorisce le dinamiche del mercato, in normative in “negativo” che mettono in concorrenza regimi fiscali e condizioni di lavoro, non poteva avvenire con un sostegno popolare. Almeno non nei Paesi dell’Europa occidentale nei quali sistemi di protezione sociali si sono coniugati con libertà democratiche. E questo nonostante l’indubbia popolarità di misure che hanno favorito la facilità degli spostamenti fra i Paesi europei come quelle degli accordi Schengen, il fascino di alcune azioni riguardanti la mobilità tra gli studenti universitari e il credito accordato a Bruxelles come potenziale creatrice di un modello alternativo che tanta attrazione ha saputo esercitare sui Paesi usciti dal comunismo.

I trattati europei che costituiscono la costituzione materiale dell’Unione europea sono talmente voluminosi e complicati da non costituire piacevole lettura serale per i cittadini europei, ma di per sé questo non avrebbe impedito una radicale opposizione agli assetti dell’Europa di Maastricht. Il ricorso a strumenti di partecipazione popolare diretta non avrebbe consentito cessioni di sovranità così penalizzanti per la tutela del potere d’acquisto dei salari e per il sistema di protezione sociale nazionale.

 

La ribellione delle elite europee

La “ribellione delle elite”, cosi come definita in una saggio di Christopher Lasch, è un fenomeno che si è manifestato negli Stati Uniti prima ancora che nel Vecchio continente: la tassazione ha funzionato nell’ultimo trentennio come strumento di redistribuzione di reddito verso i ricchi, mentre le classi alte statunitensi si sono fisicamente separate dal resto della popolazione andando ad abitare nei “sobborghi” delle grandi città. Ma anche l’Europa occidentale a partire dagli anni Ottanta ha conosciuto il fenomeno dello spostamento massiccio di reddito verso rendite e profitti – secondo l’Ocse tra il 1988 e il 2008 il 13 per cento del reddito italiano si è spostato dai salari a rendite e profitti, nell’Europa dell’Est non ne parliamo –. Mentre i vincitori europei della globalizzazione e del mercato unico non si sono fisicamente separati dal resto della popolazione – lo stesso non si può dire per residenze fiscali e conti in banca – le elite ribelli europee hanno contribuito ad accentuare il distacco del terreno delle decisioni strategiche politiche ed economiche dal territorio nazionale e locale. L’ascesa del potere regolativo di Bruxelles, che fino agli anni Ottanta non aveva esercitato nessun tipo di arbitrato sugli attori economici del mercato europeo, nè mai era mai seriamente intervenuto a reprimere alterazioni della corretta dinamica della concorrenza, è pienamente parte di questo processo che in qualche misura è avvenuto anche a livello mondiale con l’ascesa del poter regolativo di istituzioni economiche sovranazionali come Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale del commercio. Le elite ribelli costruiscono un nuovo diritto internazionale che, in apparenza è latore di idee progressiste, dai diritti umani, alla libertà d’impresa, alla concorrenza, mentre in realtà agisce scientificamente contro i più deboli e indebolisce la possibilità delle comunità nazionali di ergersi a difesa dei cittadini svantaggiati.

Nel suo recentissimo volume The New Old World Perry Anderson traccia in modo magistrale il percorso della storia dell’integrazione europea e l’evoluzione delle teorie approntate per darne conto. Ammirato delle realizzazioni senza precedenti delle leadership europee del secondo dopoguerra, egli è allo stesso tempo critico per un dibattito pubblico sull’Unione europea ancora incapace di assumere connotati critici. Non risparmia affondi ad intellettuali come il filosofo tedesco Jurgen Habermas, il cui prestigio ha contribuito a diffondere in parte del mondo intellettuale il mito di un costituzionalismo europeo fondato sulla cittadinanza e sui diritti, mentre il linguaggio della realtà raccontava una storia diversa da quello della filosofia. Perry Anderson, che da tempo insegna negli Stati Uniti, è stato uno dei fondatori della New Left britannica che mirava negli anni Sessanta a sprovincializzarsi grazie ad una maggiore conoscenza delle vicende intellettuali dell’Europa continentale (dall’esistenzialismo di Sartre, ai “quaderni rossi” in Italia) e ad una rilettura di Marx libera dalla stretta ortodossia del marxismo inglese. Ha contribuito a dar vita e diretto la New Left Review dove hanno scritto in modo continuativo alcuni tra i maggiori intellettuali del secondo dopoguerra, da E.P. Thompson ad Edward Said. Insieme ai suoi colleghi ed amici, tra gli italiani per esempio Carlo Ginzburg, questo gruppo di intellettuali ha cercato di mettere in rilievo come le dinamiche di tipo culturale non possano essere considerate meno importanti di quelle economiche per comprendere i meccanismi di azioni del potere statale, mentre in particolare Anderson ha sempre rivolto l’attenzione alle questioni di tipo istituzionale e “costituzionale” che per il marxismo tradizionale sono secondarie perchè semplicemente cristallizzazione di determinati rapporti di classe. Sono stati gli esponenti della New Left inglese, insieme agli studenti delle università americane, i primi critici della guerra in Viet Nam all’inizio degli anni Sessanta, fra i primi nel mondo occidentale a comprendere l’importanza della fine del colonialismo e dell’emergere del pensiero ‘terzomondista’, ed anche fra i primi critici dell’imperialismo, non solo come meccanismo di dominazione militare ma anche come strumento di asservimento culturale ed economico.

Proprio due costanti dei suoi interessi, fascinazione per la dimensione istituzionale della politica, ma anche interesse per le dinamiche del potere imperiale nelle relazioni internazionali, hanno portato Anderson a scrivere un libro di 600 pagine sull’integrazione europea. Un volume che, sebbene sia in larga parte una raccolta di saggi, conferma la superiorità del mondo anglosassone nel formulare grandi visioni della storia dell’Europa del Novecento e delle sfide ad essa riservate nel secolo appena iniziato. Anderson giunge infatti dopo che lo storico inglese Alan Milward aveva così bene smontato alcuni dei miti federalisti sulle origini della Comunità europea e dopo che, più recentemente, storici acuti ed eleganti come Mark Mazower a di Tony Judt hanno ricostruito le vicende novecentesche dell’Europa con uno sguardo libero dalla necessità di ricostruire il passato in nome della cooperazione, pace e prosperità auspicati per l’Europa futura. Mettendo in parallelo le vicende dell’Europa capitalista e di quella comunista come esperienze intrecciate e non solo parallele, questi storici hanno riconosciuto la debolezza della democrazia nel Continente, le persistenti tensioni ideologiche e sociali al suo interno, mentre si sono mostrati interessati al rilancio dell’integrazione europea negli anni Ottanta come strumento per resistere alla globalizzazione e come possibile formazione di un “modello” alternativo. Anche se l’analisi di Mazower e Judt sul fenomeno dell’integrazione è solo accennata, nulla di egualmente acuto hanno saputo ancora fare gli storici dell’Europa continentale, pur implicati in un prezioso lavoro di scavo di documentazione archivistica che però, nell’assenza di visioni d’insieme, rischia comunque di confermare incessantemente la tesi di partenza dell’integrazione europea come necessaria, ineludibile e benefica.

L’interesse di Anderson per la dimensione istituzionale ha orientato la sua attenzione verso quello che è certo l’esperimento di governo regionale più originale dalla fine degli imperi coloniali. D’altra parte la sua consuetudine con la critica alle dinamiche del potere imperiale degli Stati Uniti gli ha permesso di comprendere le differenze tra la strategia di Washington e il progetto dell’Unione europea, ma allo stesso tempo di sottolinearne le similitudini e l’apparente ruolo sub-imperiale che sta assumendo l’Europa a 27 nella stabilizzazione della regione. Il merito maggiore di The New Old World è di smascherare una vulgata di Bruxelles, quella dell’Unione europea come fonte di benessere, esperimento multiculturale, modello di coesione sociale, per indagare invece la natura profondamente elitaria del processo e le profonde resistenze a livello popolare che questo sta generando.

A dimostrazione della natura sempre più apertamente e volutamente “elitaria” dell’Unione europea sta la vicenda, troppo presto dimenticata ma che invece deve restare fondativi per un europeismo critico, della mancata approvazione di quella che è stata giornalisticamente definita “Costituzione europea”.

Della necessità di un nuovo trattato europeo che predisponesse l’Unione europea al suo allargamento simultaneo (Big Bang) a dieci Paesi dell’Europa dell’Est si era deciso nel Consiglio europeo di Laeken del dicembre 2001. Serviva infatti un nuovo trattato che adattasse le istituzioni europee al più grande allargamento del processo d’integrazione europea, non solo in termini di popolazione ma anche in termini di divario di condizioni economiche fra le regioni coinvolte.

Secondo la Commissione presieduta da Romano Prodi il nuovo trattato avrebbe dovuto essere diverso da quelli passati: l’occasione storica avrebbe offerto la possibilità di dotare il mercato di un’anima, tanto che per redigere le nuove regole sarebbe stato approntato un inedito organismo chiamato, senza grande riguardo per i ben più partecipati processi costituenti negli Stati Uniti e in Francia, Convenzione europea. A presiedere la Convenzione venne scelto dai governi Valèry Giscard d’Estaing, un liberale francese già capo di Stato alla metà degli anni Settanta e tra i fondatori della Commissione trilaterale, cioè un perfetto esponente delle elite ribelli internazionali, non sospetto di velleità federaliste e di simpatie verso la causa di una Europa sociale. In un momento di delirio collettivo si è anche scelto di chiamare il nuovo trattato in fase di negoziazione con il termine di Costituzione, sebbene nella storia non ci sia mai stata alcuna Costituzione la cui redazione non sia stata il frutto di processi rivoluzionari e di episodi, non di rado violenti, di partecipazione popolare. Il risultato, dal quale ogni proposta innovativa dei convenuti è stato accuratamente espunto dai Governi, era un testo presentato nel 2003 che di buono e innovativo conteneva quasi unicamente l’inclusione, nel corpo di un trattato di 311 pagine, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

Sottoposta al giudizio popolare in Francia il 29 maggio 2005 la Costituzione di Giscard, pur votata da quasi l’intero arco parlamentare, è stata sonoramente bocciata con il 55 per cento dei voti. Solo 3 giorni dopo, a dimostrazione che il problema non era semplicemente l’allergia gallica al sovranazionale, la stessa Costituzione è stata respinta dagli olandesi con una percentuale ancora più larga pari al 62 per cento. Così i cittadini di due dei Paesi fondatori dell’Unione europea, in particolare quelli residenti nelle periferie delle grandi città e delle regioni povere, sia quelli di destra che temevano l’allargamento ad Est che quelli di sinistra che vedevano progressivamente sgretolarsi i fondamenti dello Stato sociale, avevano rifiutato un papello dal nome altisonante, ma che in realtà non era altro che un trattato alla vecchia maniera che costituzionalizzava il dominio delle priorità della concorrenza economica su quelle relative alla cooperazione e alla convivenza fra popoli. Dopo qualche tempo di stordimento, le diplomazie europee tornarono al lavoro e produssero, questa volta attraverso una tradizionale Conferenza intergovernativa, un nuovo testo che non era altro che il medesimo di Giscard, depurato del riferimento ai simboli dell’Unione europea e della Carta dei diritti. Il nuovo testo, siglato dai governi nel 2007, è stato presto approvato dai parlamenti francese e olandese, e questa volta prudentemente senza ricorrere a consultazioni popolari, con il nome di trattato di Lisbona.

L’unico Paese che per legge era costretto a tenere un referendum sul trattato di Lisbona era l’Irlanda, mentre nessuno degli altri 26 governi dell’Unione ha avuto il coraggio o l’accortezza di sottoporlo a giudizio popolare. Nel 2008 si è tenuto dunque il referendum e anche questa volta i cittadini irlandesi, abitanti di un Paese ritenuto un modello di successo dell’Unione europea, hanno votato contro il trattato di Lisbona: a votare contro anche qui furono in particolare i ceti popolari e la classi media a reddito fisso. Ma agli elettori di un piccolo Paese dell’Unione europea non è consentito bloccare un processo che coinvolge nazioni ben più ricche e potenti e quindi, dopo una passata di ombretto, sempre lo stesso trattato è stato nuovamente sottoposto a referendum in Irlanda. Nel frattempo però l’Irlanda, fiore all’occhiello dell’Unione europea che si vantava di aver contribuito alla crescita del Paese con i fondi strutturali, scopriva che in realtà la sua economia era fondata su tassazione da paradiso fiscale e investimenti finanziari e edilizi, e la sua economia crollava come un castello di speculazioni nell’impatto violento con la crisi finanziaria internazionale. Per tenersi in piedi dipendeva dal sostegno dei partner europei e delle organizzazioni economiche internazionali. In questo nuovo scenario ai cittadini irlandesi non restava che bere la ministra di Lisbona se volevano la garanzia di sostegni finanziari dagli alleati europei.

La vicenda di Lisbona svela i meccanismi di un’integrazione sempre più temuta dai cittadini europei, che in compenso vengono considerati dalla grande stampa e dalla maggioranza degli intellettuali che ben pensano, ignoranti e zotici solo per essere attaccati all’idea che le istituzioni che li governano dovrebbero rispondere in primo luogo ai loro bisogni più elementari di sicurezza. Un’integrazione in cui ai Paesi più piccoli non vengono consentiti rifiuti nè opting out, mentre ad altri, come alla Gran Bretagna, si concede di non adottare l’euro e rifiutare la Carta dei diritti. La sintesi della penosa situazione in cui si trova il processo di formazione di una comunità politica in Europa è egregiamente svolta in questo passo del libro di Anderson:

 

Socialmente, vi è oggi nell’Unione europea una sperequazione del reddito più  ampia che negli Stati Uniti, con relazioni inter-etniche più violente. Economicamente, le sue prestazione a partire dalla crisi del regime neoliberista negli Stati Uniti sono peggiori e le reazioni popolari alla crisi economica più conservatrici […]

L’integrazione era stata concepita negli anni Cinquanta su una serie di premesse, mentre si è cristallizzata su un assetto differente. Monnet che le ha dato avvio, l’immaginava come la creazione di un federazione sopranazionale capace, non solo di liberare i fattori della produzione in un mercato unificato, ma di intervento macroeconomici e di redistribuzione sociale. Quello in cui essa si è trasformata non lo avrebbe rassicurato. Hayek, che ne ha osservato gli inizi con riserve e che non ha mai espresso grandi apprezzamenti nei suoi confronti – come avrebbe potuto accettare una Politica agricola comune? – intendeva l’integrazione come una profilassi negativa, la demolizione delle barriere al commercio e il blocco di ogni interferenza popolare con i meccanismi del mercato. Anch’egli non sarebbe soddisfatto dall’Unione europea di oggi. Ma fra le due concezioni, questa si è evoluta in una forma molto più vicina a quanto da lui auspicato.

 

E così entra in vigore il trattato di Lisbona. Con esso vengono tra l’altro istituite due nuove figure che avrebbero dovuto fare da pernio per un rilancio della personalità europea in un mondo di nuove potenze che non accettano più regole imposte da altri: un presidente del Consiglio europeo in carica per due anni e mezzo, e un “ministro degli Esteri” europeo con il ruolo di vicepresidente della Commissione. Segno dei tempi è che, dopo accaniti mercanteggiamenti nei quali è stato liquidato anche un candidato credibile come l’italiano Massimo d’Alema, è stato formato quello che alcuni hanno definito un “trio monnezza” europeo: confermato presidente della Commissione europea l’inetto Manuel Barroso, forse il peggiore presidente della storia della Commissione nonchè protagonista come Primo ministro portoghese dell’incontro delle Azzorre del 2003 durante il quale Bush e Blair hanno annunciato la loro disastrosa crociata contro l’Iraq; “ministro degli Esteri” una baronetta inglese che partecipa appieno della tradizionale ostilità britannica contro qualsiasi ipotesi di personalità autonoma europea e che, nel presentarsi, ha risposto alla domanda di un parlamentare europeo riguardo un possibile seggio unico europeo nell’Onu, dicendo che “di queste amenità lei non si cura”; e come presidente del Consiglio europeo un belga, fedele alleato dell’asse franco-tedesco e piazzato in quel ruolo a non far nulla e con lo scarso prestigio di una nazione che, come vedremo, in realtà non esiste più.

Dopo due anni di crisi economica, il mercato unico e la moneta unica non sembrano ancora del tutto aver scampato i pericoli mortali, e comunque il Continente dovrà affrontare delle sfide per le quali non è certo che un modello di integrazione così elitario, senza adeguate forme di democrazia a livello europeo, possa reggere senza generare rivolte. La caratteristica dei modelli elitari è quella di essere deboli, specie nei momenti di crisi, e di poter essere sostenuti solo con sempre maggiori alienazioni della democrazia o con strumenti polizieschi.

 

Linee di frattura e interrogativi per il futuro

L’allargamento all’Europa dell’Est ha significato allo stesso tempo un grande processo di riunificazione, ma ha anche determinato ed incancrenito nuove linee di frattura. Queste linee di frattura passano allo stesso tempo ai confini delle nazioni e dentro gli stessi confini nazionali.

Il fenomeno sempre più evidente in Europa è infatti quello delle crescenti sperequazioni fra regioni ricche e regioni povere all’interno degli Stati nazionali. Il caso del Mezzogiorno italiano e del modo in cui le sue performance si stanno allontanando da quelle del Nord è sempre più evidente anche nel pervasivo ruolo assunto dalla criminalità che ne controlla alcune zone, nei massicci tassi di disoccupazione giovanile, nella dipendenza da un impiego pubblico scarsamente produttivo e nell’abbandono dei siti industriali. Il degrado progressivo del Mezzogiorno si palesa a chi, prendendo un treno, scenda sotto Napoli vedendosi sgretolare sotto gli occhi la qualità stessa del servizio ferroviario, mentre fuori dal finestrino può osservare l’accumulo di nuove abitazioni abusive alle porte di centri storici che vanno in malora. L’Italia, per usare una bella metafora di Giorgio Ruffolo, è un “Paese lungo”, sempre più lungo, e l’integrazione europea non sta contribuendo ad accorciarlo. Ma lo stesso dicasi per la Germania dell’Est che, nonostante massicci investimenti della sua parte occidentale, che per poco non mettevano a repentaglio la nascita dell’euro, vota massicciamente per gli ex-comunisti; fino ad arrivare al caso più clamoroso di rottura di unità nazionale ottocentesca che è quello del Belgio. Una cartolina di invito per la festa del Capodanno 2009, recapitata dall’Istituto di cultura fiamminga a New York, ha determinato uno scandalo in patria, ma è la manifestazione di un destino che pare ineluttabile: raffigurava le Fiandre unite all’Olanda e il Belgio francofono unito alla Francia. Ciò accade perchè nel mercato europeo della lotta di tutti contro tutti, le imprese più potenti schiacciano quelle più piccole creando conglomerati sempre più grandi, le città si popolano a discapito delle campagne, le regioni più ricche sottraggono risorse a quelle più povere, e le nazioni più forti costituiscono irresistibili poli di attrazione rispetto a quelle che non hanno risorse per proteggere i propri cittadini.

La crisi economica ha accentuato questo processo di divisione tra i “salvati”, le grandi nazioni che nel complesso hanno tenuto in termini di occupazione e di prospettive per il futuro, e i “sommersi”, le nazioni che stanno andando alla deriva. Così come ha accentuato le crescenti sperequazioni territoriali all’interno degli stessi confini nazionali che ha come sbocco la ripresa massiccia dell’emigrazione. L’Europa dell’Est, che fino alla crisi del 2007 aveva conosciuto tassi di crescita rilevanti per effetto delle delocalizzazioni e degli investimenti di natura finanziaria dall’Europa occidentale, si è ritrovata soggetta alla fuga dei capitali e alla contrazione dell’occupazione di quelle industrie (come ad esempio la Fiat) che sono state costrette dai sindacati a difendere l’occupazione in patria. Nazioni come la Lituania, la Romania e l’Ungheria hanno evitato la bancarotta solo grazie a massicci prestiti del Fondo monetario internazionale: prestiti pari ad oltre 50 miliardi di dollari che hanno forse salvato le banche ma anche fatto sì che nel 2009 la Lituania sia cresciuta del -16 per cento e l’Ungheria del -6,7 per cento. E le “cure” del Fondo si sa quanto possano essere rigide per il tessuto sociale, a dare per esempio credito ad uno studio di ricercatori di Yale e Cambridge apparso su PLoS Medicine secondo il quale i prestiti del Fondo, e i tagli che essi hanno imposto al sistema di prevenzione sanitaria a partire dalla fine del Comunismo, sono indirettamente responsabili di un aumento dei casi di mortalità per tubercolosi nell’Europa dell’Est, dal 6,2 per cento nel 1992 al 13,3 nel 2002. Lo stesso è però vero per quelle nazioni che erano state vendute come bandiere dei maggiori successi dei fondi strutturali dell’Unione europea come Spagna e Irlanda che conoscono tassi di disoccupazione tripli della media europea, esplosione del deficit pubblico, tassi sul debito maggiori rispetto ai partner, e che hanno sfiorato la bancarotta sotto la pressione della speculazione finanziaria internazionale. Nella stessa condizione si trova la Grecia dove, mentre movimenti sociali sempre più dinamici e radicali hanno spostato nelle ultime elezioni l’asse politico verso i socialisti, il governo di Papandreu sarà costretto dai partner comunitari ad imporre ai suoi cittadini la peggiore medicina della storia della Grecia con un taglio draconiano del deficit e una contrazione dei già bassissimi salari pubblici: politica dalle conseguenze ancora imprevedibili per l’ordine pubblico e la coesione sociale.

Questa situazione di caos alla quale i Paesi dell’Unione europea possono rispondere solo con misure di emergenza, ma che non hanno modo di risolvere in modo strutturale, ha messo in evidenza una volta di più l’assenza di un governo dell’economia da accompagnare al “patto di stabilità” che è stata un’assurda creazione dell’Europa di Maastricht. Così come pone allo scoperto l’esiguità di un budget per politiche di coesione e di carattere redistributivo che è pari a circa il 35 per cento del bilancio dell’Unione. Il che non sarebbe male se non fosse che l’intero bilancio dell’Unione può arrivare al massimo a l’1,24 per cento del Prodotto europeo (l’Unione non può per legge andare in deficit): in pratica quindi i fondi di coesione per le aree e le regioni più svantaggiate a disposizione di Bruxelles si aggirano intorno ai 40 miliardi di euro, circa lo stesso ammontare che il Fondo monetario ha prestato in un anno ai soli tre paesi citati dell’Europa dell’Est. Per quanto per esempio il rapporto Barca, presentato lo scorso anno, possa consentire un ragionamento su una migliore allocazione di quelle scarse risorse, con un maggiore coinvolgimento delle comunità locali e scavalcando in qualche misura i governi nazionali, l’entità dei fondi a disposizione è assolutamente inadeguata al meccanismo di concentrazione della ricchezza che il Mercato unico e l’euro stanno incentivando a spese dell’occupazione nelle nazioni più zoppicanti e delle aree interne meno competitive. La teoria delle “aree monetario ottimali” ci insegna che non possono stare in piedi unificazioni monetarie tra aree così diverse l’una con l’altra, senza imponenti strumenti redistributivi di carattere strutturale. Purtroppo, per tutti gli anni Novanta e fino ad oggi, la scienza economica ha abbandonato ogni tentativo di indagine libera e coraggiosa in favore di una fede religiosa e mal risposta nelle virtù del libero commercio e nella potenza creativa del mercato dei capitali.

L’altra divisione che si è solo accresciuta nell’Europa di Maastricht è quella fra classi sociali. Un ministro italiano formato in Banca d’Italia aveva una volta detto che le differenze fra i mezzi a disposizione dei singoli cittadini europei si sarebbero sempre più assottigliate in quanto, come consumatori, potevano avvalersi dei voli a basso costo di Ryanair. La scoperta che la possibilità di consumi a basso costo non ha nulla a che spartire con la conduzione di una vita dignitosa è più evidente in un momento in cui la disoccupazione a livello europeo tocca il 10 per cento, mentre i sistemi carcerari di molti Paesi sono allo strenuo. La divisione è oggi: fra occupati e i disoccupati, tra gli occupati a termine e quelli con un posto fisso, fra coloro che possono godere di una rendita familiare e quelli che ne sono privi, fra coloro che conoscono le lingue e possono cercare altrove possibilità di lavoro e chi è incastrato nel proprio paesino, fra coloro che hanno un permesso di soggiorno e quelli costretti a lavorare in nero sotto schiaffo, fra chi abita nei centri e nelle periferie delle grandi città. Mentre i cittadini italiani possono affollare i centri commerciali per accaparrare merci in saldo si scarsa qualità, essi hanno subito una impressionante perdita di potere d’acquisto con i salari reali che in vent’anni sono diminuiti del 16 per cento. Ma non sono gli italiani a stare peggio in Europa, almeno fin tanto che possono continuare ad attingere alla ricchezza e al risparmio accumulato dalle famiglie, che è la vera ragione per cui nel nostro Paese ancora non si vedono rivolte per il pane tra disoccupati e sottoccupati. A stare peggio sono i nuovi cittadini e lavoratori europei, quelli che hanno reso il continente europeo per la prima volta dal XVI secolo una regione di immigrazione che oggi comprende, ad esempio, tra i 15 e i 18 milioni di cittadini musulmani, mentre in generale gli immigrati aumentano al ritmo di 1,7 milioni l’anno. Multiculturalismo è lo slogan con cui la Commissione affronta il problema; l’altro strumento essendo la restrizione agli ingressi. Ma è evidente che uno slogan come quello del multiculturalismo non è una risposta sufficiente ad evitare violenze come quelle delle banlieux parigine e come quelle recenti di Rosarno in Calabria con la sua sanguinosa caccia agli immigrati. Esiste evidentemente la necessità di una risposta europea alla questione dell’immigrazione che deve essere allo stesso tempo di tipo culturale, favorendo attivamente l’integrazione e non solo la creazione di ghetti, ma anche economica mettendo in comune risorse per scuole, corsi di lingue, interventi sanitari e quanto altro.

Con l’idea del Mercato unico e la sua ancella dell’unificazione monetaria il Presidente della Commissione Jacques Delors puntava a rendere la Comunità europea una protagonista delle globalizzazione a metà degli anni Ottanta. L’idea portante dietro l’Atto unico europeo è chiaramente espressa nel suo diario:

 

La crescita  dei mercati e la deregolamentazione ci saranno con o senza di noi. Il vento che soffia in quella direzione è forte. Si tratta di sapere se il pilota della barca può reagire al vento e trovare una traiettoria che sia un buon compromesso fra, da un lato, l’evoluzione dell’ambiente internazionale e delle idee, e dall’altro, la difesa dei nostri interessi e del modello europeo.

 

Tutta la forza di un progetto politico e culturale è stata messa dietro un’idea mercantile e ne sono risultate schiacciate proprio la dimensione politica e culturale. Con il mercato unico si sono creati i simboli della Comunità, dalla bandiera con dodici stelle fino all’utilizzo dell’Inno alla gioia, simboli ai quali si è dato vita allo stesso momento in cui Michail Gorbaciov lanciava la sua personale idea di una “casa comune europea”. L’idea del leader sovietico, ambigua quanto si vuole, era comunque giunta con almeno dieci anni di ritardo, dopo che la gran parte degli europei aveva abbracciato con entusiasmo il modello di una società fondato sulla necessità di competere nell’economia mondiale, e allo stesso tempo gli uni con gli altri. Il Mercato unico di Delors significava abolizione di dazi e di protezioni legali, libero movimento del capitali, e non l’armonizzazione di standard sociali o la creazione di una cultura condivisa. E infatti tutti i tentativi posti in essere dalla Commissione europea per diffondere un sentire comune sono stati subordinati all’idea di giustificare ex-post il crescente potere economico di Bruxelles, come nel caso dell’azione Jean Monnet che ha maggiormente premiato i professori universitari esperti di diritto dell’Unione europea e della concorrenza; oppure del tentativo di promuovere un mercato giovanile del lavoro flessibile e adattabile attraverso l’Erasmus e le successive riforme universitarie che, con il processo di Bologna, hanno omogeneizzato al ribasso l’istruzione e la ricerca superiore.

Le definizioni di “potenza civile”, “sogno europeo”, “potenza gentile”, “modello costituzionale europeo”, sono invenzioni di intellettuali raffinati che cercano visibilità negli ambienti che contano. Invenzioni senza alcun rapporto con la realtà. La realtà è che, presi assieme, i Paesi dell’Unione europea costituiscono uno dei più grandi aggregati commerciali ed economici del mondo, ma che continuano a comportarsi in modo disunito e mercantilistico, e proprio così sono visti da tutti i Paesi con i quali si confrontano, come dimostrano ampiamente gli studi sulla percezione dell’immagine dell’Unione europea nel mondo. Ma senza far ricorso a dati statistici e questionari, basterebbe il buon senso di fermare per strada un immigrato sudamericano o cingalese e chiedergli cosa rappresenta per lui l’Unione europea.

La dura verità è che l’Unione europea non sarà mai in grado di proiettare una seria ed autonoma azione esterna se non dando vita ad un proprio modello sociale, culturale ed economico che ribalti quello oggi fondato sul mercato unico. Infatti ad un sistema economico europeo che demolisce sempre di più i beni pubblici, lascia libero spazio all’azione di una finanza rapace, chiude a riccio le sue frontiere all’immigrazione, non può che corrispondere un’azione internazionale dello stesso tenore. Nel migliore dei casi il ruolo assegnato agli europei è stato, come definito da Robert Kagan, quello di costituire il polo “Venere” di una saldissima alleanza con il “Marte” degli Stati Uniti.

Dopo la crisi economica sono stati proprio gli Stati Unti a promuovere il passaggio dal G8 al G20, con un relativo allargamento della platea dei decisori delle regole dell’economia internazionale. Gli europei, a parte qualche dichiarazione radicale quanto velleitaria sulla necessità dell’introduzione di una Tobin Tax sulle transizioni finanziarie di natura speculativa, sembrano più che altro preoccupati di non perdere posizioni nelle attuali organizzazioni economiche internazionali, dal Fondo monetario alla Banca mondiale, delle quali fino ad oggi sono stati uno dei due timonieri. Per il resto non hanno saputo nemmeno al loro interno coordinarsi per misure comuni sulla crisi economica, affidando ad autonome decisioni nazionali gli interventi di salvataggio di banche e di imprese nazionali, in primo luogo quelle automobilistiche. Proprio perchè dotati di capacità decisionali nell’ambito della politica economica gli Stati Uniti crescono di più dei Paesi dell’Unione europea, senza considerare le performance delle altre economie emergenti. Sulle questioni ambientali, trainati da alcuni Paesi particolarmente sensibili al tema e avanzati nell’industria delle energie alternative, gli europei prendono posizioni dure sulla necessità di riduzione delle emissioni, ma si dimostrano incapaci di negoziare efficacemente con nazioni come Cina, India e Brasile che solo più recentemente si sono affacciate allo sviluppo industriale e che possono impegnarsi ai sacrifici necessari solo in cambio di modifiche strutturali dell’economia internazionale.

Governance, insieme all’altra celebrata invenzione dei politologi europei che è la multilevel governance, è una definizione complicata per significare che la politica non conta più e che le decisioni vengono affidate ad organismi tecnici senza che si capisca chi gestisce il potere decisionale e con quale legittimazione. Authority, altro prodotto dell’ingegneria giuridica anglosassone (dell’energia, delle telecomunicazioni, etc), vuol dire in pratica che il pubblico perde ogni peso nella diretta gestione di settori economici, anche strategici, e si deve affidare a tecnici della regolazione che hanno come unico compito quello di compiacere il mondo imprenditoriale. Messi insieme, governance europea e authority nazionali ed europee, vogliono dire soprattutto che i cittadini vengono espropriati della possibilità di decidere direttamente delle istituzioni che li governano, nonchè della qualità e dei prezzi dei servizi, anche quelli più essenziali, dei quali beneficiano.

Queste modificazioni sono state auspicate dalla sinistra europea degli anni Novanta che vedeva nelle istituzioni “apolitiche” di Bruxelles una garanzia contro il populismo e contro le pressioni delle opinioni pubbliche avverse a politiche di risanamento. Ai governi nazionali sarebbe rimasta la pur remunerativa gestione del quotidiano e quella della salute e dell’istruzione, ma le grandi decisioni economiche sarebbero state prese da tecnici prudenti, ma sempre al servizio di potenti interessi economici organizzati. I governi si sarebbero così trasformati da decisori in gestori – infatti proprio negli anni Novanta in Italia è il periodo d’oro dei “governi tecnici” –. Questo fu in sostanza il riformismo europeo dal quale lo stesso Romano Prodi, un poco tardivamente, ha preso parzialmente le distanze in un articolo pubblicato il 14 agosto 2009 dal titolo “Il riformismo in europea ha fallito”.

Paradossalmente a far politica in Europa è rimasta solo la destra, ma nella sua versione identitaria e, in politica estera, nel suo velleitario tentativo di risuscitare orgoglio e priorità nazionali, spesso a discapito dei propri vicini, sempre nel più assoluto disinteresse per le aree più arretrate del Pianeta dalle quali provengono la maggioranza degli immigrati. La destra elegge nani esperti nella comunicazione che fanno finta di fare politiche indipendenti, ospitando le tende di Gheddafi a Villa Pamphilj e, poco dopo, congratulandosi con gli israeliani per i bombardamenti a Gaza, mentre in realtà rendono i propri Paesi sempre meno capaci di grandi visioni. Perchè, in fondo, la vera sfida non è semplicemente quella di ritrovare la capacità di prendere decisioni a livello locale, o nazionale, ma la vera sfida è quelle di immettere dosi di democrazia in ambito europeo, in modo che l’intera costruzione non si essicchi sotto i colpi della crisi economica e delle difficoltà di alcuni Paesi, specie dell’Europa meridionale.

E a ben vedere le ipotesi sul campo sono oggi due. Si può proseguire lungo la via tecnocratica adottata fino ad oggi, magari promuovendo l’ulteriore integrazione – per esempio sulla politica economica o fiscale – di un gruppo di testa che costituisca il cuore dell’Unione europea. Ma in questo modo si lascerebbero invariati i meccanismi attuali della governance e non si farebbe altro che alimentare la divisione fra nazioni che contano e nazioni che sono ai margini dell’Unione europea. Oppure è possibile percorrere la via, molto più rischiosa, dell’introduzione di nuove norme nei trattati che: garantiscano i beni comuni europei contro ogni privatizzazione, aboliscano il Patto di stabilità e crescita e promuovano una politica estera comune e autonoma dalle alleanza militari del passato, frenino la concorrenza al ribasso fra le normative del lavoro, e affrontino tutte queste sfide ambiziose con il ricorso a consultazioni popolari, permettendo l’elezione del Presidente della Commissione europea e non la sua nomina da parte dei Governi, rafforzando il peso di partiti, dei sindacati e delle associazioni nel processo normativo dell’Unione europea. Delle due è questa seconda strada l’unica in qualche modo ambiziosa, mentre “l’Europa a due velocità” potrebbe appena bastare a garantire la sopravvivenza di un sistema che, allo stato delle cose, e senza passi avanti almeno sulla politica economica e la costituzione di un bilancio europeo per gli interventi di emergenza, è in piena crisi.

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