Lo spazio neutro del lavoro duttile

Manuela Raitano e Angela Fiorelli riflettono sul rapporto tra la conformazione fisica degli spazi della casa e del lavoro, in relazione alla pratica della video-comunicazione a distanza sempre più diffusa dopo la pandemia e sostengono che gli spazi fisici, al pari degli spazi virtuali che quotidianamente sperimentiamo, devono diventare più adattivi e flessibili e che, in futuro, le barriere tra spazio privato e pubblico saranno sempre meno nette, con ricadute sul modo di concepire sia la casa privata sia lo spazio di uso collettivo.

Le nuove modalità lavorative che siamo soliti denominare con la locuzione anglofona smart working descrivono pratiche adattive di lavoro “duttile”, o “agile”, non ancorate a una cultura della produzione dipendente dalla quantificazione del lavoro in monte ore, quanto piuttosto incentrate sull’autoregolamentazione dell’esperienza lavorativa.

In sintesi, se il lavoro è “agile”, dove, in che tempi, come e con chi sia stato condotto interessa poco o niente rispetto al “che cosa”, rispetto cioè alla qualità di quanto si è prodotto. Qualità che è obiettivo finale anche del lavoro tradizionale, ma che è spesso messa in subordine all’atto della valutazione del lavoratore, nelle forme “in presenza”. Se infatti il lavoro può “vedersi” durante il suo compiersi, allora l’azione di supervisione sul prodotto perde di importanza. Tutto ciò àncora il lavoro a una condizione monodimensionale, come se fosse “buono” a prescindere tutto quanto viene svolto sotto gli occhi del datore di lavoro, che in tal modo perde il ruolo di coordinatore dei contenuti per essere mero controllore della presenza fisica.

A tale concezione del lavoro corrispondono spazi fisici predisposti ad hoc, nei quali il lavoro è reso percepibile nell’atto stesso del suo farsi. I luoghi del lavoro sono infatti conformati, in massima parte, per rendere controllabile la presenza del lavoratore: sia che essi siano organizzati in forma seriale, come successione di stanze per ufficio (dove il controllo si esplica nel mero “stare all’interno”), sia che assumano la forma più aperta degli open space (debitrice del tipo del panoptycon), sono per lo più progettati per attività di tipo tradizionale, da svolgersi, cioè, nella cornice di una postazione fissa, personale e riservata. Le forme “agili” di lavoro, invece, richiedono turnazione e abbattimento delle barriere di riservatezza. Non c’è più un luogo del lavoro, ma molti luoghi del lavoro: in parte esso può svolgersi in casa (lavoro autonomo), in parte dalla casa (telelavoro); in parte, infine, può svolgersi in sede, ma solo quando ci sarà necessità della presenza di un team e del confronto de visu. Da un lato, quindi, lo spazio dell’ufficio avrà bisogno di una rimodulazione per riadattarsi alle esigenze dell’incontro in piccoli gruppi; dall’altro, specularmente, lo spazio dell’abitazione sarà fisicamente coinvolto in questo mutato scenario. Uno scenario accelerato dalle recenti disposizioni in tema di lockdown, parziali o totali, conseguenti alla pandemia attuale.

La difficile prova di resilienza collettiva che stiamo affrontando ha infatti velocizzato la digitalizzazione dell’esperienza quotidiana ed ha dimostrato la necessità di un radicale ripensamento dell’abitare umano e del vivere comunitario, rivelando, d’altro canto, la grande capacità adattiva che contraddistingue l’essere umano. Ci troviamo, come avrebbe detto Voltaire, nelle condizioni migliori possibili (anche se non migliori in assoluto) per avviare una seria riflessione sul futuro degli spazi in cui le azioni umane si svolgono. Se, infatti, come ci avverte l’OMS, la minaccia pandemica potrebbe presentarsi anche in forma ciclica, più volte nell’arco dei futuri decenni, allora bisognerà cominciare a pensare in prospettiva. Immaginando dunque nuovi spazi post-pandemici, non poche testate giornalistiche hanno pubblicato negli scorsi mesi articoli che proclamavano la definitiva “morte dell’open space” e quindi, più in generale, dei contenitori polifunzionali ampi e indifferenziati, che non permettono l’isolamento del singolo. Così posta, tuttavia, la questione appare male inquadrata. Il problema non è infatti lo spazio troppo aperto (che favorisce un alto afflusso di persone, ma ne consente anche il distanziamento), quanto piuttosto lo spazio troppo chiuso. E quindi, le configurazioni più adattive non potranno essere di tipo claustrale e pre-moderno, né potranno basarsi su paradigmi di organizzazione di tipo rigido. La sfida, all’opposto, sarà progettare luoghi che incorporino nuovi gradi di libertà capaci di garantirne l’uso anche in condizioni speciali.

Un altro ordine di considerazioni che deriva dalla difficile condizione attuale riguarda l’impossibilità di frequentare i luoghi dell’incontro collettivo, nel tempo libero così come nel tempo lavorativo; la conseguente diffusione della pratica della “riunione a distanza” impedisce tout court quell’esperienza della vicinanza fisica che è qualità dirimente del lavoro di gruppo. La comunicazione mediata dal video, tipica del telelavoro, incentiva infatti una vita più stanziale, forse perfino più efficiente, certamente più sostenibile dal punto di vista ecologico, ma pericolosamente alienante. Le enormi possibilità di connettività (e quindi di stanzialità) offerte dall’uso capillare delle tecnologie informatiche configurano quindi un uomo nuovo, che non avrà più bisogno di muoversi di casa perché deve, ma che si muoverà piuttosto perché vuole. Ora, dalla sponda del nostro presente non sappiamo dire se questo sarà uno scenario preferibile; sappiamo però che è certamente possibile. E dunque, bisognerà progettare un’esperienza dello stare il meno costrittiva possibile, nella speranza che la dimensione sociale verrà comunque salvaguardata, in quanto dimensione ineliminabile del vivere umano.

Per questa via, come rilevato da Alessandro Balducci, la città vedrà forse svuotarsi in un primo momento i suoi distretti direzionali, per poi riconvertirli a usi misti; mentre, d’altro lato, la casa non sarà più il luogo dove “tornare” dopo la giornata lavorativa, ma il luogo dove “stare”. In queste condizioni, sarà dunque auspicabile che le nostre case raggiungano più elevati standard di comfort abitativo. Allo stesso tempo bisognerà anche, in prospettiva, qualificare spazi ad hoc capaci di salvaguardare esperienze non alienanti delle pratiche di “lavoro duttile”. Si tratterà pertanto di individuare, non solo nella casa ma anche nell’ufficio, conformazioni di partenza neutre abbastanza da permettere numerose e diverse modalità di utilizzo degli spazi. Lasciando però aperta la possibilità di riprendere, in ogni momento, la configurazione iniziale, come è proprio dei corpi elastici.

La metafora dello “spazio elastico” ci è utile in relazione a tutte quelle nuove forme di socialità che richiederanno, in futuro, nuovi paradigmi di organizzazione funzionale; si tratta di modalità dell’abitare avviate a partire della crisi economica globale del 2008, e oggi ulteriormente radicatesi in seguito all’esperienza della pandemia. In queste condizioni “houses must be flexible”, così da divenire attrattive per tutti i differenti gruppi sociali di riferimento (Kempe Thill, Atelier, Specific neutrality. A manifesto for new collective housing, Rotterdam, 2005). Più in concreto, tutto ciò significherà rendere la casa (dove necessariamente si passerà più tempo) un luogo non monodimensionale: da un lato essa resterà un ambiente privato accogliente e stimolante (nurturing); dall’altro sarà un luogo capace di passare facilmente da una dimensione privata a una dimensione pubblica. Va a questo punto altresì precisato che gli stessi concetti di privato e di pubblico, di collettivo e individuale, stanno perdendo quelle connotazioni nette che avevano fino alla fine del secolo scorso. E dunque, in assenza di delimitazioni chiare tra le sfere personali dell’individuo, anche la caratterizzazione degli spazi dovrà assumere maggiore indefinitezza.

In sintesi, la casa gerarchicamente organizzata in distribuzione e stanze non è più adeguata ai tempi, mentre il tipo abitativo del futuro (un tipo nel quale si dovrà lavorare oltre che risiedere) sarà il loft, intendendo per loft non già l’abitazione glamour di stile newyorkese, ma una vera e propria nuova tipologia di spazio, cui corrisponde il principio compositivo della “neutralità specifica”, basato sulla pianta flessibile antigerarchica. Se quindi in epoca moderna la forma seguiva la funzione (attivando un rapporto causale tra le parti), ora la forma fa un passo a lato rispetto alla funzione. Ecco perché, a distanza di oltre settant’anni, la casa Farnsworth, una delle più celebri ville realizzate da Mies van der Rohe nel 1951, ritorna ad assumere valore paradigmatico: assemblabile a secco e in potenza removibile, provvista di un solo blocco servizi centrale posto lontano dai prospetti, indefinita nel limite interno-esterno e disponibile a variazioni vincolate solo al passo delle campate, essa rappresenta (al di là del lusso dell’esemplare originale) un modello ancora attuale di spazio fluido, riproducibile per via di una costruzione prefabbricata, dunque perfino economica.

 

Fig. 1 | Mies Van der Rohe, Farnsworth house, 1945-1951

Fig. 2 | Mies Van der Rohe, Farnsworth house, Pianta, 1945-1951

Ora, in questo genere di spazio la qualità è poco rappresentabile attraverso il dato del mero metro quadro, che sul mercato immobiliare perderà di rilevanza a favore del metro cubo, quantità che meglio potrà rappresentare il grado di adattività degli ambienti interni. Nei nuovi modelli estetico-esistenziali, infatti, “il metro quadro efficiente viene sostituito dal metro cubo, abbondante e inefficiente, sia tecnicamente sia programmaticamente” (Ábalos, I., La buena vida: visita guiada a las casas de la modernidad, Barcelona, 2000). Oltre a ciò, è definitivamente superata l’analogia operata da Le Corbusier della casa come “machine à habiter” (la casa come macchina, cioè oggetto performante), a favore di un’analogia differente: la casa come oggetto “disponibile”. L’idea della disponibilità rimanda al pensiero del filosofo e sinologo francese Francois Jullien, che la considera un’attitudine specifica della cultura orientale. La disponibilità, afferma Jullien, non è «una categoria della rinuncia, o un invito alla passività»; al contrario, essa corrisponde a un atteggiamento di “de-presa” che risulta addirittura più efficace, poiché si tratta di una posizione non rigida, fluida, non trattenuta (Jullien, F., De l’être au vivre. Lexique euro-chinois de la pensée, Paris, 2015). Immaginare gli spazi delle nostre attività come spazi disponibili significherà, quindi, renderli strategicamente “molli”, per farne luoghi più efficaci, adattabili a molteplici usi.

L’edificio residenziale realizzato a Carabanchel (Madrid) e progettato da Aranguren + Gallegos arquitectos, rappresenta un caso esemplare di una “casa neutrale”, sospesa tra la dimensione domestica e le molte altre dimensioni possibili. Qui, infatti, tutto il blocco impianti (bagni, cucina e lavanderia) è disposto lontano dai prospetti, sollevato 70 cm. più in alto rispetto al grande camerone neutro su cui tali ambienti si affacciano. Grazie a questo espediente (che richiede un’altezza netta di interpiano di m. 3,40 al minimo, quindi più alta rispetto allo standard abitativo urbanistico di m. 2,70), non soltanto i letti, ma perfino le poltrone e i divani possono scomparire di giorno sotto il solaio della zona più alta della casa. Nessun arredo (fatti salvi la cucina e i bagni) è ormai più fisso. In tal modo il grande ambiente unico, grazie al mobilio a scomparsa, realizza una neutralità carica di potenzialità, rendendosi adattabile al tempo libero come al riposo come alla vita lavorativa, a seconda delle ore della giornata.

     

Fig. 3-4 | Aranguren + Gallegos, Social housing in Carabanchel, Madrid, 2003 (credits: A+G, 2003)

In conclusione, dunque, le nuove pratiche di lavoro fluido stanno accelerando un processo di riconfigurazione dell’ufficio tradizionale come della casa, diventata luogo lavorativo essa stessa; ma anche al di là della casa, va segnalato come la “neutralità” sia un orizzonte specifico anche del progetto sull’esistente. Se estendiamo infatti lo sguardo alle operazioni di riuso, vediamo che l’atto trasformativo del progettista che modifica un manufatto molto spesso si qualifica come azione volta a indebolire, nella preesistenza, quelle forze tensive che la tengono ancorata alla sua configurazione iniziale, per donarle una gamma più ampia di possibilità funzionali, aumentandone l’adattività. Restando sempre sui luoghi del lavoro, ne sono esempio i tanti spazi per postazioni temporanee realizzati in ex strutture industriali, anche nel nostro paese. Luoghi che accentuano una disposizione degli spazi mobile, a turnazione, consentendo locazioni anche di breve periodo.

Del resto, come ebbe a dire Keith Jarret a proposito della complicata genesi del Koln Concert, “da sempre le cose cambiano, le migliori innovazioni succedono, solo quando usciamo dalla zona di comfort e ci mettiamo a suonare davvero”. Fuori, dunque, della nostra zona sicura, nella camera buia che oggi stiamo attraversando, stiamo sperimentando un’anteprima della forma delle cose come saranno. Nel lungo periodo, tutto questo ci spingerà verso configurazioni neutrali degli spazi della vita e del lavoro che non produrranno, però, un indebolimento del carattere dei luoghi, ma semmai un iper-carattere. E che neppure produrranno solo una mera flessibilità fisica o funzionale, ma una flessibilità di contenuti che si ottiene solo in forza di una posizione collaborativa delle parti architettoniche, capace di raggiungere il maggior risultato (cioè il maggior numero di configurazioni spaziali possibili) con il minimo esercizio.

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