Lula e l’imprevedibile futuro del Brasile

Leonardo Ditta riflette sui probabili effetti delle due recenti sentenze del Supremo Tribunale Federale brasiliano che annullano la condanna inflitta all’ex-presidente Lula. La prima dichiara l’incompetenza territoriale della 13ª Vara Federal, dell’ex-giudice Moro, che emise il verdetto; la seconda che l’operato del giudice non fu imparziale. Ditta si chiede come potrà cambiare il complesso scenario politico ed economico brasiliano dopo queste sentenze che restituiscono a Lula i diritti politici, consentendogli potenzialmente di candidarsi alle presidenziali del 2022.

La caotica situazione in cui versa il Brasile, a causa della pandemia causata dal corona virus, si è ulteriormente complicata per via della decisione dell’8 marzo scorso del giudice Edson Fachin, del Supremo Tribunale Federale (STF), Corte Suprema del Brasile. A tale decisione, inattesa, di nullità delle sentenze di condanna di Lula si è aggiunta poi la sentenza della Seconda equipe del STF, che ha ulteriormente incrementato la confusione e lo stato di incertezza in cui versa il paese. Cerchiamo di spiegare perché.

Secondo il magistrato della Corte Suprema Federale Fachin, tutte le condanne subite dall’ex-presidente all’interno dell’operazione denominata “Lava Jato” devono considerarsi nulle, poiché la Corte presieduta dall’ex giudice Sergio Moro –divenuto poi ministro della Giustizia e della Sicurezza Pubblica del governo di Jair Bolsonaro, eletto alle presidenziali dell’ottobre del 2018- non aveva la competenza territoriale per giudicare. Una condanna in seconda istanza, da parte del Tribunal Regional Federal della 4ª Regione (TRF-4) ha poi confermato la sentenza del giudice Moro, e determinato la situazione in cui la Corte Suprema -con una dubbia risoluzione, a detta di molti giuristi, in contrasto con la Costituzione del 1988 – aveva privato Lula dei diritti politici, impedendone così la candidatura alle presidenziali dell’ottobre 2018 e favorendo l’elezione di Bolsonaro.

Con una sentenza che si aggiunge a quella di Fachin -ma ancora più importante perché mostra il cambiamento di posizione del STF e perché non emessa da un singolo giudice- il 23/3 la seconda equipe del STF ha dichiarato che l’ex-juiz Sergio Moro non ha agito con imparzialità nel giudicare l’ex-presidente Luiz Inácio Lula da Silva nell’ambito della operazione Lava Jato.

Le due decisioni consentono a Lula di riacquistare i diritti politici e, potenzialmente, di candidarsi alle presidenziali del prossimo ottobre del 2022, a meno che non venga nuovamente condannato, prima di allora, in seconda istanza.

Infatti quei processi dovranno ora essere rifatti presso la corte territorialmente competente del Distretto Federale (cioè di Brasilia). In tale sede le prove raccolte dal tribunale presieduto dall’ex giudice Moro difficilmente potranno essere utilizzate, poiché la condotta di Moro è stata giudicata dal STF sospetta.

Ma tutto questo complica ulteriormente, come vedremo, il già confuso scenario politico. Per capirne l’importanza e i loro probabili effetti dobbiamo tener presente il ruolo che ha avuto l’operazione “Lava Jato” nella vita politica brasiliana degli ultimi anni.

L’annullamento delle sentenze riguardanti Lula costituisce, infatti, un colpo ulteriore alla reputazione dell’operazione “Lava Jato”, presentata enfaticamente all’opinione pubblica come esemplare operazione di lotta alla corruzione. Essa ha avuto un ruolo importante nel convogliare il malcontento popolare suscitato dalle rivelazioni sul sistema corrotto di finanziamento della politica brasiliana, in atto sin dal 1945, contro il PT (Partito dos Trabalhadores, Partito dei Lavoratori) e contro Lula -che ne era il principale rappresentante oltre che fondatore- e nel catalizzare elettoralmente la mobilitazione contro il lulismo.

Quando, nel 2003, il nuovo presidente eletto Lula, decise l’adozione di politiche volte a ridurre la povertà e la miseria -grazie anche alla favorevole congiuntura economica internazionale- senza intaccare gli interessi del capitale e dei suoi rappresentanti, provocò un riallineamento di classe da parte di quella che potremmo definire una massa di sottoproletariato povero. Questa massa, nel 2006, permise la rielezione di Lula per il suo secondo mandato -nonostante lo scandalo del “mensalão” (un sistema di retribuzione mensile di alcuni parlamentari, per garantirne alla Camera il voto favorevole ai provvedimenti del Governo) che gran parte della stampa brasiliana alimentò nel tentativo di influenzare l’elettorato.

Forte di questo ampio consenso Lula rafforzò ulteriormente la sua politica di riduzione della povertà senza alterare l’ordine sociale, già adottato nel primo mandato. Questo non significa, tuttavia, che nel 2006 non vi siano stati cambiamenti nella composizione della coalizione che portò alla rielezione di Lula: come ho appena detto, infatti, le politiche governative, pur se non confliggendo con gli interessi del capitale, avevano però limitato i privilegi e il tenore di vita della cosiddetta ‘classe media’ che, in parte, ritirò il suo appoggio a Lula. Nello stesso tempo cospicui segmenti del sottoproletariato povero si avvicinarono invece al governo. Dal punto di vista delle classi e della loro definizione rispetto ai partiti si tratta del momento in cui il sottoproletariato sposta i suoi consensi in favore di Lula. Ciò avviene anche perché il sottoproletariato ora si sente inserito nella vita del paese grazie anche ai programmi di integrazione sociale miranti a sollevarlo verso una condizione proletaria, per esempio tramite l’accesso all’occupazione formale. D’altro canto, si intensifica l’anti-lulismo, alimentato dal discorso della lotta alla corruzione, e la classe media si orienta in maggioranza verso il Psdb (Partito social democratico brasileiro, il partito di Fernando Henrique Cardoso, sociologo di fama internazionale . che fu presidente del Brasile per due mandati, dal 1994 al 2002)

La rimessa in discussione della “Lava Jato” è dunque particolarmente importante per comprendere lo scenario odierno, perché sembrerebbe che una parte della oligarchia che ha sempre dominato il paese fin dai tempi coloniali e una parte della classe media abbiano cominciato a rivedere le loro posizioni.

In realtà dubbi su quella sentenza erano emersi già da tempo. Prima, con l’accettazione da parte di Moro dell’invito di Bolsonaro a divenire ministro della Giustizia del suo governo, poi, e in modo più consistente, quando “The Intercept Brasil”, il 9 giugno 2019, rese pubblici i messaggi scambiati tra i procuratori della pubblica accusa e l’allora giudice del processo -Sergio Moro appunto. Questi dubbi sono, naturalmente, rinforzati dalle due recenti sentenze di cui sopra. D’altro canto, una parte dell’opinione pubblica di centro aveva già cambiato atteggiamento; la stampa meno allineata aveva cominciato a riferirsi all’operazione col nome “Vaza-Jato” (il verbo “vazar” nel portoghese brasiliano significa “lasciar trapelare”, ma anche “rovesciare”).

Naturalmente anche la reputazione dell’ex giudice – ed ora anche ex ministro – Sergio Moro è stata profondamente scossa da quelle sentenze. Questo vuol dire che il progetto, accarezzato dall’ex giudice e da quella parte della oligarchia cui si faceva cenno sopra, di candidarsi con prospettive di successo alle prossime presidenziali del 2022, risulta ora meno praticabile.

Ad aumentare la confusione e a peggiorare ancora la situazione dopo le decisioni dei giudici della Corte Suprema -e dopo il discorso di Lula del martedì 9 marzo, apparso programmatico a gran parte degli osservatori- si è verificato un nuovo fatto: la pubblicazione di una lettera-manifesto di impresari, banchieri ed economisti ed ex ministri dei governi del PSDB di Fernando Henrique Cardoso. Nella lettera-manifesto i firmatari incitano il governo a cambiare strategia e ad assumere misure efficaci per contenere la diffusione del virus e criticano la dicotomia tra pandemia ed economia fatta propria e continuamente riproposta da Bolsonaro. Ma pare essere stato un altro, non solo la critica alla strategia adottata da Bolsonaro contro la pandemia; il motivo che ha indotto tante personalità di spicco a aggiungere il proprio nome alla lettera diretta all’attuale presidente   -economisti come Pedro Malan (ex Presidente della Banca Centrale del Brasile, tra il 1993 e il 1994, e Ministro della Fazenda, durante tutto il periodo di governo di Fernando Henrique Cardoso),  Armínio Fraga (anche lui ex presidente della Banca Centrale nonché alto funzionario di società finanziarie internazionali e proprietario di alcune società nazionali e principale consigliere economico del candidato del PSDB alla presidenza, senatore Aécio Neves, avversario di Dilma Roussef, nella campagna per le presidenziali del 2014) Edmar Bacha e Persio Arida (due dei principali “padri” del Plano Real che pose fine alla iperinflazione nel 1994) o ex ministri come Rubens Ricúpero, sembra essere più complesso.

Tra le righe di queste adesioni si può leggere, infatti, il forte malcontento di una parte consistente della società brasiliana – quella che più conta – per la situazione politica, sanitaria ed economica in cui versa il paese e la sua indisponibilità ad appoggiare un eventuale golpe o dichiarazione di stato d’assedio, così come accennato ripetutamente da Bolsonaro negli ultimi tempi. La spaccatura in atto si mostra in tutta la sua evidenza. Aumenta in tal modo la pressione su Jair Bolsonaro, rendendo ancor più complicata la possibilità di una sua rielezione per un secondo mandato.

Oggi più che mai è forte il sospetto che Lava Jato fosse un progetto politico  diretto a favorire l’impeachment della presidente Dilma Rousseff (nel 2016) e ad impedire a Lula di presentarsi come candidato nelle presidenziali del 2018. E l’ex giudice Moro, ritenuto dalla Corte Suprema prima “territorialmente incompetente” e poi “sospetto di parzialità” nei giudizi su Lula, è stato fondamentale per il conseguimento di questi obiettivi.

A tutto ciò vanno aggiunti alcuni altri elementi: l’atteggiamento negazionista di Bolsonaro nei confronti della pandemia (dapprima si è riferito al virus Covid19 chiamandolo “uma gripezinha”- “un piccolo raffreddore”- poi ha tentato di prescrivere la cura spendendosi a favore della clorochina) oltre a generare sconcerto tra la popolazione, ha prodotto anche continui conflitti con vari governatori degli Stati della federazione che non condividono questo sua linea.

Oggi il Brasile è balzato in testa alla classifica dei contagi e dei decessi giornalieri, con la vaccinazione ancora non decollata, in uno scenario desolante in cui gli ospedali sono al collasso e i cimiteri senza spazio per nuove sepolture, Il governo ha infine ridotto il paese ad una condizione di paria nel contesto internazionale, grazie anche al suo ministro degli affari esteri, del quale, da più parti, viene chiesta la sostituzione. Le dichiarazioni deliranti e le posizioni espresse, hanno reso più difficile il reperimento del vaccino; la sconfitta di Trump, primo riferimento e alleato di Bolsonaro, ha fatto il resto. Ciò ha provocato un ulteriore allontanamento di buona parte di coloro che nella scorsa elezione avevano votato per Bolsonaro.

E’ anche utile ricordare che in occasione delle presidenziali del 2018, dopo quattro sconfitte elettorali contro il partito di Lula e la misera performance al primo turno del candidato del Psdb, l’ex-presidente Fernando Henrique Cardoso, per giustificare l’indicazione di voto nullo nel secondo turno, fece propria la teoria dei due estremismi, equiparando Jair Bolsonaro e il suo fascismo a Fernando Haddad, candidato del PT sostenuto da Lula. Adesso, dopo il ritorno sulla scena di Lula a seguito delle sentenze del STF, nell’intervista ad uno dei giornali più importanti del Brasile, O Estado de São Paulo, Cardoso ha dichiarato che, alle elezioni presidenziali dell’anno venturo, nel caso al secondo turno si dovesse presentare l’alternativa tra Bolsonaro e Lula, non esiterebbe a dare il suo voto a quest’ultimo.

Ma la situazione è in rapida evoluzione e, dunque, non è possibile al momento fare alcuna previsione.

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