L’officina Pasolini

Silvana Cirillo ha estratto dal saggio che ha scritto per il volume Tout sur Pasolini alcuni brevi flash che ci avvicinano all’impareggiabile laboratorio linguistico di Pasolini, che ci fanno conoscere il suo viscerale rapporto con Roma e che ci introducono alla sua visione del mondo contemporaneo, come espressa nell’ultima, postuma, opera Petrolio. Sono stralci che documentano le straordinarie qualità di Pasolini come narratore prolifico e multiforme.

Pasolini, oltreché poeta, è stato narratore prolifico e davvero multiforme. Si passa dai Diari e racconti giovanili, scritti perlopiù in Friuli,  alla narrativa nata e cresciuta a Roma, dalla sua personale Commedia, la Divina Mimesis, al soggetto di Teorema, all’ultima composizione confluita nel postumo Petrolio…Proponiamo qui qualche breve flash sulla sua attività narrativa e sul suo personalissimo laboratorio linguistico; sul rapporto viscerale con Roma e infine una succinta lettura di Petrolio.

Il coraggio di essere se stessi

Alessandro Barberis negli anni Sessanta in una lunga intervista per il Giorno (2/2/1964) gli chiese infine cosa avrebbe consigliato, se avesse potuto, ad un giovane poeta. Pasolini rispose: «Forse gli direi per prima cosa di non temere nulla, di non omettere nulla, di non temere le contraddizioni, di non temere il ridicolo; di non avere mai paura del troppo: non è mai abbastanza “troppo” qualsiasi cosa». Gli avrebbe consigliato, in altre parole, di essere come lui. Col suo coraggio di esporsi, anzitutto. E di difendere le proprie idee. Di esibire desideri, insofferenze, ossessioni, sentimenti («anche a costo di sembrare reazionario», precisò una volta polemicamente ad Asor Rosa); in primis la passione per l’eros; la propria diversità; il coraggio di consegnare al corpo esuberanti capacità percettive, di non temere le proprie contraddizioni; il coraggio di svelare ipocrisie e false morali, puntare il dito contro capitalismo e consumismo, che favorivano la società di massa spegnendo il pensiero critico; ma anche contro certo rigorismo ideologico del PCI, che spegneva invece la creatività, e contro la borghesia, di un tale sistema fondamenta e pilastro. Il coraggio di difendere un mondo arcaico perduto, contadino o sottoproletario che fosse, e la sua lingua contro un modello omologato di nuova società e di nuovi linguaggi, tecnologici e anespressivi. Fu proprio questo suo coraggio che gli costò critiche ed esclusioni… e tanti processi. Ma fu lo stesso coraggio che gli valse il giudizio di grande poeta civile, anzi, secondo qualcuno «il maggior poeta civile del 900».

Lo sperimentatore ingordo, ma obbligato, che è stato Pasolini («sono un ergastolano della vocazione», dichiarava) visita e rielabora generi narrativi, oltre che lingua e dialetti; da pasticheur costruisce contenitori capaci di tenere insieme storie/racconti, appunti, saggi, scritture cinematografiche, documenti, abbozzi di romanzi e note, miscela liberamente prosa lirica ed espressionismo; crea ambienti, luci colori e situazioni decadenti o da “prosa d’arte” (in Teorema per esempio e nella Divina Mimesis) e con egual sapienza odori, rumori, suggestioni da pittura espressionista, malinconie proustiane e pescaggi nelle realtà più spregiudicate e volgari; crea iperboli di racconti a strati e sovrapposizioni (La Divina Mimesis, Petrolio…), accumuli di materiali fuori dal tempo canonico insieme a pagine di diario precisamente datate, le strategie del finito e non finito (programmaticamente non finito), maneggia dialetti arcaici e linguaggi e parlate dell’oggi, il tenero e gioioso dialetto del mondo contadino friulano e lo sfacciato romanesco delle borgate romane.

Pasolini scriveva e riscriveva i suoi testi; li ritoccava e perfezionava, li spostava e li mischiava. Non si contentava mai: e perciò negli anni ritornava sulle pagine scritte tanto tempo prima, sui diari giovanili, sugli appunti lunghi come saggi, sui romanzi abbozzati, e li rivitalizzava; sui vari titoli che di volta in volta aggiornava fino a quello definitivo; riscriveva e chiosava, corredando gli scritti di complesse Note metaletterarie indirizzate al lettore e al curatore delle sue pubblicazioni… La scrittura non era un’occasione nella vita, era la sua vita e dunque si muoveva con lui ed era sempre in fieri…; lui d’altro canto – esplicito o defilato, sdoppiato o esibito, sensibile come Proust o materico come Ensor – era il personaggio principale, sempre presente, in quello che scriveva.

Da Casarsa a Roma 

Gran viaggiatore, dagli anni Sessanta in poi comincia ad attraversare il mondo: a partire dall’India, raggiunta assieme ad Alberto Moravia e Elsa Morante raccontata in L’ odore dell’India, all’adorata Africa, girata in lungo e in largo e a più riprese, all’Oriente. Ovunque alla ricerca di luoghi e popoli non contaminati – vissuti ai margini delle grandi civiltà del mondo – e delle loro tradizioni. I popoli del Terzo Mondo! Su di essi lascerà reportages e pagine splendide, anche cinematografiche, facendone spesso i set dei suoi film. Ma i luoghi del cuore resteranno sempre Casarsa e Roma.

Casarsa e il lato destro del Tagliamento, con la sua «lingua periferica dolcemente intrisa di veneto», e i suoi umili paesini. Il luogo dove visse varie stagioni della sua vita e si rifugiò con la madre durante l’occupazione nazista. Casarsa dove giovane, fra un disegno e l’altro e una poesia e l’altra, riempiva quaderni rossi di pagine di diario e scriveva i primi racconti (che quel diario avrebbero in seguito inglobato), fondamentali per la scoperta dell’amore e della propria diversità, per il rapporto con se stesso e la propria coscienza. «Non ho il senso vero del rimorso, del peccato, della redenzione; ho solo un unico senso del destino, ma nel suo farsi precario e confuso» (19 febbraio 1947). E intanto manteneva vivo il rapporto col gruppo di amici bolognesi, tra cui Leonetti, Roversi, con cui giovanissimo creava la rivista “Eredi”, e poi, nel 1955, «Officina», la rivista letteraria più indipendente, sperimentale e impegnata di quegli anni. (…)

L’avventura romana, ovvero il suo trasferimento nella capitale assieme alla madre, inizia il 28 gennaio 1950. «La Roma vera – popolare – (…) uguale e assolutamente nuova, nelle sue folle dialettali, le sue plebi faziose e servili, allegre e inaridite, interessate, come forse soltanto le napoletane, ai casi di una vita condotta capricciosamente e fantasiosamente, tutta all’esterno, in una disperata sete di allegra esibizione» (Passione e Ideologia) lo attende.

Questo oximoron vivente di splendori e miserie, spregiudicata e brulicante di vita, lo aiuta ad essere se stesso, a non nascondere più omosessualità e bisogno ossessivo di amare (come scrive all’amica Silvana Mauri nei primi mesi 1950), a “gettare il corpo nella lotta”, politica, culturale, sessuale. Gli inizi sono duri però. Si ritrova povero, senza lavoro, in una misera stanza al ghetto, lontano dalla madre, che dorme altrove: solo la scrittura può corrergli in aiuto. ..

Nel frattempo, mamma Roma, «questa Roma così ultima e vicina – dirà – che solo chi la vive in piena incoscienza è capace di esprimerla», gli allargherà le braccia. Gli amici, vecchi e nuovi, Moravia, Morante, Penna, Bertolucci, Caproni, Siciliano, Bassani…lo introducono nell’ ambiente letterario; Vittorio Clemente gli trova un lavoro di insegnante a Ciampino, si ricongiunge con Susanna. Può finalmente godersi a pieno la città, il suo paganesimo contagioso e liberatorio, il centro storico, stratificazione affastellata di vecchie tradizioni e costumi recenti, e una periferia di borgate, «ignota al turista, ignorata dal benpensante, inesistente sulle piante» (Vie nuove, 3,5,1958). Lì dove vivono tanti «delinquenti pieni di innocenza» perché, come spiegherà parlando di Accattone, il loro peccare è così meccanico, esterno a loro, imposto da una così atroce condizione umana di alienazione, da lasciarli indenni e innocenti nella loro scatenata e sfrontata vitalità. E nel gergo tutto loro che la rispecchia a pieno. Pasolini lo registrerà in ogni angolo e quartiere, e lo adotterà come lingua “arcaica preborghese”, contrapposta “all’italiano colto dei reazionari”; come lingua autentica e totale, con un suo intrinseco valore civile e ideologico; non semplice espediente letterario, dunque, bensì strumento per restituire, con amore ed emozione, il mondo interiore che è tutto lì in superficie, il modo di vivere, la fisicità che ne trasuda, il ritmo vitale che in essa profondamente si rispecchiano.

Borgate lontane dalla modernizzazione e perciò agli occhi dello scrittore sacralizzate e mitiche, che gli apriranno le porte… Qui troverà amici fraterni – Sergio Citti in primis, il suo dizionario vivente e il suo “battutista” spiritoso – e spunti per i racconti preparatori ai due romanzi principali e per altri, potenti, scritti negli anni. Effervescente e barocca insieme, piena di rumori, di profumi, di odori che restano «legati alle pietre come un’anima, l’odore dell’immondizia, e della biancheria sporca scaldata dal sole» (l’aspetto olfattivo diventerà preponderante in questa fase sugli altri sensi!), di tratti fisici marcati, a volte animaleschi, di «organismi umani così sensuali da essere quasi meccanici», di eros e spregiudicatezza collettivi ed esibiti, Roma, come un grande corpo si spalanca ai suoi occhi e parla: «Roma, cinta al suo inferno di borgate, è in questi giorni stupenda: la fissità, così disadorna, del calore è quello che ci vuole per avvilire un poco i suoi eccessi, per denudarla e mostrarla quindi nelle sue forme più alte» (lettera a Silvana Mauri, estate 1952). Pasolini ascolta, osserva, annusa, mastica e poi ci restituisce espressionisticamente, ammorbidito qua e là da immagini di vera poesia, un gomitolo variegato di esistenze pieno di imperfezioni, ma dinamico e vitale. Sono i racconti romani.(…)

Anche nei romanzi più noti è il linguaggio il vero protagonista. Al romanesco è affidata la voce primitiva dei ragazzi delle borgate e del giovane sottoproletariato urbano nel primo, corale, Ragazzi di vita (1956); di romanesco sono impastati egualmente i giovani ormai cresciuti del secondo romanzo – già più inseriti nella società e nella politica, meno appassionati e più lontani dalla mitica incoscienza vitale originaria e passionale – Una vita violenta (1959).

«Con Ragazzi di vita e Una vita violenta – che molti idioti credono frutto di un superficiale documentarismo – dirà lo scrittore – io mi sono messo sulla linea di Verga, di Joyce e di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico: altro che immediatezza documentaria!» (Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Siti, Di Laude, pp. 919-920).

L’ultimo romanzo 

Petrolio, è l’ultimo romanzo – se possiamo chiamarlo così – di Pasolini e il più complesso e provocatorio. Un romanzo bomba! Lo stesso Pasolini, nel gennaio del ‘75, raccontava alla stampa l’ambizione del suo progetto: «Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Basti sapere che è una specie di tutte le mie memorie». Morì a metà dell’opera e l’impegno passò ai curatori(Maria Careri e Graziella Chiarcossi, con una nota di Aurelio Roncaglia, 1992) che dovettero lavorare su circa 600 pagine di materiali eterogenei da ricucire per pubblicare effettivamente 17 anni dopo “Sotto forma di edizione critica di un testo inedito”, quello che per l’autore era «il preambolo di un testamento» e che fu davvero il suo testamento. Lascito impegnativo, in cui confluiranno tutti gli sperimentalismi di lingua e stile fin lì testati, portati all’eccesso: plurilinguismo, accumulo, stratificazione, straniamento, non finito, sdoppiamento (che riguarda il protagonista, l’ingegnere, Carlo, la sua dimensione privata e quella pubblica), tutto il bagaglio di sofferte obiezioni ad una società che si era autodistrutta, ad un capitalismo mafioso e multinazionale che gestiva senza sentimenti il potere e ad una borghesia soggetto attivo in tale processo.(…)

In Italia siamo in piena strategia della tensione, in mezzo a vari complotti di potere. Tanti i lati e le prospettive da cui si può leggere Petrolio. Tante e diverse le definizioni dei critici per indicare un testo così magmatico e polifonico, un romanzo a brulichio, lo definisce lo stesso Pier Paolo carico di cultura e immaginazione e insieme crasso e strabordante! Dove balza agli occhi un eros così sconcio (basta seguire le avventure e gli incontri occasionali di Carlo de Tetis) e tangibilmente rappresentato nella sua assoluta simbolicità, nella spregiudicatezza allusiva, nelle visioni degradate, nei paradossi (es. l’industriale che partorisce il bambino-merda, i numerosi trasformismi fisici), che mai come in questo caso è finalizzato a significati più complessi e incapsulato in un violento je accuse nei confronti della società italiana, soggiogata dal potere. «Utopica disperazione in un Occidente ormai dominato da mostri non umani, da spettri della finanza e dei teleschermi» («l’Unità», 4 febbraio 2003) scrive Gianni D’Elia e aggiunge che il libro, iniziato subito dopo la crisi petrolifera mondiale, uscito dopo la guerra del Golfo, entrò subito nella storia: parlava di petrolio, ovvero l’altro modo di nominare danaro, guerra, mondo. E parlava dell’Eni, “il topos del potere” (rappresentato dall’ambiguo doppiogiochista, diabolico Carlo Troya, il Merda). Un libro di denuncia cioè della crisi di una intera civiltà.

Schede e storico autori