L’intervento sulle “quattordicesime” dei pensionati. Si può fare di più?

Kaldor discute le due misure di sostegno dei redditi pensionistici medio-bassi delineate nella recente intesa fra Governo e parti sociali: l’aumento della no-tax area e il rafforzamento della “quattordicesima”, che può essere considerata una soluzione di ripiego rispetto alla troppo costosa estensione ai pensionati degli “80 euro”. Kaldor sottolinea che, anche dopo questi interventi, le prestazioni pensionistiche di base restano molto basse e permangono sovrapposizioni tra le diverse misure di integrazione della pensione.

Il verbale d’intesa sulle pensioni sottoscritto fra Governo e parti sociali lo scorso 28 settembre contiene due misure miranti al sostegno dei redditi medio-bassi. La prima, qui solo accennata, consiste nell’aumento di 97 euro della detrazione IRPEF per i pensionati di età inferiore a 75 anni, in modo da portare la corrispondente no-tax area a 8.125 euro, come per dipendenti e pensionati più vecchi. La seconda, sulla quale si concentra questo contributo, prevede di: a) aumentare di circa il 30% (secondo le dichiarazioni del ministro del lavoro riportate dalla stampa) l’importo della cosiddetta “quattordicesima” attualmente riconosciuta a 2,1 milioni di pensionati; b) estendere tale beneficio (senza l’aumento di cui sopra, dunque ai valori attuali) ad altri 1,2 milioni di pensionati attraverso l’aumento della soglia di reddito sotto la quale viene riconosciuto, da 1,5 a 2 volte il valore dell’integrazione al minimo (ovvero, da circa 750 a 1000 euro mensili).

La “quattordicesima” è stata introdotta con l’art. 5 del D. L. 81/2007 (governo Prodi) che ha previsto per le pensioni IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti, dunque non le assistenziali) erogate a favore dei pensionati di almeno 64 anni un supplemento annuale, pagato nel mese di luglio, pari dal 2008 a 336 euro. Tale supplemento sale a 420 e 504 euro, rispettivamente, in caso di anzianità contributiva superiore a 15 e 25 anni (per gli ex lavoratori dipendenti) o a 18 e 28 anni (per gli ex lavoratori autonomi). Il bonus viene riconosciuto per redditi individuali inferiori a 9.787 euro annui, con un successivo decalage della prestazione che la azzera in corrispondenza di un reddito annuo pari a 10.291 euro. E’ cumulabile con le altre maggiorazioni pensionistiche, salvo una riduzione di 156 euro nel caso venga riconosciuto contemporaneamente anche il “milione al mese” (attualmente 638,33 euro mensili).

La relazione tecnica del D. L. 81/2007 stimava la platea di beneficiari in 3.050.000 pensionati e un valore medio della prestazione di 379 euro, con una spesa annua complessiva per il bilancio pubblico di 1.156 milioni. In realtà, sia il numero di beneficiari che la spesa sono risultati inferiori alle attese: come riportato nel verbale d’intesa, gli attuali beneficiari sarebbero appena 2,1 milioni, dunque circa un milione in meno, mentre dal bilancio dell’INPS emerge una spesa complessiva attorno ai 900 milioni, per un importo medio della “quattordicesima” pari a 410-420 euro, dunque un po’ più alto del previsto. Estendendo la misura ad altri 1,2 milioni di pensionati e considerando che l’anzianità media, e dunque anche la prestazione media, aumentano col valore della pensione maturata, il costo per il bilancio pubblico dovrebbe risultare di poco superiore ai 500 milioni, mentre l’aumento del 30% del valore della quattordicesima per chi già ne beneficia dovrebbe portare un onere di ulteriori 300 milioni, per un totale attorno agli 800 milioni. L’onere potrebbe però ridursi se, come accaduto nel 2007/2008, la platea effettiva risultasse sensibilmente inferiore alle attese.

Di fatto, la misura ventilata segue il solco tracciato dagli “80 euro” mensili concessi ai lavoratori dipendenti dal maggio 2014: un trasferimento diretto di reddito ai ceti medio-bassi – in questo caso, come detto, chi già beneficiava della “quattordicesima” se la vede incrementare del 30%; chi aveva un reddito di poco superiore al limite per ricevere la prestazione ha ora diritto alla “quattordicesima” – che sovente è stato ricondotto dai commentatori a motivazioni elettorali e i cui effetti di promozione dei consumi sembrano, ad oggi, piuttosto deludenti. Va, tuttavia, evidenziato che il deteriorarsi delle condizioni di finanza pubblica non ha permesso di estendere anche ai pensionati l’erogazione degli “80 euro”, che avrebbe comportato un esborso di qualche miliardo, generando un aumento del 10-15% delle prestazioni minime pensionistiche. L’intervento sulla “quattordicesima” si caratterizza, dunque, come una soluzione “di ripiego” dal costo assai più contenuto. Peraltro, la norma degli “80 euro” si configura sostanzialmente come un aumento della detrazione per lavoro dipendente (la relativa normativa è esplicitamente richiamata, anche se la scelta del legislatore è stata di mantenerla distinta, per farla risaltare in busta paga), dunque la ventilata convergenza della no-tax area dei pensionati verso quella dei lavoratori dipendenti copre solo una piccola parte dell’accresciuto divario fra le due categorie.

La misura interviene unicamente sulle pensioni IVS, così ristabilendo una più netta differenza negli importi delle prestazioni pensionistiche di natura assistenziale e di natura previdenziale, che avevano teso a livellarsi drammaticamente negli ultimi anni anche come effetto del riconoscimento, come prestazione assistenziale, del “milione al mese” agli ultrasettantenni. A tale proposito, va però osservato che il livello minimo delle pensioni assistenziali rimane molto basso – considerando anche le maggiorazioni, 460,99 euro mensili fino a 69 anni, che salgono a 638,33 euro dai 70 anni – e non è tale da consentire una vita dignitosa a chi è privo di altri supporti.

Si è accennato al fatto che gli oneri potrebbero risultare inferiori a quanto preventivato se, come già successo, la platea dei beneficiari si rivelasse inferiore alle attese. D’altra parte, la platea potrebbe essere ben più vasta se ci si limitasse a considerare il numero di pensionati che godono di redditi pensionistici complessivamente inferiori ai 1.000 euro al mese: costoro sono, infatti, circa 7 milioni, fra i quali circa 2 milioni beneficiano di pensioni assistenziali e circa 4 milioni godono di pensioni IVS integrate al minimo (da 527,72 a 638,33 euro mensili con le maggiorazioni). Di fatto, anche limitandosi a considerare queste ultime, peraltro già sottoposte alla prova dei mezzi, la platea sarebbe significativamente superiore ai 3,3 milioni complessivi preventivati nel protocollo d’intesa (che corrispondono al dato 2016 dei soli trattamenti integrati al minimo INPS, esclusi dipendenti pubblici, ex Enpals e pensioni non INPS).

In effetti, può ben darsi che la platea dei beneficiari e i relativi oneri saranno, invece, sostanzialmente contenuti dall’interagire e dal sovrapporsi delle diverse prove dei mezzi cui sono soggette le varie integrazioni al reddito dei pensionati. Questo punta l’indice su una mancata semplificazione e razionalizzazione, che sempre più dà a questa materia un carattere etereo. Permangono, infatti, nel sistema pensionistico una pluralità di istituti rivolti alle stesse finalità, ciascuno soggetto ad una distinta prova dei mezzi (means test) e ciascuno rientrante in tutto, in parte o per niente nelle altre prove dei mezzi, secondo una logica a volte difficile da cogliere. Ad esempio, considerando solo le pensioni di vecchiaia, alla prestazione pensionistica di base possono sommarsi, le seguenti altre prestazioni:

  • l’integrazione al minimo (art. 6 D.L. 463/1983), che porta la prestazione pensionistica IVS ad una soglia 501,89 euro mensili (2016);
  • la maggiorazione sociale dei trattamenti minimi (a 1 L. 544/1988 e art. 69 comma 3 della L. 388/2000), pari a 25,83 euro mensili dai 60 ai 64 anni e a 82,64 euro mensili dai 65 ai 69 anni, che porta la pensione minima 2016 nelle due classi di età rispettivamente a 527,72 e 584,53 euro mensili;
  • l’incremento della maggiorazione sociale dei trattamenti minimi (il “milione al mese” di cui all’art. 38 della L. 448/2001), che porta la maggiorazione sociale dei trattamenti minimi a 136,44 euro mensili, per un totale di 638,33 euro mensili dai 70 anni, requisito ridotto di un anno ogni 5 di contribuzione;
  • la “quattordicesima” (come visto ex art. 5 del D.L. 81/2007), che, a a seconda dell’anzianità contributiva, ammonta a 336, 420 o 504 euro, pagati annualmente a luglio;
  • l’ulteriore integrazione annua di 154,94 euro (art. 70 comma 7 della L. 388/2000), pagata annualmente a dicembre, con la tredicesima.

Ognuna di queste misure è sottoposta ad una distinta prova dei mezzi, con diverse soglie di reddito e relative definizioni e, a volte, una differente modulazione per età. La prova dei mezzi è solitamente applicata sulla base del reddito familiare, ma, nel caso della “quattordicesima”, si tiene conto del solo reddito individuale. Si noti, peraltro, che in nessuna di queste misure per la prova dei mezzi viene considerata la ricchezza o viene utilizzato l’ISEE.

L’estrema frammentazione delle misure deriva probabilmente dal fatto che ognuna di queste ha dovuto, tipicamente, coniugare da un lato l’esigenza da parte del policymaker di darne separata evidenza agli occhi degli elettori, dall’altro la scarsità di risorse, che ha spinto ad una forte “customizzazione” del means test, con effetti a volta paradossali (ad esempio, in una coppia di pensionati al minimo, solo uno dei due può godere del “milione al mese”). D’altra parte, la semplificazione e razionalizzazione di una materia che proprio per tale ragione tende a diventare sempre più intrattabile non dovrebbe più essere rinviata, innanzitutto per individuare in base a un criterio uniforme le situazioni di maggiore bisogno e, in seconda battuta, per intervenire nel modo più efficiente ai fini del miglioramento dei livelli pensionistici minimi.

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