L’Italia e il gioco delle tre carte

Paolo Paesani prende spunto dalle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia e dalla risposta del Ministro dell’Economia ai recenti rilievi della Commissione Europea per riflettere sulla situazione dell’economia italiana e sui rischi che comporta seguire una strategia di politica economica che oscilla tra il rispetto degli standard europei e il ricorso a misure creative che tendono a negare quegli standard.

Negli ultimi giorni, tre documenti hanno animato la scena economica italiana, alimentando commenti, polemiche e retroscena. Questi tre documenti sono le Considerazioni Finali del Governatore della Banca d’Italia, la lettera inviata dal ministro dell’Economia Giovanni Tria alla Commissione Europea, la mozione Baldelli sui cosiddetti Minibot. Leggere insieme questi tre documenti dà un’idea della situazione attuale e dei rischi a breve e medio termine che dovremo affrontare.

In apertura delle Considerazioni finali, il governatore Visco ha ricordato come il sistema di istituzioni e regole sovranazionali che dal dopoguerra ha sostenuto lo sviluppo economico mondiale sia entrato in una fase di grave difficoltà. Le tensioni connesse con la nuova strategia protezionistica da parte del governo statunitense si manifestano sullo sfondo di un congiuntura internazionale che sta rallentando. Il Fondo Monetario internazionale stima – per il 2019 – un tasso di crescita globale del 3,3% il più basso dal 2009 a questa parte. Per l’Unione europea lo stesso dato è pari a poco più dell’1%. Per l’Italia si prevede un valore ancora più basso. Non è trascurabile il rischio che gli andamenti effettivi siamo meno favorevoli di quelli previsti.

Le tensioni recenti sul mercato del debito pubblico italiano aggravano la situazione. In questo momento, il rendimento dei BTP a dieci anni è di quasi un punto percentuale più alto dei valori osservati nel mese di Aprile 2018. Il differenziale coi Bund tedeschi è passato da 160 punti base, un anno fa, a circa 280 punti base. I premi sui credit default swaps, indicano una percezione in aumento, da parte degli investitori, sia del rischio di credito sia del rischio di ridenominazione del debito italiano in una valuta diversa dall’euro.

In questo contesto, l’arrivo della lettera con la quale la Commissione europea invitava il Governo italiano a giustificare il ritardo nell’aggiustamento del debito pubblico, rispetto agli impegni presi l’anno precedente, non ha certo aiutato. Aldilà delle fughe di notizie e delle polemiche che hanno accompagnato la sua diffusione, la risposta ufficiale del Ministro Tria conferma il quadro tratteggiato da Visco nelle Considerazioni finali.

Il peggioramento della congiuntura internazionale, il rallentamento del commercio, il persistere di rischi deflazionistici e di un tasso di disoccupazione elevato, contribuiscono a giustificare lo scostamento italiano rispetto al programma di aggiustamento del debito concordato a Bruxelles. Alla rilevazione di un peggioramento del disavanzo strutturale italiano dal 2,1 al 2,2% del PIL, segnalata dalla Commissione, il ministro Tria risponde opponendo tre argomenti.

Primo, la Commissione sottostima lo scarto tra il PIL italiano e il suo livello potenziale, sovrastimando – di conseguenza – lo scostamento del deficit strutturale dall’obiettivo. Secondo, i dati più recenti sull’andamento dell’economia e sul gettito fiscale fanno ritenere che il disavanzo dovrebbe attestarsi significativamente sotto le stime della Commissione. Terzo, l’aumento del rapporto debito/PIL nel 2018 è dovuto, in parte, alla necessità di accrescere la liquidità di tesoreria in previsione di consistenti rimborsi di titoli all’inizio del 2019.

Alla luce di queste considerazioni, il Governo s’impegna a portare il disavanzo dal 2,4%, stimato dal Programma di Stabilità italiano per il 2019 (2,5% secondo la Commissione) al 2,1% nel 2020. Parte di questo aggiustamento, pari a circa 60 miliardi di euro, è affidata all’attesa di incassi da privatizzazione per 18 miliardi di euro (pari a 1 punto di PIL), parte da a un piano complessivo di riforma dell’imposizione fiscale sul reddito delle persone fisiche, coerente con gli obiettivi di bilancio per il triennio 2020-2022. In assenza di alternative, l’aumento dell’IVA previsto dalle clausole di salvaguardia dovrebbe comportare incrementi di entrate per oltre 23 miliardi di euro nel 2020 e di 28 miliardi nel 2021.

La vicenda delle clausole di salvaguardia è emblematica di un approccio comune che i governi italiani negli ultimi anni hanno adottato nei confronti della Commissione Europea; rispettare Patto di Stabilità e Crescita e Fiscal Compact, attraverso un mix di atti concreti (contenimento della spesa, mantenimento di una pressione fiscale elevata) e promesse di correzione strutturale, sempre più ambiziose, rimandate da un anno all’altro. Questa combinazione, riflesso della complessa situazione politica del nostro paese e delle difficoltà strutturali dell’economia italiana, rischia di causare quello che Carlo Cipolla, ragionando sulle leggi fondamentali della stupidità umana, avrebbe chiamato un pessimo paretiano, una situazione in cui si danneggiano gli altri (l’economia italiana), danneggiando al tempo stesso se stessi (la reputazione del governo italiano).

Da un lato, il tono della politica fiscale italiana rimane sostanzialmente restrittivo e poco favorevole alla crescita. Il disavanzo nominale non eccede il 3%, l’avanzo primario resta tale, la pressione fiscale non diminuisce, gli investimenti pubblici sono ridotti a vantaggio della spesa corrente, la Pubblica Amministrazione paga in ritardo. Dall’altro lato, vuoi per ragioni elettorali vuoi per altri motivi, aleggia intorno al bilancio italiano un’aria di precarietà, che alimenta i dubbi degli investitori ed espone i governi ai rischi della procedura per deficit eccessivo. Il ricorso a misure tampone che disinnescano le clausole di salvaguardia, salvo riproporle per gli anni successivi a livelli sempre più irrealistici, realizza il duplice risultato di deprimere l’economia e alimentare l’idea che i governi italiani giochino con carte truccate, bluffando fin quando la Commissione europea deciderà di non scoprire quel bluff.

La tensione tra rispetto degli standard europei e ricorso a misure creative che negano quegli standard, appare in tutta evidenza in una mozione parlamentare a prima firma di Simone Baldelli (Forza Italia) approvata il 28 maggio di quest’anno. La mozione esordisce ricordando come il ritardo della P.A. nei pagamenti alle imprese costituisca un elemento di debolezza dell’economia italiana, con ulteriori costi a carico dell’Amministrazione sia in relazione alla gestione del debito sia i forza dell’obbligo del pagamento di mora e interessi.

A inizio maggio 2019 il debito generato nel 2018 e ancora da onorare è pari a circa 27 miliardi di euro (la differenza tra 148,6 miliardi di euro di fatture emesse e 120,7 miliardi di euro di fatture pagate). Alla stessa data, lo stock complessivo del debito (scaduto e non) è pari a circa 57 miliardi di euro (dati Siope plus). Si registra negli ultimi mesi un miglioramento dei tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni, che risultano prossimi a quelli previsti dalla normativa dell’Unione europea.

Il recepimento della Direttiva 2011/7/EU in materia di ritardo nei pagamenti per le transazioni commerciali da parte dell’Italia, (Decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192) , prevede l’obbligo per la P.A. di pagare le imprese creditrici entro il termine massimo di 30 giorni, pena interessi di mora dell’8 per cento al di sopra di quello di riferimento della Banca centrale europea (Euribor). Sono previste possibilità di deroga, che devono in ogni caso essere giustificate e approvate dalla Commissione europea, con estensione del termine a 60 giorni, solo per alcuni casi specifici, come nel caso del settore sanitario.

Nonostante gli sforzi per ridurre i debiti commerciali pregressi e accelerare il ritmo dei pagamenti, il 7 dicembre 2017 la Commissione europea ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea, definendo «sistematico» il ritardo con cui le amministrazioni pubbliche italiane effettuano i pagamenti nelle transazioni commerciali. Inoltre, il 7 giugno 2018 la Commissione europea ha deciso di inviare un ulteriore parere motivato all’Italia in quanto il suo diritto nazionale non è conforme alla direttiva 2011/7/UE.

Ciò premesso, la mozione Baldelli impegna il Governo a sbloccare il pagamento dei debiti della P.A. verso imprese e professionisti, attraverso l’adozione d’iniziative per: a) stabilizzare il meccanismo di compensazione tra crediti commerciali e debiti tributari, b) ampliare le fattispecie ammesse alla compensazione tra crediti e debiti della pubblica amministrazione, oltre che la cartolarizzazione dei crediti fiscali, anche attraverso strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio, c) modificare la normativa degli appalti nelle parti non conformi alla direttiva sui ritardi di pagamento n. 2011/7/UE, d) modificare la disciplina relativa al documento unico di regolarità contributiva (durc), e) accelerare il processo di adesione di tutte le amministrazioni pubbliche all’infrastruttura digitale Siope Plus.

Proporre una misura che prefigura l’introduzione di una moneta parallela rispetto all’euro, questo sarebbero i titoli di Stato di piccolo taglio sui quali torneremo nelle prossime settimane, all’interno di una mozione che impegna il Governo ad adottare misure per avvicinare l’Italia agli standard europei in materia di pagamenti è un esempio di scarsa lungimiranza per non dire stupidità –nel senso in cui Cipolla utilizza questa parola.  Al di là delle intenzioni di chi l’ha promossa e di chi l’ha votata, la mozione Baldelli rischia di alimentare la sfiducia nei confronti dell’emittente italiano, aumentando l’onere del debito pubblico e rendendo più difficile onorare quei pagamenti arretati verso le imprese e i professionisti che la mozione stessa si propone di accelerare.

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