Lo speziale fiorentino. Una microstoria del merito

Pasquale Terracciano riflette sul merito ce si chiede in che termini una storia del merito possa contribuire a chiarire e indirizzare l’attuale dibattito sulla meritocrazia. Dopo aver enucleato alcuni snodi e alcuni problemi fondamentali di tale storia, Terracciano si sofferma su una specifica modalità di dibattito sulla giustizia e sul merito nella riflessione umanistica anche ricostruendo le vicende di Matteo Palmieri, figlio di uno speziale che assurse, intorno alla metà del 400, alle più alte cariche della Firenze medicea.

È ben noto che il termine «meritocrazia» sia un neologismo del Novecento, coniato nel 1956 da Alan Fox e poco dopo utilizzato dal sociologo laburista Michael Young per descrivere una società distopica basata sulla precoce identificazione del quoziente intellettivo e l’esatta misurazione del contributo individuale alla società. Il «merito» era codificato in un’equazione ben precisa: la somma delle doti innate (talent) e dell’impegno (effort). The rise of meritocracy (1958) era scritto dal punto di vista di un sociologo che guardava, all’altezza del 2033, agli sviluppi della società britannica: la meritocracy aveva apparentemente ottenuto i suoi successi ma aveva pure nutrito un sordo rancore, esploso in una serie di tumulti dei populisti, che intercettavano il malcontento di tutti coloro che erano rimasti esclusi dai vantaggi di tale società delle competenze.

Probabilmente Young non immaginava di aver segnalato uno dei punti cardine del dibattito pubblico del successivo cinquantennio. Se ne accorse nel corso dei decenni e certamente alla fine degli anni ‘90, quando Blair mise al centro del suo New Labour education e meritocracy, volgendo quell’etichetta da negativa (per Young) a positiva. Blair si inseriva in una tradizione di lunga data del mondo liberal inglese che di contro al political patronage opponeva il merito come corretto metodo di selezione non solo dell’élite ma anche della burocrazia (Cassese-Pellew, The Merit System, 1997). Dalle colonne del Guardian Young, ormai ottantenne, avvertì che il quadro non era così semplice.

Sulla falsariga di quello scontro paradigmatico, il dibattito può essere immaginato come stretto tra questi due poli: sul piano politico, un insistito richiamo positivo e autolegittimante alla categoria in quanto naturale aspirazione di una «giusta» società; per altro verso, nel dibattito accademico, una insistenza – sempre più forte (si guardi ai recenti libri di Littler, Against Meritocracy, 2018 e Boarelli, Contro l’ideologia del merito, 2019) – sulla vaghezza e sulla scivolosità del termine. Nel mezzo, un rischio avvertito da molti: che la denuncia della natura ideologica della meritocrazia, la consapevolezza delle questioni irrisolte porti con sé un discredito complessivo verso il tema e dei suoi annessi. Annessi non così irrilevanti. Si tratta delle pari opportunità di accesso, della lotta alle rendite, del premio alle competenze: cioè, al succo, del contrasto alla diseguaglianza.

Va però riconosciuto un fatto: che se la meritocrazia nasce anche per consentire (quantomeno) l’eguaglianza delle condizioni di partenza si fa sempre più forte nel sentire comune – sentire che si riversa nelle schede elettorali – l’idea che meritocrazia (e con essa competenze, valutazione, etc.) non sia altro che la legittimazione morale delle diseguaglianze tout court.

Ma come si comportavano le società del passato rispetto al merito? Ogni società ovviamente si è confrontata, a suo modo, con il problema di regolare gli accessi alle carriere, di educare i suoi membri e di determinare i loro incentivi. Sebbene sia base piuttosto comune nel dibattito filosofico riconoscere il carattere polisemico della nozione di merito e il fatto che si tratti di una nozione stratificata – e dunque carica di significato ideologici con una precisa storia – non esiste però una storia del merito e della meritocrazia. In parte il motivo si spiega con quanto accennato sopra, e cioè con l’ingresso tutto sommato recente del neologismo nel vocabolario delle scienze sociali.

Indubbiamente, una forte differenza nel richiamo al merito è riscontrabile tra quelle società che riconoscono come fondamento l’eguaglianza dei suoi aderenti e quelle che lo rifiutano. Da questo punto di vista la seconda metà del ‘700, con le Rivoluzioni Americana e Francese, rappresenta uno spartiacque cruciale. Quella di meritocrazia è in effetti una nozione non pienamente dispiegabile in tutte le sue conseguenze se non nella crisi e nel superamento delle aristocrazie di nascita (e che il termine nasca in Inghilterra non è forse un caso).

Un’altra frattura rilevante ma poco approfondita riguarda l’uso del lemma nel corso delle lotte religiose dell’età moderna. «Merito» e «talento» sono concetti che, molto più di altre categorie, appartenevano alla sfera religiosa. Proprio le diverse posizioni rispetto al fatto che l’uomo potesse ottenere, con i soli propri sforzi, il merito, portarono, con la Riforma, alla rottura dell’unità religiosa dell’Europa occidentale. «Merito» richiamava inevitabilmente i dibattiti teologici, all’interno dei quali il concetto veniva sottilmente sezionato per comprendere dove iniziasse il contributo riconoscibile dell’uomo e dove agisse la spinta delle decisioni preordinate dalla Provvidenza. Non era pensabile il «merito» senza pensare alla «grazia» o al «libero arbitrio».

Esisteva certo un «merito» civile, all’interno di teorie della giustizia più o meno laiche. Era però in quel contesto, per così dire, poco differenziato: spesso un semplice sinonimo di virtù e dignità. Ne prenderò spunto per una brevissima ricognizione di un peculiare tipo di fonte che si può interrogare per tentare una possibile storia del merito.

Matteo Palmieri, figlio di uno speziale (cioè farmacista) e lui stesso speziale, assurse, intorno alla metà del 400, alle più alte cariche della Firenze medicea. Per questo fu per qualche decennio uno dei simboli del riconoscimento che Firenze sapeva offrire al talento di chi non proveniva dalle file dell’aristocrazia cittadina. Una delle tappe che segnò la carriera di Palmieri fu la nomina a Gonfaloniere di giustizia. Si trattava di una carica con una forte impronta democratica: un ruolo di controllo contro gli eccessi dei nobili fiorentini, che poteva essere tenuta solo dagli iscritti alle corporazioni, cioè da appartenenti alla piccola o media borghesia cittadina. La carica durava solo due mesi, per garantire mobilità e mettere alla prova chi avesse voluto mostrare le sue doti politiche. Quando il corteo di proclamazione del Gonfaloniere si incamminava, una campana ricordava ai mercanti di tenere chiuse le botteghe perché i cittadini potessero andare in Piazza della Signoria a seguirlo. Da lì a qualche giorno il Gonfaloniere sarebbe stato chiamato a pronunciare un discorso sulla giustizia. Il discorso doveva essere tenuto, per decreto cittadino, in volgare. Le modalità di questa cerimonia erano state codificate da Coluccio Salutati, uno dei padri dell’umanesimo civile. Si trattava di una consapevole, e straordinaria, opera di pedagogia politica rivolta alla cittadinanza.

Essendo dunque il gonfaloniere preso «de plebe», il suo elogio della giustizia aveva inevitabilmente a che fare anche con il merito, e con la possibilità di ascesa sociale consentita in una società che, sebbene suddivisa in ordini e corporazioni, si immaginava retta secondo principi giusti. Di questi umanistici inauguration speeches se ne sono conservati molti; e pur nello stereotipo, sono un sismografo utilissimo delle concezioni politiche e morali dell’epoca.

Sono testi che, volgarizzando e intrecciando autori classici e testi sacri presentano un quadro preciso degli elementi centrali della giustizia distributiva. Così Matteo Palmieri, nel recitare il suo discorso alla giustizia, traduceva letteralmente Cicerone e dichiarava ai suoi cittadini: «Iustitia essere habito d’animo disposto alla conservatione dell’utilità comune che distribuisce a ciascuno il merito suo»; «La degnità di ciascuno è quella secondo la quale debbono essere distribuiti gli onori pubblici». Merito è, nelle sue parole, il meccanismo che fa agire la giustizia, e al tempo stesso l’oggetto delle ripartizioni della giustizia.  Da lì partiva per affrontare cosa significasse l’esercizio della giustizia nella città di Firenze e come era utile venisse ricompensato il merito.

Nei suoi testi, vi sono alcuni elementi che mi pare il caso di segnalare, e che presentano una loro obliqua attualità. Per Palmieri, chi viene ritenuto meritevole ha innanzitutto un dovere verso gli altri: il merito non è un premio che si raggiunge alla fine di un tragitto, non è solo una ricompensa, ma ha sempre come contraltare un obbligo verso la comunità. Nella trattazione umanistica esso si giustifica al fine di «conservare l’utilità comune»: è un elemento di coesione e non di frantumazione del corpo sociale. Che l’allocazione meritocratica si giustifica solo se ad esserne avvantaggiata è l’intera società, è un elemento chiaro a tutti coloro che sostengono la centralità del merito e della meritocrazia, ma non vi è dubbio che nel dibattito pubblico l’enfasi è piuttosto sul successo individuale e sulla competizione che sull’ordinata organizzazione della società.

Si potrebbe leggere in questa lezione – mi sembra –  un’indicazione utile per completare il disegno egualitario che vi era dietro la nascita della meritocrazia, e che da più parti viene visto come incrinato. La critica più sottile e penetrante di Young riguardava il fatto che la competizione indotta dal merito lasci una parte consistente della popolazione in seconda fila, costretta a fare i conti con un fallimento, e senza alcun appiglio ideologico o psicologico possibile per giustificarlo, che non sia il proprio mancato merito. Ciò accade proprio quando la meritocrazia si struttura non come uno strumento di emancipazione ma come un modello che crea nette linee di demarcazione all’interno della comunità. Quando si innesca un tale meccanismo, per la società, a lungo andare, il vantaggio di premiare il merito può divenire relativo o trasformarsi in un boomerang.

Restituire la complessità della costellazione filosofica di merito significa mostrare i nessi che il concetto intrattiene con le altre categorie della teoria della giustizia, e le lacerazioni che possono intervenire quanto tali nessi vengono sottovalutati. Senza voler sovrastimare l’apporto di una ricognizione storico-filosofica del termine, la storia del concetto può allora aiutare a evidenziare alcuni possibili nodi critici e chiarire in che modo «merito», correttamente inteso, possa essere un elemento volto all’emancipazione del singolo e al benessere della società tutta.

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