Lo shock da offerta. GVC, COVID 19 e le imprese italiane

Anna Giunta discute alcune implicazioni dello shock all’offerta causato dalla diffusione del COVID19 e del ruolo giocato dalle Catene Globali del Valore. Giunta si sofferma in particolare sulla partecipazione dell’Italia e sul posizionamento delle imprese italiane nelle Catene Globali del Valore e sostiene che, da un lato, lo shock colpisce l’Italia in una fase di debolezza e, dall’altro, una ripresa sfalsata tra paesi potrebbe comportare un deterioramento del posizionamento italiano sui mercati internazionale.

La pandemia innescata da Covid19 (Corona Virus Disease 2019) ha avuto ed avrà ripercussioni sensibili sulle economie. Al momento in cui scriviamo (24 Marzo) i casi nel mondo sono 381.598. L’entità complessiva dell’impatto del duplice shock alla domanda e all’offerta dei singoli paesi è ancora difficile da stimare, data l’incertezza sui tempi e sulla ulteriore diffusione del contagio.

Dal lato della domanda, assisteremo ad una diminuzione dei consumi e degli investimenti; dal lato dell’offerta, all’arresto e/o alla diminuzione della produzione, motivata sia dall’esigenza di mantenere in sicurezza i lavoratori che dalla interruzione delle catene globali del valore (GVC): vale a dire il mancato approvvigionamento delle materie prime e dei beni intermedi che occorrono per le specifiche produzioni. Di fatto, nella pandemia che ha avuto come epicentro la regione cinese di Wuhan, le GVC sono state il principale, non l’unico, canale di trasmissione dello shock all’offerta.

Le GVC si affermano nella prima metà degli anni ’90, sono l’espressione della “nuova globalizzazione”: configurano un modello organizzativo che si fonda sulla frammentazione del processo produttivo in singole fasi, allocate in imprese diverse che operano in tutto il mondo. Il caso più noto è quello dell’I-Phone della Apple, a cui contribuiscono la sudcoreana Samsung, la tedesca Infinem, per finire con l’assemblaggio della cinese Foxconn. O anche le biciclette: Bianchi, antica impresa italiana, cura il design a la prototipizzazione. Le singole parti vengono poi assemblate in Cina e a Taiwan, utilizzando altre parti e componenti prodotte in Italia stessa, in Cina, Giappone e Malesia.

Uno degli esiti dell’interconnessione produttiva tra paesi attraverso le GVC è un sensibile aumento degli scambi e del commercio mondiale. Il “tradizionale” commercio in beni finiti (destinati ai consumatori) si affianca al “nuovo” commercio in beni intermedi (lo scambio tra le imprese) che acquisisce rilevanza crescente fino ad arrivare a incidere per circa il 55% del commercio mondiale.

Figura 1.

Tuttavia, da almeno dieci anni, le GVC non sono più quelle di una volta. Negli anni ’90 e fino al 2008, vale a dire il periodo di massima espansione, la crescente partecipazione dei singoli paesi alle GVC si traduce in un incremento del commercio internazionale a tassi medi annui (7% dal 1991 al 2000) pari a più del doppio della produzione mondiale (circa 3% nello stesso periodo), come si può vedere dalla figura 1.  Dopo la crisi del 2008, si è invece registrato un significativo rallentamento del commercio internazionale rispetto alla dinamica del PIL mondiale; dal 2012 il divario di crescita tra PIL e commercio mondiale si è quasi annullato.

Questi dati testimoniano un parziale esaurimento della dinamica più espansiva delle GVC. Al di là del rallentamento dovuto a componenti cicliche (la minore crescita in Europa e Cina), la riduzione dell’elasticità degli scambi rispetto al PIL potrebbe essere ricondotta a fattori strutturali, quali:  i) la transizione dell’economia cinese verso un modello produttivo maggiormente orientato verso la domanda interna, grazie all’incremento del reddito disponibile; ii) gli effetti delle misure protezionistiche che inducono le imprese a concentrare i propri scambi all’interno di macro  confini regionali; iii) la progressiva automazione e il ricorso a tecnologie a minore intensità di lavoro che rendono più conveniente produrre all’interno dei propri confini.

Pur con questi significativi aggiustamenti delle GVC, il mondo, sviluppato e non, è ancora produttivamente connesso. Che cosa si può imparare dalle esperienze passate, in cui le GVC sono state, parimenti a quanto accade oggi, un meccanismo di trasmissione degli shock? Sono almeno tre le esperienze a cui guardare.

Il manifestarsi della SARS nel 2003 in Cina. Le conseguenze furono, in realtà, limitate, blande, circoscritte alla Cina: una diminuzione dell’1% del PIL cinese. Nel 2003 la Cina (entrata a far parte del WTO nel 2001) incideva per il 4,3% del PIL mondiale, nel 2020 l’incidenza (secondo le stime del FMI) è pari al 16,9% (si veda al riguardo Voth, Trade and Travel in the Time of Epidemics, 2020). Nel 2003 la Cina ancora non era diventata “Factory Asia”, le sue interconnessioni con gli altri paesi erano abbastanza limitate e questo ha contribuito a circoscrivere l’impatto della SARS. Il terribile terremoto (9 sulla scala Richter) del 2011 in Giappone e lo tsunami che seguì colpirono la costa nord-orientale. E il Giappone era, allora ed è tuttora, un fornitore rilevante di beni intermedi e componenti per la produzione di autovetture, computer, componenti elettroniche. Toyota, Honda, Opel Nissan e General Motors fermarono le proprie linee di produzione operanti negli altri paesi per diverse settimane. In particolare, alcune altre linee di produzione di autovetture nel mondo si bloccarono per il mancato approvvigionamento di un tipo particolare di pigmento, lo Xirallic, prodotto solo in Giappone. Secondo Carvalho et al. (2016) due furono gli effetti: una diminuzione della produzione giapponese intorno al 5% e una propagazione dello shock alle imprese collocate a valle della GVC dell’auto.

Infine, la crisi finanziaria del 2008. Quest’ultima causa, come è noto, il crollo del commercio mondiale che si riduce del 30% tra la prima metà del 2008 e la prima metà del 2009. Più del 90% dei paesi industrializzati registrano, simultaneamente, una flessione di oltre il 10% delle esportazioni e delle importazioni (Martins and Araújo, 2009).

Le GVC agiscono, anche in questo caso, come un potente meccanismo di propagazione dello shock: secondo Freund (2009) e Cheung and Guichard (2009), la specializzazione verticale tra le imprese (l’importazione dei beni intermedi utilizzati nelle proprie produzioni) determina una riduzione della domanda di beni intermedi più elevata di quella che si sarebbe registrata attraverso il canale standard del commercio (cioè se le imprese scambiassero beni finiti). Alessandria et al. (2011) e Altomonte et al. (2012) individuano un altro canale di trasmissione che passa attraverso l’aggiustamento delle scorte. Come conseguenza della riduzione della domanda, le imprese “finali” (quelle che servono direttamente il mercato, la Apple, per fare un esempio) riducono, a cascata, gli ordini alle imprese fornitrici, i “supplier”, cioè le imprese che vendono ad altre imprese, le imprese distanti dal mercato finale. Si parla, a questo riguardo di “effetto frusta” (bullwhip effect, Forrester, J. W. Industrial Dynamics. MIT Press. MIT Press, Cambridge, MA, 1961).

Il crollo del commercio mondiale di quegli anni è, senza dubbio, l’esperienza da cui si possono trarre i maggiori insegnamenti circa l’impatto di uno shock esogeno sulle GVC. Ed è anche l’esperienza che getta maggiore luce sulle imprese italiane nelle GVC: sulla loro partecipazione, posizionamento, performance, resilienza.

L’Italia è un paese che mostra elevati indici di partecipazione alle GVC allineati, come mostra la Tabella 1, a quelli della Germania, il nostro principale partner commerciale anche nello scambio di beni intermedi (c’è “molta Italia” nella performance delle esportazioni tedesche!). La partecipazione alle GVC si misura attraverso due indici: la partecipazione “backward”, cioè il rapporto tra il valore aggiunto importato e il totale delle esportazioni lorde di un paese e la partecipazione “forward”, vale a dire il rapporto tra il valore aggiunto nazionale e il totale delle esportazioni lorde del paese.

In altre parole, la partecipazione backward restituisce la posizione del paese “compratore” (importa beni intermedi per produrre i beni da esportare); la partecipazione forward quella del paese “venditore” (esporta beni intermedi, utilizzati da altri paesi per le proprie esportazioni).

Tabella 1. Indici di partecipazione alle GVC, 2015: Italia e Germania

ItaliaGermania
Partecipazione alle GVC40,842,9
Partecipazione Forward18,621,9
Partecipazione Backward22,221,0

 

Fonte: https://www.wto.org/english/res_e/statis_e/miwi_e/countryprofiles_e.htm

Oltre al dato macro (paese), data l’eterogeneità delle imprese, è utile soprattutto guardare al dato micro e, in particolare, al posizionamento delle imprese lungo le GVC. Ragionando a maglie large, un’impresa può essere fornitrice (supplier), vende, cioè, la larga parte della sua produzione ad altre imprese (nazionali o estere); può essere “finale”, vale a dire vende la sua produzione ai consumatori (nazionali o esteri). Basandosi su un campione rappresentativo di imprese europee con più di 10 addetti, Agostino et al. (Agostino M., Giunta A., Scalera D., Trivieri F., in Rivista di Politica Economica, 2016) mostrano che le imprese tedesche sono in larga parte imprese finali, mentre le imprese italiane sono nella maggior parte imprese fornitrici: in Germania, le imprese finali ammontano al 60,31% e le fornitrici a 39,69%; in Italia, le imprese finali sono il 35,30% e le fornitrici il 64,70%.

Il diverso posizionamento italo-tedesco nella divisione internazionale del lavoro ha di fatto penalizzato, rispetto alle imprese tedesche, le imprese italiane in occasione della crisi del 2008, proprio per il dispiegarsi dell’”effetto frusta”. Secondo Accetturo e Giunta (2016), lo shock ha, infatti, colpito le imprese asimmetricamente: le imprese fornitrici subiscono una diminuzione del fatturato più sensibile di quello registrato dalle imprese finali. Questo diverso posizionamento spiega anche, in parte, la differente velocità di ripresa dell’economia tedesca rispetto a quella italiana. Vale la pena di ricordare che ad oggi l’Italia è l’unico paese il cui PIL è ancora al di sotto del livello pre-crisi del 2007.

Sarebbe meglio per le imprese italiane produrre tutto all’interno (Italia First?) e non partecipare alle GVC? La risposta è inequivocabilmente negativa. In primo luogo, esiste già una forma di assicurazione contro il rischio di uno shock al paese che provochi una interruzione delle forniture dall’estero. Infatti, il valore aggiunto interno contenuto nelle esportazioni italiane è alto, mediamente pari al 78%, certo con sensibili differenziazioni settoriali (elaborazioni ICE su dati OCSE-OMC, banca dati TIVA, 2015) e, dunque, è forte la nostra indipendenza da beni intermedi prodotti all’estero.  Ovviamente, non c’è alcuna forma di assicurazione se lo shock è tutto interno, se è il paese stesso a trovarsi costretto a serrare le proprie fabbriche.

In secondo luogo, come dimostrato da una ampia letteratura (si veda il rapporto della World Bank 2020), attraverso la divisione internazionale del lavoro, le imprese aumentano la propria efficienza e produttività traendo vantaggio dalle economie che si generano all’interno delle GVC: si tratta delle economie di specializzazione e   delle economie di scala, riconducibili alla estensione del mercato. E questo vale anche per le imprese italiane. In un lavoro recente, Agostino et al. 2019, sulla base di un campione rappresentativo di imprese italiane, mostrano che esiste un “effetto GVC”, vale a dire che il guadagno di efficienza tecnica (calcolato applicato il metodo DEA) è maggiore sia per le imprese fornitrici (suppliers) che per le imprese finali collocate all’interno delle GVC, rispetto alle stesse tipologie (finali e suppliers) che vendono esclusivamente sul mercato interno. Nella figura 2, spostamenti verso destra della distribuzione indicano alti livelli di efficienza per una quota più elevata del campione; viceversa, distribuzioni che si collocano verso sinistra indicano bassi livelli di efficienza per una frazione più elevata del campione.

Figura 2.

Il COVID19 coglie l’Italia in una fase che è già di particolare debolezza, dovuta alla sensibile riduzione del valore aggiunto del manifatturiero, causata in parte dalla crisi del settore dell’auto in Germania, che si riverbera sul settore italiano. Secondo le stime correnti, nel 2019 il PIL italiano è cresciuto dello 0,3%. La probabilità che i due shock da domanda e da offerta colpiscano più duramente l’Italia rispetto agli altri paesi è molto alta. Lo abbiamo imparato dalla crisi del 2008. Gli impatti causati dal rompere uno o più anelli delle GVC concorrono ad elevare questa probabilità. Il COVID19 ha colpito le imprese delle regioni a maggiore traino competitivo internazionale, come Lombardia, Emilia- Romagna e Veneto (incidenza di circa il 40% sul PIL nazionale), che, a loro volta, alimentano la catena di fornitura locale, è il fenomeno delle cosiddette “imprese esportatrici indirette”.

Una ripresa sfalsata tra paesi potrebbe comportare un deterioramento del posizionamento italiano sui mercati internazionali. Nello scenario peggiore in cui il costo di cambiare fornitore sia basso (switching cost), le imprese italiane potrebbero essere “spiazzate” da concorrenti avvantaggiati da sistemi nazionali che garantiscono un “superscudo” alle proprie economie. Un esempio: il piano corrente della Germania per proteggere l’economia dal COVID19 vale 1500 miliardi di euro, il 45% del PIL tedesco.

“Levelling the playing field”, vale a dire garantire, già da ora in pieno shock pandemico e senza porre condizionalità, parità di condizioni di ripresa tra i paesi è quello che si richiede in queste ore all’Europa, perché ci sia un futuro che ancora possa dirsi europeo.

Schede e storico autori