L’istituto dello stage: elemento inquinante del lavoro giovanile italiano

Claudia Valenti riflette sull’istituto dello stage in Italia e analizza il suo funzionamento all’interno del mondo del lavoro giovanile. Partendo dai disagi che sono derivati ai tirocinanti dalla crisi del Coronavirus, Valenti documenta le disuguaglianze territoriali che esistono nella gestione degli stage e sottolinea il graduale deterioramento di questo genere di contratto, nato come momento di formazione e avviamento al lavoro, ma trasformatosi negli anni in un surrogato del lavoro sottopagato.

Era il 10 marzo, quando decine di migliaia di stagisti sono stati sospesi a causa del Coronavirus: 45-50 mila ragazzi, fra i 20 e i 35 anni, si sono ritrovati bloccati a casa, impossibilitati nel proseguire il loro lavoro, e si sono messi in attesa di capire cosa sarebbe successo. La situazione era molto confusa e non era chiaro quanto sarebbe durata. Alcune aziende hanno proposto delle soluzioni per far proseguire le attività dei loro stagisti, come quella di farli lavorare da casa attraverso il cosiddetto “smart internship”. Ma non tutte ci sono riuscite, perché l’ultima parola è spettata alle Regioni.

La Conferenza Stato-Regioni non ha fornito una linea comune da seguire in materia di stage ai tempi del Covid-19. Ciascuna, quindi, ha agito in maniera diversa. Come racconta la Repubblica degli Stagisti, alcune Regioni si sono rese subito disponibili ad attivare i tirocini da remoto, come Lombardia ed Emilia-Romagna, e più tardi Abruzzo, Toscana e Trentino-Alto Adige. Altre, come il Veneto, hanno lasciato al soggetto ospitante la libertà di decidere il da farsi. Altre ancora si sono rifiutate di concedere l’attivazione del lavoro da casa e hanno deciso di proseguire con la sospensione, come Piemonte, Sardegna, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia. Valle d’Aosta e Molise, invece, non hanno dato precise indicazioni in merito. Numerosi stage quindi sono rimasti sospesi, altri sono stati addirittura revocati in maniera definitiva, altri ancora, che sembravano interrotti, sono stati alla fine riattivati da remoto, perché alcune Regioni, come il Lazio, sono tornate sui loro passi e hanno acconsentito allo svolgimento dello “smart internship”. Tutto ciò ha creato molto disordine e ha aumentato il risentimento di tanti giovani, trattati diversamente a parità di situazioni.

Gli stagisti sospesi e quelli “licenziati” si sono ritrovati senza l’introito economico che derivava loro dall’indennità mensile prevista dal tirocinio. Il 17 marzo è uscito il Decreto Cura Italia, che riportava l’elenco delle categorie di lavoratori a cui sarebbe spettata un’indennità di 600 euro a copertura delle perdite economiche subite a causa del Coronavirus. Gli stagisti però non erano nell’elenco. Può sembrare un problema da poco, perché spesso si pensa alla figura del tirocinante come a un giovane studente-lavoratore, che vive ancora a casa con i genitori e non ha un reale bisogno di sostegno economico. Ma non è così. La categoria del tirocinante include giovani che appartengono a una fascia d’età piuttosto ampia, che va dai 20 ai 35 anni. Fra i tirocinanti quindi ci sono anche: quei giovani che, pur vivendo nella casa d’origine, cercano di mantenersi da soli economicamente in vista di un’autonomia definitiva; tutti coloro che vivono da soli o che, essendosi spostati in un’altra città o regione proprio per svolgere lo stage, devono sostenere spese necessarie, come quelle dell’affitto di una casa. Ecco perché l’epidemia di Covid-19, l’interruzione dell’indennità che ne è conseguita e la negligenza del governo hanno causato forti disagi anche ai tirocinanti e alle loro famiglie.

Solo alla fine di aprile, dopo quasi due mesi di stallo, alcune Regioni si sono mosse per attivare delle misure di tutela: l’Emilia-Romagna, seguita da Toscana e Calabria, ha erogato 450 euro per ogni stagista sospeso; la Regione Lazio invece ha stanziato un’indennità di 600 euro a stagista, attivando il “Piano Generazioni Emergenza Covid-19”. Le altre Regioni hanno continuato a ignorare il problema, persino la Lombardia, che ad oggi vanta il numero maggiore di giovani rimasti senza alcun sostegno: ben 75 mila. Da un articolo de La Repubblica, emerge che nel prossimo “Decreto legge Rilancio” gli stagisti non verranno nemmeno menzionati, nonostante alcune deputate, Chiara Gribaudo per il Pd e Rosalba Testamento per il M5S, abbiano spinto per l’approvazione di un sostegno economico agli stagisti. L’indifferenza del governo di fronte a questa situazione è un’altra triste conferma del fatto che al tirocinante, purtroppo, non viene riconosciuto alcun ruolo all’interno di questa società. L’istituto dello stage si era col tempo deteriorato e ora ce ne stiamo accorgendo: il Coronavirus ce lo sta dimostrando con forza.

Lo stage è nato in Italia alla fine degli anni Novanta. Con questo termine si indicava una forma di inserimento temporaneo dei giovani all’interno di un’azienda o di un’organizzazione, pubblica o privata, allo scopo di realizzare un progetto di formazione, che consentisse allo stagista di acquisire professionalità e di avviarsi al mondo del lavoro. Lo stage quindi non costituiva un rapporto di lavoro.

Oggi però lo stagista si comporta come se fosse un lavoratore dipendente: si reca in azienda per un totale di 40 ore settimanali e svolge mansioni spesso professionali. Il suo non è un contratto di lavoro vero e proprio, perciò non ha diritto a ferie, permessi, giorni di malattia, contributi né al trattamento di fine rapporto. Per lo stesso motivo, ciò che il tirocinante riceve ogni mese non può essere definito “stipendio”, ma viene chiamato “rimborso spese”. Un tempo, questo rimborso spese non era obbligatorio; ora, almeno, lo è diventato. Ma l’entità del rimborso non è fissa: varia da regione a regione. Come abbiamo già visto infatti parlando delle risposte al Coronavirus, in materia di stage le Regioni non sono allineate e causano delle disparità territoriali enormi in termini di opportunità. Alcune di esse, come Sicilia e Molise, prevedono per lo stagista un rimborso di 300 euro al mese; altre, come Sardegna e Calabria ne concedono uno di 400 euro; fino ad arrivare a un massimo di 800 euro al mese, come nel Lazio. Cifre del genere sono molto basse e non consentono a un giovane di mantenersi da solo, costringendolo ad appoggiarsi alla famiglia. Il rimborso spese, inoltre, è tassato: pur non essendo un lavoratore, lo stagista deve cedere il 23% della propria indennità allo Stato per il pagamento dell’Irpef, quale che sia l’entità del suo reddito. Lo Stato italiano si augura infatti che lo stagista prosegua nel suo percorso professionale, con un altro stage o magari con un contratto di lavoro vero, e immagina che, alla fine dell’anno, il giovane avrà ottenuto un reddito tale da giustificare una tassazione (superiore a 8mila euro). Peccato che non sia sempre così: ad uno stage non ne segue subito un altro e raramente uno stage si trasforma in un contratto di lavoro nell’azienda o nell’organizzazione in cui ci si è formati (si verifica soltanto per il 19% dei tirocini entro un mese dalla conclusione dell’esperienza e per il 23% entro sei mesi). Lo stagista potrebbe richiedere un rimborso di ciò che ha pagato in maniera immotivata, molti però nemmeno lo sanno e talvolta la cifra è così irrisoria che non vale la pena avviare le pratiche per ottenerla. Lo stagista, inoltre, non può pagarsi i contributi in vista di una futura pensione, perché rientra ufficialmente nella categoria degli inoccupati: per lo Stato italiano non ha un lavoro vero, quindi non è occupato; ma non è nemmeno disoccupato, perché ufficialmente non ha mai lavorato. A conclusione dello stage, quindi, se non trova un’altra occupazione, non può neanche richiedere il sussidio di disoccupazione. L’Istat include gli stagisti nel conto dei Neet, quella fascia di popolazione costituita dai cosiddetti “giovani pigri”, che non sono occupati né inseriti in un percorso di istruzione o formazione. Tra di essi, ci sono giovani che hanno concluso due o tre stage, lavorando anche per due anni di seguito, che però per lo Stato non hanno mai lavorato. I centri per l’impiego li censiscono, barrando per loro la casella: “in cerca di prima occupazione”. Una ricerca che si rivela infinita.

Passare da uno stage a un contratto di lavoro non è semplice. Lo stagista comincia fiducioso a lavorare presso un’azienda o un’organizzazione, nella speranza di poterci rimanere il più a lungo possibile, ma dopo sei mesi termina la propria esperienza e quasi sempre si trova costretto ad andare via. Ha fatto appena in tempo ad ambientarsi, a instaurare delle relazioni, a capire i meccanismi lavorativi, che è già ora di andarsene. L’azienda, che fino a quel momento lo aveva coinvolto, a un certo punto smette di includerlo in una serie di dinamiche, poiché già sa che è un giovane che sta per “scadere”. Quanto impegno, sia per stagista che per i suoi datori di lavoro, nell’incontrarsi, capirsi, accordarsi per un periodo di tempo che poi risulta così breve. La maggior parte delle aziende e delle organizzazioni non tengono i loro stagisti perché non hanno uno spazio reale per loro. Gli stage infatti non vengono attivati nel momento in cui si libera una posizione lavorativa, affinché essa venga ricoperta da un giovane cresciuto in azienda e formato appositamente. Gli stage esistono solo per colmare alcune lacune lavorative e per supportare temporaneamente il lavoro di personale dipendente già assunto: i tirocinanti arrivano in luoghi di lavoro che sono quasi sempre già saturi. C’è bisogno di loro, ma solo a breve termine e, andato via uno stagista, se ne chiama un altro a tappare il buco. Non c’è modo di guardare oltre, non c’è spazio per un’assunzione futura. In questo modo lo stage si deteriora e perde la sua connotazione di essere una modalità di avviamento al lavoro, per diventare invece qualcosa di diverso: un surrogato del lavoro a basso costo.

NIdiL, Nuove Identità di Lavoro, la struttura sindacale della Cgil che rappresenta e tutela i lavoratori atipici, si sta occupando dell’istituto dello stage e dei suoi problemi. In una lettera del 31 gennaio 2020, indirizzata ai coordinatori regionali e ai segretari territoriali del NIdiL, si legge che è loro intenzione mettere in campo un lavoro di analisi e proposta politico sindacale in merito ai tirocini extracurriculari. Perché se “da una parte i tirocini extracurriculari rappresentano per le fasce sociali più deboli e difficili da inserire nel mercato del lavoro, uno strumento efficace in termini di contrasto alle discriminazioni e alle marginalità sociali”, dall’altra “sono letteralmente balzati agli onori della cronaca sindacale per l’utilizzo abusivo che spesso se ne è fatto. Negli ultimi dieci anni la crisi e la recessione hanno giocato un ruolo determinante nell’accelerazione del processo di frammentazione del mercato del lavoro, in cui troppo spesso la formazione è stata utilizzata per nascondere forme di sfruttamento e mascherare operazioni di dumping contrattuale”. Tra il 2012 e il 2017, il numero di attivazioni di stage in Italia è passato da 183mila a 344mila. Tale crescita è significativa e dimostra come lo stage sia diventato ormai un meccanismo ben radicato nel mercato del lavoro italiano, un circolo vizioso senza scampo: i giovani sono obbligati ad entrarvi per avviarsi alla professione, ma al contempo vi rimangono incastrati, senza prospettive di sviluppo, e sottopagati; le aziende, allo stesso modo, sopraffatte dalla crisi economico finanziaria e dalle politiche neoliberiste del mercato del lavoro, non possono esimersi dall’utilizzo degli stagisti per portare avanti le loro attività.

Tutto questo ha delle gravi implicazioni sociali. Se un giovane stagista non riesce a mantenersi da solo, è difficile che esca dalla casa d’origine. Non ci prova nemmeno, perché non ha sicurezze e dopo sei mesi potrebbe dover tornare indietro a chiedere aiuto ai genitori. Con il suo rimborso spese, non riesce a pagarsi un affitto né a sostenere le spese quotidiane. Quindi attende, aspetta di avere uno stipendio che gli permetta di compiere questo passo. Ma nel frattempo passano anni, si accumulano esperienze di stage, collaborazioni saltuarie e il giovane inoccupato raggiunge la soglia dei trent’anni. Non sa come fare, perché non riesce a progettarsi un futuro. Ha un rapporto sentimentale, ma non può costruirsi una famiglia. Ha un sogno professionale, ma non riesce a perseguirlo. Ha una serie di desideri esterni alla sfera lavorativa, che non può esaudire per la mancanza di uno stipendio. Un interessante articolo de Linkiesta raccoglie le testimonianze dei millennials, i giovani nati fra il 1981 e il 1995, che sono la generazione che più ha risentito di questa situazione. Dalle interviste emerge la loro frustrazione, il loro tentativo di reinventarsi continuamente, la loro visione di un lavoro a tempo indeterminato come un miraggio. I millennials, scrive Linkiesta, hanno subìto due grandi crisi finanziarie in soli dieci anni e ora sono stati colpiti ulteriormente dalla crisi causata dal Coronavirus.

È tempo di aiutarli e di pensare anche a loro.

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