Lo chiamavano Dignità

Civil Servant sostiene che l’apprezzabile obiettivo del “Decreto Dignità” di ridurre la precarietà del lavoro difficilmente verrà raggiunto con gli strumenti previsti. A suo parere, in tutte le economie, l’incertezza sulla domanda e sulla tecnologia richiede una quota di lavoro precario, che è tanto maggiore quanto più le imprese sono di piccole dimensioni. Pertanto, solo stabilizzando le prospettive di crescita e favorendo l’aggregazione delle imprese si può incentivare l’occupazione permanente. Inoltre, la flat tax potrebbe contribuire a polverizzare il tessuto produttivo e a rendere precarie molte figure professionali.

Il “Decreto dignità” persegue il nobile scopo di stabilizzare le prospettive di lavoro e di vita delle famiglie. Se ci riuscisse sarebbe un grosso successo per la coesione sociale, ma soprattutto per la crescita di questo paese, visto che chi può contare su un reddito stabile può anche permettersi di spendere di più e di investire in capitale umano, abitazioni, beni durevoli. E’ quindi opportuno interrogarsi sull’efficacia dei provvedimenti che tendono a ridurre la precarietà dei posti di lavoro facendo leva su regole e incentivi, tenendo conto del dibattito economico, dell’esperienza internazionale e delle specificità italiane.

Dal punto di vista teorico, si è ritenuto per lungo tempo che la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro fosse sufficiente a stimolare la domanda di lavoro da parte delle imprese ed a favorire l’assorbimento di lavoratori con minore esperienza e specializzazione. Lo stesso approccio suggeriva di incentivare l’occupazione complessiva e quella a tempo indeterminato attraverso sgravi fiscali per le imprese. Tuttavia più un decennio di crescita con bassa occupazione e la Grande Recessione hanno indotto anche l’OCSE a rivedere questa job strategy.

Il “Decreto dignità”, abbandonando la logica della massima liberalizzazione del mercato del lavoro, rappresenta indubbiamente un passo nella giusta direzione. Tuttavia anch’esso trascura il fatto che le imprese domandano lavoro stabile solo se possono contare su un fatturato ed un fabbisogno di skills altrettanto prevedibili. E questo vincolo è ancora più stringente per le piccole imprese, che generalmente non hanno margini di redditività sufficienti per retribuire i propri lavoratori anche quando c’è un calo della domanda o c’è necessità di ristrutturarsi. I dati Istat-ASIA confermano questa ipotesi. Prima del Jobs Act nelle imprese con meno di 50 addetti la quota di lavoratori a tempo determinato era superiore alla media (13,7% contro l’11,5% delle imprese maggiori nel 2014). Dopo l’introduzione degli incentivi previdenziali e del contratto a tutele crescenti, che hanno ridotto drasticamente il rischio ed il costo dei contratti permanenti, questa quota è scesa significativamente (al 12,2% nel 2016). Al contrario, nelle imprese maggiori, che presumibilmente sono meno esposte alle difficoltà organizzative e di bilancio delle piccole, la percentuale dei lavoratori a termine è aumentata nonostante il Jobs Act (al 12,5%, soprattutto grazie ad un balzo nelle imprese con oltre 250 addetti).

Il decreto, inoltre, non affronta il caso della pubblica amministrazione, che ricorre al lavoro a termine non tanto per l’incertezza sull’organizzazione, sulla domanda o per le sue fluttuazioni stagionali, quanto per l’esigenza di comprimere i costi, a fronte di una pressione fiscale e para-fiscale giudicata politicamente insostenibile. Non a caso, il lavoro a tempo determinato è molto diffuso, oltre che nell’agricoltura e nel commercio, nella sanità e la scuola, dove sostituzioni, supplenze e collaborazioni sono ormai diventate una delle forme di lavoro più diffuse.

Non bisogna dimenticare che gran parte delle posizioni creati dalla gig economy, dall’e-commerce e dalle mitiche start-up ha una natura intrinsecamente precaria. Una legislazione sul lavoro sempre più favorevole alle imprese, la debolezza dei sindacati e gli elevati livelli di disoccupazione hanno fatto il resto. Quindi è probabile che l’economia e i governi si debbano attrezzare per convivere con una precarietà del lavoro mai conosciuta in passato. E’ necessario riconoscere che esiste una crescente domanda di lavoro precario, che è difficile da comprimere anche ricorrendo a disincentivi e divieti come quelli introdotti dal “Decreto dignità”.

Da questo punto di vista, non ha avuto successo neanche il “Jobs Act”, che ha seguito una logica opposta, ossia rendere i nuovi contratti a tempo indeterminato instabili quasi quanto quelli a termine ampliando i casi in cui il licenziamento ha solo un (modesto) costo aggiuntivo per le imprese. Lo testimoniano sia le analisi fatte all’indomani dell’introduzione delle nuove regole per il mercato del lavoro (vedi il numero monografico di questa rivista del 2015 e il contributo di Marta Fana e Michele Raitano), sia le ultime analisi di Laura Bisio e Davide Zurlo. Insomma non è servito a molto neanche cambiare radicalmente la natura di un rapporto di lavoro che ora, a differenza del passato, è più esposto al rischio di essere interrotto da un momento all’altro. Forse bisognerebbe riconoscere pragmaticamente che la distinzione netta tra contratti a tempo determinato e a scadenza è puramente nominalistica e offre il fianco anche alla manipolazione dei dati statistici sull’occupazione. Chiamare “a tempo indeterminato con garanzie crescenti” un rapporto che può essere sciolto abbastanza semplicemente (e con indennizzi che in realtà non crescono affatto oltre una certa anzianità di servizio) non riduce la precarietà e, a quanto pare, non ha neanche indotto le imprese ad abbandonare il ricorso alle tradizionali forme di flessibilità. D’altra parte, non ci si poteva aspettare una impennata dei matrimoni e una caduta delle relazioni extraconiugali dopo l’introduzione del divorzio, la successiva riduzione dei tempi di attesa dopo la separazione e la recente giurisprudenza meno generosa sull’entità degli assegni divorzili.

Risultati anche peggiori hanno dato gli sgravi contributivi temporanei per l’assunzione di personale a tempo indeterminato, soprattutto se donne, giovani e meridionali. Non ci si può aspettare, infatti, che incentivi puramente temporanei possano influire su decisioni, come quella di aumentare in modo permanente il proprio personale, che hanno conseguenze di lungo periodo. Simili agevolazioni possono solo determinare un anticipo delle assunzioni già programmate in base alle aspettative sulla evoluzione del mercato. Così, dopo un iniziale aumento delle assunzioni per usufruire degli incentivi, si registra tipicamente una caduta, fino a quando i livelli occupazionali avranno raggiunto quelli desiderati sul lungo periodo. D’altro canto, a nessuno verrebbe in mente di tenersi in casa per sempre il proprio barbiere, per quanto bravo e simpatico, solo per usufruire di eventuali generosissimi contributi per la sua assunzione.

Per valutare, almeno approssimativamente, quanto incide la domanda di lavoro flessibile nell’economia è utile sommare la percentuale di lavoratori a tempo determinato e quella degli autonomi senza dipendenti, che rappresentano forse la forma di occupazione in assoluto meno garantita. Si tratta di una misura indubbiamente grossolana per diversi motivi. Per prima cosa, la misura non tiene conto della reale flessibilità dei contratti che nominalmente non hanno scadenza e sottostima la platea dei lavoratori che, pur essendo stabili, sono costretti ad un part time involontario. D’altra parte, esistono alcuni lavoratori autonomi, non necessariamente super specializzati, che possono contare su una stabilità degli introiti perfino superiore a quella garantita dal posto fisso tradizionale.

La successiva tabella riporta i dati relativi ai maggiori paesi europei. Come si vede, almeno il 23% dei lavoratori dell’Eurozona non possono contare sul tradizionale posto fisso (ammesso che i contratti nominalmente a tempo indeterminato lo garantiscano) e tale percentuale è rimasta sostanzialmente stabile rispetto a prima della crisi. Di questi oltre la metà (13,5-13,6%) sono dipendenti con contratti a termine. La situazione è abbastanza variabile tra i diversi paesi. Si passa da un apparente paradiso della stabilità come l’Austria, dove nel 2017 risultava “stabile” quasi l’86% degli occupati, a livelli di precarietà che coinvolgono circa un terzo degli occupati come in Polonia e Spagna. In quasi tutti i paesi la flessibilità del lavoro è aumentata dal 2008 ad oggi, con punte di quasi 6 punti percentuali in Olanda e 4 in Danimarca, ossia in due dei paesi più avanzati per quanto riguarda il welfare. E lo stesso trend ha interessato anche il Regno Unito, che pure non partiva da livelli di protezione sociale elevatissimi. Tuttavia ci sono almeno due paesi, molto diversi tra loro, come Germania e Portogallo, in cui la quota di lavoratori più flessibili è diminuita.

 

Il lavoro flessibile in Europa

E’ interessante notare come gran parte dell’eterogeneità tra i paesi sia dovuta alla quota dei dipendenti a tempo e alla sua evoluzione nel tempo. Ad esempio, tale percentuale è aumentata di 4 punti in Danimarca e tra 1,8 a 2,4 punti in Belgio, Italia e Olanda. Generalmente l’aumento delle posizioni autonome è stato accompagnato anche da una riduzione della scadenza dei contratti di lavoro dipendente, a conferma che la domanda di lavoro molto flessibile è stata soddisfatta ricorrendo, quasi indifferentemente, ad entrambe le forme contrattuali. Il quadro normativo e fiscale, che varia molto da paese e paese, sembra dunque aver influito abbastanza poco sul livello di precarietà complessiva delle posizioni lavorative.

Posto in questi termini, il problema della stabilizzazione di rapporti di lavoro non sembrerebbe avere soluzione, se non l’introduzione di controlli sovietici su qualsiasi attività economica. E il “Decreto dignità” lascia talmente tante scappatoie da non avvicinarsi neanche lontanamente a quest’ultimo deprecabile modello. Per esempio, la “motivazione” richiesta per il rinnovo dei contratti impone solo un modesto sforzo di fantasia da parte dei loro estensori. Allo stesso modo, il divieto di rinnovi multipli può essere facilmente aggirato ricorrendo a società compiacenti che accettino di iscrivere i lavoratori a libro paga per conto del reale utilizzatore. Infine il limite del 30% per i contratti a termine non impedisce il ricorso al lavoro ancora più precario di soggetti con partita IVA. Senza contare che il popolo delle partite IVA è destinato a crescere se, come è probabile, i loro redditi saranno soggetti ad una flat tax molto più favorevole dell’Irpef che continueranno a pagare lavoratori dipendenti e pensionati.

Si può sperare in una maggiore stabilizzazione dei lavoratori ricorrendo ad un altro approccio, molto meno burocratico. Come si è visto, la domanda di precarietà dipende sostanzialmente da quattro fattori: i trend di lungo periodo della tecnologia; l’incertezza (soprattutto su domanda e tecnologia); piccola dimensione delle imprese; e, in paesi come il nostro, la compressione dei costi del personale nella pubblica amministrazione. Sulle tendenze secolari verso la riduzione del contenuto di lavoro dei prodotti temo che si possa fare ben poco, a parte una progressiva riduzione degli orari di lavoro a parità di retribuzione, come è avvenuto negli ultimi secoli, ma si tratta di un processo lento e che difficilmente può essere imposto dall’alto. L’incertezza in cui operano le imprese può essere ridotta, ma non eliminata, garantendo un flusso prevedibile di commesse pubbliche (possibilmente con tempi certi sui pagamenti), assicurando la promozione sui mercati esteri, fornendo assistenza per la riorganizzazione delle imprese, ecc. Il problema della dimensione troppo piccola delle imprese può essere affrontato con adeguati strumenti di politica industriale, che diano forti incentivi alle fusioni e alle aggregazioni tra piccole imprese…in una parola: il contrario del supporto alla nascita di altre micro-imprese destinate a rimanere troppo piccole per assorbire personale a tempo indeterminato e ad alta qualificazione. Per quanto riguarda i comportamenti controproducenti della pubblica amministrazione, non dovrebbe essere troppo difficile scoraggiare la proliferazione del precariato in settori chiave come la ricerca, la sanità e l’istruzione, anche imponendo l’invarianza dei costi per le singole amministrazioni.

Tra i provvedimenti che invece non avranno quasi sicuramente alcun impatto sulla precarietà, potremmo indicare: gli incentivi a pioggia per assunzioni a tempo indeterminato (…ma più facili da revocare); l’imposizione di obblighi puramente burocratici sulla durata e il rinnovo dei contratti a termine; l’ulteriore flessibilizzazione dei rapporti a tempo indeterminato (…che resta un traguardo difficile da rispettare in quasi tutte le relazioni umane). Quanto agli sconti fiscali per gli autonomi, prefigurati dal primo modulo della flat tax, è probabile che essi aumenteranno la convenienza per lavoratori e imprese a sostituire rapporti di lavoro dipendente (soprattutto a termine) con prestazioni a partita IVA. Così le statistiche ufficiali registreranno una diminuzione della quota dei lavoratori a termine sugli organici aziendali, mentre in realtà cresceranno la polverizzazione del tessuto produttivo e l’incertezza dei lavoratori passati a posizioni formalmente autonome.

Schede e storico autori